Durante un’animata discussione nel tempio, Gesù dichiara ai giudei: «Se il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero».
A chi era convinto di essere discendenza di Abramo e di non essere mai stato schiavo di nessuno, queste parole sono suonate come un’intollerabile provocazione. Prima sono ricorsi all’insulto: “Non diciamo con ragione noi che sei un Samaritano e che sei un pazzo?”, poi sono passati alla violenza: “Raccolsero le pietre per scagliarle contro di lui; ma Gesù si nascose e uscì dal tempio” (Gv 8,31-59).
Ciò che sorprende maggiormente in questo episodio è quanto si afferma nel versetto introduttorio: gli oppositori di Gesù non erano i nemici, ma coloro che avevano creduto in lui (Gv 8,31).
È dunque possibile credere in Cristo e non capire e rifiutare la liberazione che egli offre.
Ciò accade perché alle schiavitù (ad alcune in modo particolare) facilmente ci si affeziona e non si vuole lasciarle. Ci si adatta, ci si rassegna, non ci si decide a intraprendere un cammino che si prevede troppo impegnativo. E se qualcuno si avvicina per aiutare a trovare una via d’uscita viene allontanato con astio.
La sregolatezza e tutte le forme di corruzione morale sono facilmente riconoscibili come forme di asservimento. Altre schiavitù invece si mimetizzano da condizioni di libertà, appaiono gratificanti (faccio qualche esempio: l’attaccamento morboso ai figli, la certezza di possedere la verità, la convinzione di essere persone per bene, cristiani esemplari e inappuntabili. Anche l’ateismo pratico di chi non vuole rimettere in causa le proprie scelte di vita è una schiavitù…). Sono condizioni di “non vita”, eppure ci si sente infastiditi da coloro che vorrebbero liberarci da tali impedimenti.
Se Gesù avesse combattuto nemici esterni con la spada sarebbe stato riconosciuto come liberatore, ma ha invitato “gli schiavi del peccato” (Rom 6,20) a liberarsi dalla loro vita sbagliata, a far morire in se stessi ciò che è morte. Non è stato capito. La stessa sorte attende chi continua la sua missione.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Confido nel Signore ed egli mi libererà dai nemici che mi rendono schiavo”.
Prima Lettura (Zac 12,10-11)
Così dice il Signore: 10 “Riverserò sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme uno spirito di grazia e di consolazione: guarderanno a colui che hanno trafitto. Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito.
11 In quel giorno grande sarà il lamento in Gerusalemme simile al lamento di Adad-Rimmòn nella pianura di Meghìddo”.
Questo brano, preso dal libro di Zaccaria, è un po’ misterioso. Parla di un uomo giusto e innocente che è stato trafitto e lascia intendere che i responsabili di questo crimine sono stati gli abitanti di Gerusalemme. Il Signore però – dice la lettura – inviò presto sul popolo colpevole un profondo sentimento di dispiacere per il male commesso. Tutti si pentirono e guardarono a colui che avevano trafitto. Ci fu un pianto disperato, simile a quello dei genitori che perdono il loro unico figlio, simile al lutto che si fa quando muore un primogenito, simile alle grida disperate dei contadini della pianura di Meghiddo quando invocano la pioggia dal dio Adad‑Rimmòn (v.11).
Chi è quest’uomo e perché è stato ucciso? Il profeta, vissuto due o trecento anni prima di Cristo, si riferiva certamente ad un fatto drammatico accaduto al suo tempo. Non sappiamo altro. Ciò che è importante per noi è che l’evangelista Giovanni ha riconosciuto in questo misterioso personaggio l’immagine di Gesù (Gv 19,37). A Cristo, giustiziato e trafitto sulla croce, guardano infatti, come al loro salvatore, gli uomini di tutto il mondo.
Il pericolo di ripetere gesti folli come quelli compiuti al tempo di Zaccaria ed al tempo di Gesù dagli abitanti di Gerusalemme è sempre attuale. Coloro che si battono per la giustizia e la libertà, propugnano la fratellanza, chiedono la pace, finiscono inevitabilmente per essere trafitti.
Ci si accorge sempre tardi che chi sembrava disturbare il buon ordine, la quiete, l’armonia, le sante tradizioni, in realtà era un profeta che coltivava i sogni di Dio.
Seconda Lettura (Gal 3,26-29)
26 Tutti voi siete figli di Dio per la fede in Cristo Gesù, 27 poiché quanti siete stati battezzati in Cristo, vi siete rivestiti di Cristo.
28 Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù.
29 E se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa.
Come riconoscere i battezzati? Semplice: dal vestito che indossano.
Il cristiano – dice Paolo nella lettura di oggi – deve indossare una divisa e questa non consiste in una tonaca nera o rossa, ma nella persona di Gesù (v.37).
Nella lettera ai Colossesi l’apostolo spiegherà con chiarezza cosa intende dire: voi battezzati “vi siete spogliati dell’uomo vecchio con tutte le sue azioni e avete rivestito il nuovo” (Col 3,9-10).
Guardando il cristiano, ascoltando quello che dice, considerando il modo con cui cerca sempre di capire, di scusare, di aiutare, di andare incontro a chi ha sbagliato, osservando come egli ama anche i propri nemici, tutti devono poter riconoscere in lui la persona di Gesù.
Paolo continua la sua esortazione affermando che quest’abito conferisce a tutti coloro che lo indossano pari valore e identica dignità (v.28). Esso cancella tutte le differenze di classe (schiavi e padroni), di nazionalità (giudei e Greci) e di sesso (uomini e donne).
Vangelo (Lc 9,18-24)
18 Un giorno, mentre Gesù si trovava in un luogo appartato a pregare e i discepoli erano con lui, pose loro questa domanda: “Chi sono io secondo la gente?”. 19 Essi risposero: “Per alcuni Giovanni il Battista, per altri Elia, per altri uno degli antichi profeti che è risorto”. 20 Allora domandò: “Ma voi chi dite che io sia?”. Pietro, prendendo la parola, rispose: “Il Cristo di Dio”. 21 Egli allora ordinò loro severamente di non riferirlo a nessuno.
22 “Il Figlio dell’uomo, disse, deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, esser messo a morte e risorgere il terzo giorno”.
23 Poi, a tutti, diceva: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua.
24 Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà, ma chi perderà la propria vita per me, la salverà”.
Se si escludono i decenni del regno di Davide e Salomone, il popolo d’Israele non ha mai svolto un ruolo prestigioso sulla scena politica internazionale dell’antichità. E’ sempre stato dominato e oppresso dalle grandi nazioni vicine. In questa situazione di costante soggezione va inserita la promessa dei profeti di un messia liberatore, nato dalla stirpe di Davide.
Al tempo di Gesù l’attesa di questo salvatore era acuta, impaziente, febbrile. I rabbini insegnavano a pregare così: «Signore, fa sorgere il figlio di Davide affinché regni su Israele. Dagli forza perché abbatta i potenti ingiusti e liberi Gerusalemme dai pagani. Possa egli annientare gli empi pagani con una sola parola della sua bocca; i pagani fuggano davanti a lui».
Per comprendere il Vangelo di oggi è necessario tenere presente queste attese del popolo.
Il Messia sarà – pensavano tutti – un eroe, un guerriero forte come Sansone, un condottiero vittorioso come Davide, un politico intelligente ed abile come Salomone, un re miracolosamente protetto da Dio come Ezechia.
Luca nota spesso che Gesù, prima di compiere qualche gesto importante o di dare qualche insegnamento particolarmente significativo, si raccoglie in preghiera (Lc 3,21; 5,16; 6,12; 9,28).
Anche il brano di oggi inizia presentando Gesù in preghiera (vv.18-19). Vuol dire che l’episodio che segue va considerato con particolare attenzione.
Marco e Matteo ambientano la scena dalle parti di Cesarea di Filippo (Mc 8,27; Mt 16,13). Luca tralascia di proposito l’indicazione del luogo forse perché vuole che i suoi lettori – a qualunque nazione essi appartengono – si sentano direttamente interpellati dalle domande del Maestro.
Gesù chiede anzitutto: Chi sono io secondo la gente?
I discepoli rimangono un po’ sorpresi di fronte a un simile quesito, perché egli non ha mai dato l’impressione di interessarsi a quanto si dice in giro su di lui. Comunque rispondono: per alcuni sei il Battista redivivo, per altri Elia, per altri ancora uno dei grandi profeti.
Il popolo accosta Gesù a quei grandi personaggi che – secondo la tradizione dei rabbini – devono precedere la venuta del Messia. Ecco chi è Gesù per la gente: un precursore.
Non lo riconoscono come Messia perché non corrisponde ai loro criteri: non ha nulla del re vincitore e glorioso che si aspettano. Dunque è un precursore, nulla più. Il vero messia va atteso ancora.
Luca sta rivolgendosi ai cristiani delle sue comunità i quali riconoscono in Gesù il grande maestro che ha predicato l’amore, la fratellanza, la pace e la giustizia. Sa che lo ammirano per le sue scelte in favore dei poveri, degli ultimi, degli emarginati; sa che lo apprezzano per il coraggio, la coerenza, la nobiltà d’animo, la fermezza di fronte alla morte.
Tuttavia, se questi cristiani rimangono ancora affascinati dai trionfi dell’imperatore di Roma, se credono che il futuro sia in mano ai generali e alle loro legioni, se invidiano il lusso e lo sfarzo di chi ostenta immense ricchezze, se prestano attenzione agli imbonitori e ai demagoghi che pullulano in ogni angolo dell’impero, se danno credito ai banditori di miti, allora stanno collocando Gesù fra i grandi personaggi della storia del mondo, ma nulla più.
Anche coloro che vedono in Gesù solo un facitore di miracoli, uno al quale si ricorre per ottenere grazie e favori, magari non se ne rendono conto, ma in pratica anch’essi lo abbassano al ruolo di precursore. A lui chiedono un servizio provvisorio, in attesa che giungano medici capaci di curare tutte le malattie, scienziati che controllino le forze della natura e magari – chi lo sa? – scoprano il farmaco dell’eterna giovinezza. Allora ci sarà ancora bisogno di Gesù?
La seconda domanda obbliga i discepoli a prendere posizione in modo inequivocabile: Voi chi dite che io sia? (vv.20-21).
Pietro, a nome di tutti, risponde: «Tu sei il Messia di Dio!». Gesù non lo smentisce, ma impone a tutti, severamente, di non divulgarlo, di non parlarne ad alcuno.
La ragione di questo divieto è semplice: le parole di Pietro sono esatte, ma il contenuto è completamente errato. Gesù sa quale tipo di messia ha in mente Pietro, conosce qual è il sogno che i suoi discepoli stanno cullando: sono convinti che sia solo questione di avere un po’ di pazienza e un giorno – certo non molto lontano – il loro Maestro si deciderà a fare sul serio e, se necessario, ricorrerà anche all’uso della spada.
Sarà un vincitore.
Questo messia è diabolico, è l’opposto del “Messia di Dio”, per cui Gesù non vuole che si parli di lui fino a quando gli avvenimenti della Pasqua non avranno svelato la sua vera identità.
Luca sa quanto è facile prendere abbagli riguardo alla persona di Gesù, come la logica di questo mondo e il modo di pensare degli uomini si infiltrino fra i discepoli nei modi più subdoli. Anche i cristiani delle sue comunità ripetono in modo esatto gli articoli del Credo, ma coltivano idee tutt’altro che evangeliche. Luca li vuole mettere in guardia da questo pericolo mortale.
È giunto per Gesù il momento di chiarire l’equivoco dal quale i discepoli stentano a liberarsi.
Nella terza parte del Vangelo di oggi egli mostra la sua carta d’identità: “Il figlio dell’uomo deve soffrire molto, essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, essere messo a morte e risorgere il terzo giorno” (vv. 21-22).
Sono parole inquietanti: non lo attende il trionfo, ma l’umiliazione; non la vittoria, ma la sconfitta. Come mai Dio ha scelto questo cammino assurdo? Non certo perché gli sono gradite la sofferenza e la morte. Egli è il Dio della vita. La morte è opera del maligno, cioè di tutte quelle forze negative che sono all’opera nell’uomo. Come mai allora il Signore non ha fatto trionfare suo Figlio? Perché ha permesso che fosse inchiodato su una croce?
Dio non condiziona la libertà degli uomini. Egli rivela la sua grandezza ed il suo amore non impedendo che commettano errori, ma servendosi del loro stesso peccato per costruire la sua storia di salvezza.
In Gesù di Nazareth, egli ha mostrato come sia stato capace di trasformare il più grande crimine in un capolavoro di amore. Il cammino di Gesù in questo mondo si è concluso con la morte, con la sconfitta, ma l’ultima parola l’ha avuta Dio che ha introdotto nella vita il suo Servo fedele.
L’ultima parte del brano (vv.23-24) è un’esortazione che Gesù rivolge agli uomini di tutti i tempi: «Ora diceva a tutti» – specifica Luca – quindi non solo ai discepoli e alle folle, ma a tutti.
Credere in lui non significa dichiarare la propria adesione a un pacchetto di verità apprese dal catechismo, ma seguire lui, condividere il suo stesso destino: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua”.
Il Maestro pone di fronte ad una scelta. Non invita a fare qualche sacrificio in più degli altri, a cercare le sofferenze, ma esige che non ci si lasci più guidare dalla ricerca del proprio tornaconto e della propria affermazione; chiede di smettere di porre se stessi al centro dell’attenzione.
Chi vuole seguire il Maestro deve, come lui, dimenticare se stesso, non lasciarsi sfiorare da pensieri egoistici.
“Prendere la croce” non significa sopportare con pazienza le piccole o grandi contrarietà della vita, né, ancor meno, è un’esaltazione del dolore come mezzo per piacere a Dio. Il cristiano non cerca la sofferenza, ma l’amore.
La morte in croce è stata per Gesù la conseguenza delle sue scelte di amore. Egli ha rifiutato i princìpi, i valori, i parametri di questo mondo e ha proposto quelli delle Beatitudini. Ha infastidito, disturbato, inquietato le strutture sia religiose sia politiche; non poteva che essere rigettato, perseguitato e tolto di mezzo. I discepoli che intendono seguire i suoi passi non possono aspettarsi gli applausi, i consensi, l’approvazione degli uomini, ma devono essere pronti a incontrare l’opposizione e la croce.
Luca – unico fra gli evangelisti – inserisce nel detto di Gesù l’inciso ogni giorno (v.23). Il dono totale di sé coinvolge il discepolo ogni giorno. Tutti sanno compiere un gesto isolato di generosità, tutti riescono a dimenticare se stessi per un momento. Difficile è mantenere questa disposizione ogni giorno.
Probabilmente Luca vuole richiamare i cristiani delle sue comunità alla perseveranza, alla costanza di fronte alle difficoltà, alle prove e alle seduzioni del mondo che li circonda.