È facile cogliere anche in questo formulario liturgico il rapporto tra la prima lettura e la pagina evangelica: un rapporto tra profezia e adempimento che è una costante dentro l’unica economia della salvezza che corre dal Primo al Nuovo Testamento.
Ciò che il profeta Zaccaria afferma del futuro Messia: «Guarderanno a me, colui che hanno trafitto», Pietro, provocato dalla domanda di Gesù, lo professa apertamente: «Il Cristo di Dio». In ambedue i casi, sia pure velatamente, si allude al mistero pasquale del Signore Gesù.
1. Definire “enigmatica” questa profezia, è dir poco: in effetti, essa assume tutto il suo significato solo se riletta alla luce della vicenda del Gesù storico, che ha voluto vivere la sua pasqua in tutta la sua drammatica verità.
Zaccaria enuncia anzitutto il progetto che il Signore Dio nutre nei confronti del suo popolo, un progetto «sopra la casa di Davide e sopra gli abitanti di Gerusalemme». Ad essi il Signore Dio promette «uno spirito di grazia e di consolazione». Infatti, per accogliere e vivere il mistero di morte e di vita del futuro Messia sono assolutamente necessarie tanta grazia divina e tanta consolazione.
La profezia suona così: «Guarderanno a me, colui che hanno trafitto». Non potremmo desiderare parole più chiare; eppure, il profeta continua: «Ne faranno il lutto come si fa il lutto per un figlio unico, lo piangeranno come si piange il primogenito». Perché il mistero pasquale si compia, non è sufficiente che Gesù venga trafitto dalla lancia dei suoi carnefici, ma è necessario che noi volgiamo lo sguardo verso di lui, riconoscendolo come il figlio di Dio che muore per noi.
Il seguito della profezia riguarda il compianto, cioè la partecipazione degli abitanti di Gerusalemme: «In quel giorno grande sarà il lamento a Gerusalemme».
Ma ecco l’happy end: «In quel giorno vi sarà per la casa Davide e per gli abitanti di Gerusalemme una sorgente zampillante per lavare il peccato e l’impurità». Riconosciamo qui un chiaro riferimento alla potenza purificatrice del sangue di Gesù, che sulla croce muore versando il suo sangue per la salvezza dell’intera umanità.
2. Questo salmo responsoriale è tutto intriso di pathos e di tenerezza verso il Signore Dio e per questo è stato catalogato tra i salmi di fiducia. Lo si prega volentieri perché, alla fine, ci si sente colmi di quella consolazione con la quale il Signore desidera consolare il suo popolo (cf. 2Cor 1,3-7).
«O Dio, tu sei il mio Dio»: potrebbe sembrare una professione di fede ma, in realtà, si tratta di una dichiarazione d’amore. Per l’orante non c’è altra persona al mondo che possa essere amata più di Dio. Per questo la preghiera si sviluppa ulteriormente: «Dall’aurora io ti cerco, ha sete di te l’anima mia, desidera te la mia carne, in terra arida, assetata, senz’acqua». Veramente il salmista è tutto proteso, anima e carne, verso il suo Dio: senza di lui non può vivere.
«Nel santuario ti ho contemplato», condividendo l’espressione della mia fede con il popolo a te fedele; ma, alla fine, ho dovuto ritornare in me stesso e dire: «Il tuo amore vale più della vita». È come dire che vivere in Dio, vivere di Dio è cosa assai più preziosa di ogni pur apprezzabile esperienza di vita terrena.
«Così ti benedirò per tutta la vita»: a questo punto il proposito sgorga spontaneo dal cuore dell’orante. La gioia che egli prova in questa esperienza religiosa è così profonda e lo inonda a tal punto da augurarsi di poter vivere costantemente in questa atmosfera: «per tutta la vita». Non è forse questa un’esigenza irrinunciabile di ogni vero amore?
«A te si stringe l’anima mia: la tua destra mi sostiene». In questa espressione non facciamo fatica a riconoscere una sorta di amplesso mistico, con il quale l’orante si immedesima totalmente con il suo Dio e si perde in lui.
3. La seconda lettura ci presenta un brano della lettera dell’apostolo Paolo ai cristiani della Galazia, ma il tono non è più polemico come in precedenza. Fin dalla prima battuta, infatti, Paolo afferma: «Tutti voi siete figli di Dio mediante la fede in Cristo Gesù, poiché quanti siete stati battezzati in Cristo vi siete rivestiti di Cristo».
L’immagine del vestito, che potrebbe far pensare a qualcosa di esteriore, lascia invece intendere con sufficiente chiarezza quale sia il pensiero dell’apostolo. Egli intende presentare la “vita nuova” in Cristo. Non, dunque, un influsso esterno, ma una presa di possesso da parte di Cristo che è totale e che trasforma il battezzato a sua immagine.
Ma la parte più rilevante e nuova di questa pagina paolina sta nell’affermazione successiva. In forza del battesimo che abbiamo ricevuto «non c’è né giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina». L’apostolo intende forse negare differenze così ovvie e innegabili? No, certamente. Sua intenzione è affermare che tutte le differenze tra gli uomini non creano separazione, perché Cristo unisce coloro che, per grazia, comunicano alla sua vita (cf. Col 3,11).
È una motivazione che occorre mettere in grande evidenza. Paolo arriva a questa conclusione «perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù». L’apostolo intende affermare che, in Cristo, in forza del battesimo, noi formiamo un solo corpo, siamo cioè una personalità corporativa: «E noi tutti… veniamo trasformati in quella medesima immagine, di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito del Signore» (2Cor 3,18).
La conclusione viene ovvia: «Se appartenete a Cristo, allora siete discendenza di Abramo, eredi secondo la promessa». Paolo non teme di risalire fino ad Abramo, da lui chiamato «nostro padre nella fede». E, dal momento che la figura di Abramo è intimamente legata alla promessa, Paolo arriva ad annunciare quella che potremmo chiamare la più alta beatitudine del Nuovo Testamento: la nostra partecipazione all’eredità di Abramo.
4. Qui l’evangelista Luca raccoglie e trasmette messaggi vari e complementari. In prima battuta, abbiamo la professione di fede di Pietro, la quale non si riduce ad un semplice riconoscimento della messianicità di Gesù, ma implica anche un’apertura al mistero pasquale. Esattamente quello verso cui portava la profezia di Zaccaria. Pertanto, chi dice di credere in Gesù non può ignorare il suo “mistero” (fermandosi magari alla sua incarnazione), ma deve entrare in un dinamismo di grazia che lo porta alla sua morte e risurrezione, anzi fino all’ascensione e alla pentecoste.
In seconda battuta, troviamo un cenno discreto a quello che gli esperti del Nuovo Testamento chiamano il «segreto messianico». Quello che afferma il Signore non va certamente inteso come una riserva e, tanto meno, come un rifiuto della professione di fede di Pietro, quanto invece come una sua personale preoccupazione: quella, cioè, di non esporsi al plauso della gente per non compromettere l’essenza della sua missione e la purezza della sua testimonianza al mondo. Un dato ricorrente e scontato di tutta la tradizione evangelica è proprio quello di Gesù che si sottrae metodicamente ad ogni forma di mondanità e di trionfalismo.
Infine, Luca riferisce un detto di Gesù relativo alla sequela: «Se qualcuno vuole venire dietro a me…». Il Messia intende ribadire il concetto espresso prima, relativo non alla semplice sequela, ma alle modalità con le quali essa deve essere intesa e praticata e cioè la piena e incondizionata accettazione della croce di Gesù, intesa non come un’ineludibile fatalità storica ma – come si legge nella lettera agli Ebrei 12,2 – come libera e gioiosa accoglienza della volontà del Padre: «Egli, di fronte alla gioia che gli era posta dinanzi, si sottopose alla croce, disprezzando il disonore».
Il cristiano sa bene che non ci può essere gioia vera se non passando attraverso le prove e le lacrime. Fu questa anche la convinzione maturata da Paolo al termine del suo primo viaggio missionario: «Dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni» (At 14,22).