Siamo ormai al termine del tempo pasquale: tempo che ci è stato donato dalla madre Chiesa, perché imparassimo a “vivere nella luce” e potessimo dimostrare che siamo davvero “figli della luce”. Non è forse questo un titolo che ci spetta di diritto, dopo che siamo stati battezzati nell’acqua e nello Spirito Santo?
Con la meditazione che stiamo dedicando al messaggio che si ricava dalle letture bibliche noi desideriamo manifestare la nostra piena adesione alle verità che qui vengono annunciate; soprattutto vogliamo entrare in quel flusso di grazia e di luce che si sprigiona dalla parola di Dio e viene a illuminare il nostro cammino di fede.
1. La prima lettura di questa domenica ci presenta il grande evento del primo concilio di Gerusalemme; un evento della massima importanza che – al dire di Giovanni XXIII – deve essere considerato emblematico ed esemplare per ogni altro concilio ecumenico, compreso il Vaticano II.
Mettiamo in rilievo alcune caratteristiche di quel concilio, in modo da stabilire qualche confronto, soprattutto con l’ultimo concilio ecumenico.
La prima osservazione da fare è quella relativa alla causa o alle cause per le quali si rese necessaria quella convocazione. Il motivo emerge chiaro fin dall’inizio: alcuni, venuti dalla Giudea, sostenevano la necessità della circoncisione prima di essere battezzati. Altri invece, come Paolo e Barnaba, forti della loro esperienza missionaria, sostenevano il contrario. Era dunque necessario interpellare la Chiesa madre di Gerusalemme, nella quale erano presenti gli apostoli: non solo per conoscere il loro parere ma anche per seguire le loro direttive pratiche.
Il secondo rilievo è relativo alla formula finale: «È parso bene, allo Spirito Santo e a noi»: formula che tradisce una fede cristallina nella presenza di Dio, attraverso il suo Spirito, alla comunità credente: non solo nella Chiesa di Gerusalemme ma anche nella Chiesa di Antiochia nella quale operavano Paolo e Barnaba. Pluralità di Chiese alla ricerca dell’unità nella fede.
Il terzo rilievo è relativo alla delegazione che parte dalla comunità di Antiochia verso Gerusalemme; la stessa che poi partirà da Gerusalemme per ritornare ad Antiochia. Una delegazione, che non era composta solo da uomini apostolici come Paolo e Barnaba, «uomini che hanno rischiato la loro vita per il nome del nostro Signore Gesù Cristo», ma anche da altre persone, qualificate come «uomini di grande autorità tra i fratelli». Abbiamo forse qualcosa da imparare anche noi?
2. Il salmo responsoriale è un mix di invocazione di aiuto e di lode a Dio, riconosciuto come quel Dio che, nella storia della salvezza, ha dimostrato di essere pietoso, cioè sempre disposto al perdono e alla familiarità con il popolo da lui eletto.
La prima parte del salmo, in effetti, esprime il nocciolo fondamentale della fede di Israele: JHWH, il Dio che si è rivelato a Mosè, che ha liberato Davide dal suo duplice peccato, che si è fatto conoscere attraverso i profeti, è un Dio buono, clemente e misericordioso. Al confronto con lui impallidiscono tutti gli dèi degli altri popoli: nella loro rappresentazione, così succubi dei sentimenti umani, non possono reggere.
Al vero Dio il salmista eleva la sua invocazione: «Dio abbia pietà di noi e ci benedica, su di noi faccia splendere il suo volto». La ricerca del volto di Dio è una costante in tutto il salterio. Anche se Dio, nella spiritualità del Primo Testamento, non può essere visto da alcun uomo, tuttavia il desiderio di contemplare il suo volto è ripetutamente espresso: segno che l’uomo può desiderare anche ciò che Dio non sembra disposto ad accordargli.
Ma il ritornello ci orienta, piuttosto, verso un’interpretazione universalistica: «Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti». In effetti, questo è il messaggio sostenuto dalla parte finale del salmo: «Gioiscano le nazioni e si rallegrino… Ti lodino i popoli, o Dio, ti lodino i popoli tutti». Chiaro, dunque, che, nella fede di Israele come nella fede cristiana, il particolare e l’universale non si oppongono ma si integrano reciprocamente.
3. La seconda lettura è tratta dall’ultimo capitolo del libro dell’Apocalisse: una pagina squisitamente profetica, nella quale l’apostolo è destinatario di una visione meravigliosa, quella di Gerusalemme, «la città santa, che scende dal cielo, da Dio, risplendente della gloria di Dio».
La lunga descrizione che ne fa l’apostolo Giovanni induce a pensare che per lui era una visione importante. Ma a chi pensava l’autore? Soprattutto, che cosa voleva rivelare Dio mediante questa visione: non solo a Giovanni ma anche alle Chiese di tutti i tempi?
Giovanni non intendeva riferirsi solo alla Gerusalemme terrena, tanto meno alla sinagoga ebraica con la quale dimostra di assumere una posizione polemica. Piuttosto egli ha in mente una realtà trascendente: lo si deduce dalla descrizione che segue: misure stereotipe, valore simbolico del numero dodici, materiali preziosi ecc. Soprattutto dal fatto che «la città scende dal cielo, da Dio».
La descrizione richiama la perfezione della nuova Gerusalemme: una perfezione che non può essere riconosciuta alla città- terrena, la quale conserva pure la sua importanza.
In questo contesto sembra giocare un ruolo importante il numero dodici, che serve all’autore per riferirsi sia alle «dodici tribù dei figli d’Israele», sia ai «dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello». Possiamo perciò ritenere che l’apostolo Giovanni pensi alla Chiesa di Cristo come a quella realtà che porta a compimento la profezia del popolo dell’alleanza (cf. anche Ap 7,4-8).
4. La pagina evangelica è tratta dai “discorsi di addio” che Gesù pronunciò alla vigilia della sua passione. Siamo dinanzi ad una sorta di testamento, con il quale Gesù intende lasciare ai suoi discepoli le sue ultime volontà.
La prima consegna che Gesù fa ai suoi discepoli è quella di fare unità nella loro vita: unità tra la parola ascoltata e la vita vissuta per amore: «Se uno mi ama, osserverà la mia parola». Estremamente lapidaria questa affermazione di Gesù, ma di una chiarezza ineguagliabile: Gesù dichiara apertamente come desidera i suoi seguaci.
Ma Gesù si preoccupa anche di affermare il contrario: «Chi non mi ama, non osserva le mie parole», allo scopo di mettere in guardia dal pericolo di dissociare la vita dall’ascolto della sua parola. Pericolo tutt’altro che remoto, oggi come ieri.
«… il Paraclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». A soccorrerci nella nostra debolezza Gesù annuncia la venuta dello Spirito Santo, che è lo Spirito del Padre e del Figlio, perché da ambedue sarà inviato. La consolazione che egli reca con sé va intesa come una presenza ricca di memoria, nel senso che egli, lo Spirito Santo, avrà sempre il compito di ricordare a ciascuno di noi il vero insegnamento di Gesù.
A completare il suo testamento Gesù aggiunge: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace»: non una pace qualunque e neppure una pace generica, ma solo ed esclusivamente la pace che Gesù solo può dare. Annotiamo che nell’opera giovannea la pace è sempre legata alla persona di Cristo e alla sua presenza (cf. Gv 16,33; 20,19.21,26).