Un profeta impaurito
Il profeta Elia è un uomo coraggioso e pieno di zelo per YHWH (cf. 1Re 19,9b-10, ancora una volta cervelloticamente tagliati nella lettura liturgica).
Vissuto al tempo del re di Israele Acab (874-853 a.C.), che aveva sposato la “pagana” Gezabele, figlia di Etbàal, re di quelli di Sidone (cf. 1Re 16,32; in realtà re di Tiro e di Sidone, le città più importanti della costa fenicia), ne sfida la moglie uccidendo (aiutato da altri?) 450 dei suoi profeti, dopo aver vinto l’ordalia su chi fosse l’unico vero Dio tramite il sacrificio sul monte Carmelo col fuoco disceso dal cielo.
Preso dalla paura (cf. 1Re 19,3) – cattiva consigliera, ma pur sempre ottimo aiuto come istinto di sopravvivenza –, Elia se ne fugge verso il sud, verso il deserto di Bersabea, “per salvarsi” (lett. “se ne andò verso la sua vita/soffio vitale/nepeš”). Pensa di aver salvato YHWH e ora pensa a salvare se stesso. Fugge verso la solitudine, con il suo aiutante. Ma, alla fine, lascia anche quello per poter morire in pace, sfiancato, sotto “una” ginestra, una ginestra “solitaria/unica/’eḥād”.
Tutto si volge per Elia come un supporto alla sua depressione, al suo senso di accerchiamento, al sentirsi l’ultimo sopravvissuto di coloro che seguono YHWH. 1Re 20,15 attesta però che il “resto” fedele del popolo è… tutto il popolo, settemila uomini. Non è vero che Elia sia solo. Egli ha però bisogno di elaborare la sua depressione. Andando verso sud, inconsciamente (?) torna alle radici della fede sua e di tutto il popolo, la fede dei suoi padri. Confida all’angelo/messaggero di YHWH tutta la sua solitudine/depressione, ma ne riceve un sostegno per un ulteriore cammino.
La sua fuga è stata decisa dalla sua paura depressiva, ma YHWH se ne serve per chiamarlo alle origini della fede di Israele, al luogo del suo essersi formato come popolo radunato attorno alla parola, prima da “fare” e poi da “ascoltare” (cf. Es 19,8 «Tutto il popolo rispose insieme e disse: “Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo!”»; Dt 5,27: «Accòstati tu [= Mosè] e ascolta tutto ciò che il Signore, nostro Dio, dirà. Tu ci riferirai tutto ciò che il Signore, nostro Dio, ti avrà detto: noi lo ascolteremo e lo faremo»).
Nutrito con il “pane degli angeli = dal cielo” (cf. Sal 78,24; Sal 105,40; Gv 6, 31) e abbeverato con l’acqua ricevuta per pura grazia nel deserto roccioso e arido (cf. Es 17,1-7), Elia trova le forze per rifare il percorso dell’esodo di liberazione compiuto quattrocento anni prima dal popolo guidato dal grande profeta Mosè, un profeta che non ebbe pari in grandezza (cf. la finale di Dt: «Non è più sorto in Israele un profeta come Mosè, che il Signore conosceva faccia a faccia, per tutti i segni e prodigi che il Signore lo aveva mandato a compiere nella terra d’Egitto, contro il faraone, contro i suoi ministri e contro tutta la sua terra, e per la mano potente e il terrore grande con cui Mosè aveva operato davanti agli occhi di tutto Israele» (Dt 34,10-12).
Voce di sottile silenzio
Elia giunge al monte di Dio, l’Oreb. Arriva alla fonte della grazia di Dio, il luogo dove YHWH aveva donato la sua tôrâ/“insegnamento/istruzione”.
Fu un’alba terrificante e grandiosa quella che visse allora Mosè: «Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore. Allora Mosè fece uscire il popolo dall’accampamento incontro a Dio. Essi stettero in piedi alle falde del monte. Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco, e ne saliva il fumo come il fumo di una fornace: tutto il monte tremava molto. Il suono del corno diventava sempre più intenso: Mosè parlava e Dio gli rispondeva con una voce. Il Signore scese dunque sul monte Sinai, sulla vetta del monte, e il Signore chiamò Mosè sulla vetta del monte».
Alla fine del sentiero degli scalini – o all’inizio se lo si prende nella discesa – che dal Monastero di Santa Caterina porta alla cima del monte Sinai si può ancora vedere quella che viene indicata come “la grotta di Elia”. Un cipresso solitario e un fazzoletto di erba verde rendono idilliaco il posto.
Elia, sempre più consapevolmente, vuole riprendere in mano la propria fede, riscoprire le proprie radici, rinsaldare il suo radicamento in YHWH e nella sua tôrâ. In piedi, all’entrata della caverna, Elia attende (emozionato?) il suo incontro con YHWH, la ragione della sua vita, della sua lotta, del suo rischiare la morte per la rabbia di una perfida regina fenicia (cf. 1Re 21,1-17 il suo protagonismo assassino e bugiardo contro il povero Nabot).
Il cosmo sembra partecipare alla volontà di rinnovamento spirituale cercato da Elia. La location è quella, le condizioni meteo sembrano ricreare perfettamente l’ambiente della rivelazione di YHWH nella sua tôrâ: un vento impetuoso e gagliardo, tanto da spaccare i monti e le rocce davanti al Signore, per preparare la sua venuta; il terremoto, che scuote a fondo e ribalta sottosopra il mondo degli uomini, segnando l’avvento della comunicazione che YHWH vuole donare al suo profeta; il fuoco (vulcanico?) che atterrisce, brucia l’esistente, purifica l’impuro e il caduco.
Ma YHWH non è in tutto questo. Stavolta no. «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19a). YHWH è costante nel suo amore misericordioso e fedele/ḥesed, ma non è ripetitivo nelle sue manifestazioni. Non si lascia sottomettere alle nostre catalogazioni riduzioniste e limitate. Non pregiudica il suo futuro, abbarbicandosi al passato. La vita presenta sempre delle novità e anche YHWH “passò”. YHWH passa di continuo, passa attraversando, passa trasgredendo (vari sono i significati del verbo ‘ābar, da cui probabilmente deriva ‘ibrî/”ebreo”). Stavolta YHWH passa in un “una voce di sottile silenzio/qôl demāmâ daqqâ”. Una voce “frantumata”, “sminuzzata”, tanto da diventare “silenziosa”.
Stavolta YHWH si propone al suo grande e zelante profeta Elia (“il mio Dio [è] ‘El”) in una modalità completamente nuova, inattesa, al limite contraria alla sua prima manifestazione al Sinai/Oreb. Stavolta è una voce che richiede udito finissimo, ascolto attento con gli orecchi del cuore, apertura totale della mente alle innovative manifestazioni di YHWH.
Questo non significa che Elia sarà poi richiamato a rimettersi in gioco con impegni dolci e mistici. La sua missione consisterà nel consacrare con l’unzione un re nemico come Cazaèl di Damasco, consacrare con l’unzione come re di Israele Jehu (consacrazione compiuta di fatto da un discepolo di Eliseo, cf. 2Re 9,1-10 e conclusasi con una fuga precipitosa) – che si dimostrerà efferato usurpatore nella sua ascesa al trono (cf. 2Re 9,22-26 assassinio del re di Israele, Ioram; 9,27- 29 assassinio del re di Giuda, Acazia; 9,30-37 assassinio della regina Gezabele; 10,10,1-11 massacro della famiglia reale di Israele; 10,12-14 massacro dei 42 principi di Giuda) –, e infine ungere Eliseo come profeta suo successore. Una rimessa in gioco come profeta, quella di Elia, per niente sdolcinata o priva di spigoli. L’importante è “coprirsi il volto” di fronte alla presenza incommensurabilmente sovrana di YHWH (cf. 1Re 19,13).
Elia, e noi, siamo chiamati a essere profeti di un Dio sempre nuovo nelle sue manifestazioni, nelle sue richieste di atteggiamenti nuovi di fronte a situazioni nuove e impreviste, non immediatamente catalogabili in schemi religiosi stantii, ripetitivi o solo canonicamente garantiti.
“Voce sottile” non vuol dire che non sia una voce che chiama a impegni gravosi nella storia, che segue i suoi percorsi lenti, ondivaghi, incerti, non completamente prevedibili e governabili.
“La voce di sottile silenzio” richiede umiltà, silenzio, attenzione, apertura di cuore, cordialità, sottomissione gioiosa e convinta alle vie di Dio che non sono le nostre vie, ma le sovrastano in altezza di veduta e ampiezza di qualità valutativa (cf. Is 55,8-9).
Quella di YHWH, stavolta, non è una voce “grossa” contro le debolezze e i peccati dell’uomo, ma “sottile” e delicata penetrazione dei nostri criteri valutativi, parola “frantumata” che frantuma i pensieri già sicuri perché ben “inquadrati”, le certezze granitiche ancorché difendenti la legge più che attente alle persone reali nel loro vissuto concreto.
I discepoli sconvolti
Dopo la prima festosa moltiplicazione dei pani (e dei pesci, Mt 14,18) in terra israelita a favore dei cinquemila uomini, Gesù non fa riposare sugli allori i suoi discepoli, ma li “costringe/ēnagkasen” a salire sulla barca della Chiesa e a precederlo sull’altra riva.
La direzione non è necessariamente verso est, verso l’attuale sito di Kursi o quello di En-Gev, ma probabilmente quella verso nord-est, in direzione di Betsaida (così secondo il compianto archeologo benedettino Bargil Pixner), situata nella tetrarchia di Filippo, che abbracciava la Gaulanitide, la Batanea, la Traconitide, l’Auranitide e il distretto di Panea [Iturea]). Terra a maggioranza “paganeggiante”.
La Chiesa non deve stare immobile, sul terreno sicuro e conosciuto della Terra del Santo. Attento alle persone, Gesù le congeda con affetto e poi cerca la solitudine per la preghiera al Padre. Gli è necessario riequilibrare l’opera umana di solidarietà evangelica appena compiuta, piena di successo e gratificante, con l’allineamento progressivamente perfetto della sua volontà umana con quella del Padre, che abbraccerà anche momenti più dolorosi.
Il successo, il riconoscimento di un’innegabile potenza – almeno di moral suasion – che la Chiesa può godere a tratti nella storia non la deve distogliere dall’unica radice della sua fecondità, l’unione con la volontà del Padre. Infatti, tante volte sulla barca della Chiesa incombe e regna sovrana la burrasca. Il vento che in certi momenti scende forte da nord-est, dall’Ermon – il ben conosciuto sharkiyeh – scuote la barca ecclesiale, soffiando impetuoso in direzione “contraria/enantios” a quella intrapresa.
La barca è “tormentata/torturata/basanizomenon” dalle onde del “mare” di Galilea. È il mare del male, che si insinua, corrode, corrompe, dissangua, illanguidisce la forza della testimonianza ecclesiale. «Il consumismo ci ha fiaccati tutti», riconoscevano qualche anno fa i vescovi del Triveneto. Ma anche le dicerie, il carrierismo, la doppia morale, insomma tutta la lista delle quindici “malattie” snocciolate da papa Francesco alla curia romana (e a tutta la Chiesa) negli “auguri natalizi” del 22/12/2014 – riequilibrate l’anno seguente dalle 24 “virtù necessarie” ricordate ad essa (e in parte già vissute) negli “auguri natalizi” del 21/12/2015.
Le onde tormentano con forza la barca e alla quarta veglia della notte (ore 3-6, v. 25), anche i pescatori più esperti sono stanchi e in viva attesa delle prime luci dell’alba.
Ed ecco un uomo venire verso di loro, di sua iniziativa, camminando sul mare. Probabilmente i discepoli non pensarono al cammino del Dio dell’esodo: «Sul mare la tua via, i tuoi sentieri sulle grandi acque, ma le tue orme non furono riconosciute» (Sal 77,20). Non si ricordarono che Gesù non era con loro, e non pensarono a lui (grave per un discepolo!). “Furono sconvolti/etarachthēsan”, dicendo: «È un fantasma!», prima di esplodere in un grido di paura/phobos liberatorio e apotropaico.
Lo vedono camminare sul mare, ma non lo riconoscono. Non avevano ancora sperimentato una tale azione da parte del loro Maestro. Avevano imparato in sinagoga che un tale potere lo aveva solo il Dio dell’esodo. Ma la loro mente non collega i fatti, non attualizza le Scritture, non penetra in profondità le Scritture e la persona di Gesù. Tocca a lui parlare loro, “subito”/eythys”, con una parola di incoraggiamento e un comando a smettere di aver paura.
Gesù soccorre “subito” la barca della sua Chiesa, ma i suoi tempi e le sue modalità non sono sempre subito comprese e condivise…
Vieni!
Pietro, portavoce dei Dodici, dà inizio, con la sua richiesta, a quello che potrebbe essere il più stravagante e “inutile” dei “miracoli” narrati nei vangeli. Appoggiandosi su una dubitativa professione di fede nel Signore (risorto/, corrispondente allo YHWH dell’AT) chiede che Gesù gli “comandi/keleuson” (!) di poter andare da lui sulle acque. Sembra una richiesta stupida, inopportuna, stravagante e inutile, da saltimbanco del circo. Ma è bello e opportuno, e alla fin fine indispensabile, che il portavoce e il rappresentante dei Dodici, della barca che raccoglie la Chiesa, possa e debba avere il potere/la capacità/exousìa di partecipare del potere del Signore Gesù risorto sul male della storia. Per questo Gesù acconsente e gli dice: “Vieni!”. Un comando nudo, senza spiegazioni sulla modalità e sui tempi, sulla pienezza della riuscita dell’operazione.
Pietro scende dalla barca, “passeggia/periepatatēsen” sulle acque e “viene verso Gesù”. L’ascolto credente e fiducioso del comando del Signore Gesù, che non può ingannare o deludere i suoi amici, fa vincere anche a Pietro, portavoce e rappresentante dei Dodici, il male della storia. Il grosso è fatto, il male è superato, Gesù risorto è vicino… Perché perdere tempo a “vedere il vento forte/blepōn ton anemon ischyron”, così da ricadere nella paura/ephobēthē? Come si fa a “vedere il vento”? Probabilmente solo dando credito alle proprie paure, ascoltando solo se stessi, vedendo solo le apparenze della realtà, guardando con occhi umani le persone e gli avvenimenti, senza lasciarsi penetrare dallo Spirito del Signore risorto. Si ha vinto la guerra e ci si attarda ancora nel perdere le battaglie.
«Signore (risorto/YHWH dell’AT!), salva me!», grida Pietro al vedere che sta per affondare. “Subito/eyteōs” Gesù stende la mano, come ha fatto tante volte con i malati, i sofferenti, i moribondi, i morti.
Rimprovera Pietro per la pochezza della sua fede/oligopiste, lo interroga sul dubbio che è subentrato, lo stesso dubbio che prenderà tutti gli Undici sul monte della Galilea, all’appuntamento con Gesù risorto (cf. Mt 28,16, solo qui l’unica altra ricorrenza del verbo diastazō in Mt). Al salire insieme sulla barca, anche il vento “si stanca, viene meno, si esaurisce, si placa, cessa/ekopasen”.
La Chiesa, nella sua barca che solca il mare del tempo e dello spazio, tempo e spazio guastati dal male, si prostra davanti al proprio Signore del bene e della vita.
In un primo momento, si era ingannata, scambiando Gesù per un fantasma. Come il profeta Elia, non l’ha subito riconosciuto sotto spoglie diverse, in modalità nuove, in scenari ancora sconosciuti. Ma la mano del Kyrios è tesa, e la barca della Chiesa potrà ancora beccheggiare e rollare forte, ma il Nemico non riuscirà a sommergerla totalmente e a farla tacere per sempre.