XV Per annum: Potenza della Parola

di:
Ingiustizie reali sacralizzate

Geroboamo II, re di Israele (783-743 a.C.), era riuscito a riportare i confini del regno del Nord al loro limite originario. Durante il suo regno si ebbero tranquillità e prosperità economica, unite però a gravi sperequazioni e ingiustizie socio-economiche.

Oltre che all’estremo confine settentrionale, a Dan, il re Geroboamo I (931-910 a.C.) aveva fatto costruire un tempio a Bet El (Bêt ’Ēl/“Casa di Dio”), 17 km a nord di Gerusalemme, situato all’estremità meridionale del Regno di Israele, il regno del Nord (cf. 1Re 12,32-33). Con questa mossa Geroboamo I, che risiedeva nella capitale Samaria, intendeva evitare che, per il culto, la gente si recasse a Gerusalemme, capitale del regno del Sud, con cui ci fu quasi sempre un rapporto conflittuale.

Il santuario locale di Bet El era la sede del culto ufficiale, praticato anche dal re in forma pubblica e privata. In esso fungeva da sovrintendente al tempio di stato (cf. Ger 20,1-2) il sacerdote Amasia (’Ămaṣyāh), responsabile del buon andamento della cappella reale.

Amos (‘Āmôs< dalla radice‘ms = “caricare”, “portare un fardello”, forse abbreviazione di ’Āmasyāh/“YHWH ha portato”), che racconterà la sua vocazione al sacerdote Amasia in Am 7,14-15, parte dal paese di Giuda e si mette a predicare, su incarico di YHWH, proprio nella cappella reale. Egli pronuncia oracoli di fuoco contro le ingiustizie di ogni tipo presenti nel regno del Nord. Una provocazione insopportabile per il sacerdote Amasia, e quindi per il re, per il quale fungeva da sacerdote-profeta cultuale da lui foraggiato.

La predicazione di Amos, il primo profeta scrittore (anche se il suo posto nella lista canonica dei cosiddetti “Profeti minori” viene dopo quello di Osea, a lui contemporaneo, e quello di Gioele), viene raccolta dai suoi discepoli in un libro che si può articolare nel modo seguente (cf. Laila Lucci, del cui bel commentario ci serviamo per le nostre note).

Dopo il titolo (1,1) e l’introduzione (1,2), seguono gli oracoli contro le nazioni, Giuda e Israele (1,3–2,16); il castigo di Israele (3,1–6,14, suddivisibile in 3,1–4,13 Prima sezione: Accuse e minacce; 5,1–6,14 Seconda sezione: Il libro dei guai); Le visioni: la fine della casa di Israele (7,1–9,10, con cinque visioni: minaccia delle cavallette; minaccia della siccità; minaccia delle armi; è maturata la fine; il tempio crollerà); Epilogo. Restaurazione delle sorti di Israele (9,11-15).

Amos potrebbe aver ricevuto la vocazione nel 762 a.C., se si dovesse prendere alla lettera la notizia di Am 1,1 e pensando ad un riferimento al terremoto che ebbe luogo realmente nel 760 a.C. in Samaria e ad Ḥazor. Si può ipotizzare come data il 750 a.C. circa.

Non disturbare il manovratore

Il brano profetico letto nella liturgia (Am 7,12-15) si situa all’interno del racconto delle cinque visioni avute da Amos sul destino tragico di Israele (Am 7,1–9,10). Alla fine della terza, egli preannuncia la rovina di Israele, la minaccia definitiva delle armi: «Saranno devastate le alture di Isacco, i santuari di Israele saranno desolati e impugnerò la spada contro la casa di Yorob‘am» (Am 7,9, tr. Lucci).

È la goccia che fa traboccare il vaso.

Il sacerdote Amasia fa riferire al re le parole di Amos, tacciate come discorsi di “cospirazione/qāšar”. I complotti erano una pratica ben conosciuta al Nord, e avevano visto coinvolti anche vari profeti (cf. 1Re 11,29-39 Achia di Silo; 19,15-18 Elia; 2Re 9,1-10 un discepolo di Eliseo).

La “terra” – espansione del più concreto tempio pubblico, la cappella reale di Bet El – “non può contenere/sopportare/lō’ tûkal… lehakîl” le sue parole, denuncia Amasia al re Yorob‘am II. Egli ha persino profetato che il re morirà di spada e che Israele “andrà sicuramente in esilio/gālāh yigleh” lontano dal suo suolo.

Nella deformazione puramente politica del messaggio religioso di Amos/‘Āmôs fatta da Amasia/’Ămaṣyāh (l’assonanza fra i nomi non fu mai così ben sottolineata per evidenziare una dissonanza mai così forte!), il profeta giudeo infiltrato nel cuore religioso ufficiale del Nord può arrivare a sobillare il popolo…

La predicazione di Amos dà molto fastidio al potere politico e al profetismo cultuale colluso con esso, con un collateralismo bieco e ottuso, cieco di fronte alle plateali ingiustizie sociali ed economiche.

Nell’intenzione di Amasia il profetismo non deve disturbare il manovratore, e uno solo deve stare al comando. Lui penserà per tutti. Se è capace di fare i suoi interessi, farà certamente gli interessi del popolo… Il culto deve essere una cosa ben distinta dalla vita reale. La religione non deve dare fastidio alla politica, intromettendosi in cose che non le competono. La sacrestia è il suo posto e lì deve restare “contenuta”, senza voler tracimare…

Calor bianco

Dalle parole ai fatti.

Il sacerdote-profeta cultuale, foraggiato dal potere perché dica al re quel che il re vuol sentirsi dire, sbatte fuori dal santuario del re e dal tempio del regno il profeta “rivoluzionario”, difensore del bene e dei deboli, il difensore della purezza delle parole di YHWH. Amos è un destabilizzatore e un demoralizzatore del regno. Al Nord non c’è più posto per lui.

«Va’, visionario, vattene subito al paese di Giuda, là ti guadagnerai da vivere (we’ĕkol-šām leḥem; lett.: “e mangia-là pane”) e profetizzerai», intima ’Ămaṣyāh ad ‘Āmôs. Egli ha percepito che le parole di Amos (cf. 1,1) sono in realtà parole di YHWH!

Amasia intima un’espulsione immediata, tacciando Amos come un “visionario/uno che ha visioni/ḥōzeh” (cf. 1Cr 21,9; 2Re 17,13; Is 1,1; 13,1). Altri termini antichi per designare carismi analoghi seppur diversi erano “veggente/rōeh” (cf. 1Sam 9,9.11; 2Sam 15,27; 1Cr 9,22; Is 30,10) e “profeta/nābî’” (cf. Am 7,12b; 7,13a; 1Sam 22,5), talvolta messi in parallelo (Is 29,10; 2Re 17,13) o usati in modo interscambiabile (cf. 2Sam 24,11).

«Negli scritti biblici, “visionari” e “profeti” godono generalmente di una fama positiva in quanto costituivano una guida per il popolo e per i suoi capi tanto che “il maggior castigo che Dio poteva infliggere al suo popolo era quello di privarsi di essi” (Sicre). Ma questo non è sempre vero, in quanto esistevano personaggi, falsi visionari, che cercavano mercede in cambio di presunte visioni (cf. Mi 3,5-7); per questo l’apparenza del discorso di Amazya è ironica: Amos viene assimilato a quei personaggi, quindi è inviato a profetizzare altrove per guadagnarsi da vivere. Nel contesto del versetto, dunque, se, da una parte, il sacerdote non sembra dimostrare particolare stima per questo genere di personaggi, dall’altra, è assai probabile che ritenga Amos un autentico carismatico (2Re 17,13; Is 1,11; 13,1 ecc.), ma che voglia allontanarlo da Samaria in quanto lo ritiene una minaccia per la pace nel paese, per la monarchia (7,13.16) e, soprattutto, per l’esercizio del culto (7,9)» (L. Lucci).

Amasia intima ad Amos di andarsene nel paese di Giuda (= il Regno di Giuda, al Sud), mangiare là il proprio pane e (quindi, poi) profetizzare. Proietta su di lui la sua situazione: sul libro-paga del re, Amasia ha la pancia piena e quindi è nella situazione tranquilla di poter svolgere la sua funzione di sacerdote, di profeta cultuale!

Dopo aver narrato in breve ad Amasia l’iter paradossale della sua vocazione, Amos gli risponderà a muso duro con parole al vetriolo. Gli preannuncia – in due versetti pudicamente e proditoriamente tagliati nella lettura liturgica (vv. 16-17), dopo quelli introduttivi, indispensabili invece per la comprensione del brano liturgico (vv. 10-11) – ben cinque esiti tragici per la sua vita e per quella di Israele: la prostituzione della moglie in città, la morte per spada dei figlie e delle figlie, la perdita della sua terra, la sua morte nella terra impura (dell’esilio) e il sicuro esilio per Israele.

Uno scontro al calor bianco fra un’istituzione religiosa venduta al potere e il profeta che esegue, non da puro mestierante, un incarico affidatogli inopinatamente da YHWH mentre se ne stava tranquillo nei suoi campi di Teqoa/Teqôa‘.

Vocazione di un contadino

«Va’, visionario, vattene subito al paese di Giuda, là ti guadagnerai da vivere e là profetizzerai/tinnābē’», aveva intimato ’Ămaṣyāh ad ‘Āmôs. I loro nomi sono assonanti, il loro stile di vita completamente dissonante. Amos risponde ad Amasia ricordandogli la sua vocazione, ricevuta da YHWH, non da se stesso o dal popolo di Giuda. Men che meno da Amasia!

Nella sua risposta al sacerdote-profeta cultuale (vv. 14-17), Amos riprende l’intimazione datagli da Amasia di non profetizzare su Israele e di non continuare a “gocciolare (vaticini)/taṭṭîp” sulla casa di Isacco (v. 16).

In prima battuta gli ricorda le circostanze della sua vocazione (vv. 14-15). Amos non era un “profeta (di corte?)/nābî’” o l’allievo di una scuola profetica, appartenente ad una cerchia di profeti (“figlio di profeta”).

Il suo ministero non è a servizio di alcuno, né egli fa parte di una corporazione di profeti. Amos riprende il termine “profeta/ nābî’” usato da Amasia, ma «per dissociarsi da un certo tipo di profetismo prezzolato dalla monarchia, come i profeti di corte (questo sembra il senso dell’affermazione “non sono un profeta”, cf. 1Re 22; 2Re 3,13) e le associazioni dei “discepoli dei profeti” (cf. 1Re 20,35; 2Re 2,3.5.7; 4,1.38 ecc)» (Lucci).

L’originale ebraico non riporta il verbo reggente l’espressione negativa pronunciata da Amos («non ero profeta», secondo la traduzione CEI, che segue il greco della LXX ēmēn/ “ero”). Nel contesto dell’aspra disputa sulla vera natura del profetismo (di cui si citano vari termini precisi) sostenuta da Amos, è meglio tradurre col presente («non sono profeta»). «In un contesto controversiale di questo tipo appare alquanto verosimile che Amos dichiari di non essere “un certo tipo di profeta”… e, allo stesso tempo, affermi l’esercizio della sua chiamata in dipendenza dal volere divino» (Lucci).

In seconda battuta Amos gli ricorda la sua professione agricola, che non aveva nulla a che fare con la missione incentrata sulla parola, tipica del profeta. Egli era un “allevatore (di bestiame grosso)/bôqēr <bāqār = bestiame grosso)” e un “coltivatore di sicomori/bôlēs šiqmîm”. Probabilmente Amos incideva il frutto (o l’albero) dei sicomori per renderli commestibili.

Nel titolo del libro (1,1) si afferma che Amos «era fra gli allevatori di Teqoa/hāyāh bannōqedîm mitteqôa‘». Il termine nōqēd è usato solo qui e in 2Re 3,4, dove è riferito ad un re di Moab, Mesha, ricco e allevatore. Fuori della Bibbia lo si trova in corrispondenze lessicali nelle liste di funzionari regali a Ugarit. «Tutto ciò contribuirebbe alla comprensione del termine come una funzione svolta da persone benestanti; in relazione al profeta, ne contraddirebbe l’origine modesta» (L. Lucci).

Forse Amos voleva alludere alla sua situazione economica prospera, senza problemi di sorta. Egli era economicamente indipendente, senza necessità di trovare (ulteriori) introiti per sbarcare il lunario. Se ne stava tranquillo a Teqoa, piccolissimo paese a 16 km a sud di Gerusalemme, abbarbicato sul limitare del declivio che si precipita sul deserto di Giuda.

Terra di pascolo, pare che Teqoa fosse nota per «il buon senso dei suoi rustici abitanti, una sorta di saggezza popolare» (J. Limburg). In 2Sam 14 viene raccontato come il generale Ioab ingaggiò una donna di Teqoa, una “donna saggia” per raccontare a Davide una storia patetica di una vedova con due figli in pericolo, con lo scopo di dissuadere il re a inseguire il figlio ribelle Assalonne e farlo tornare a corte sano e salvo.

Sembra che, al tempo di Amos, la città godesse ancora di una relativa importanza, conservando le fortificazioni di cui Roboamo (931-913 a.C.) l’aveva dotata insieme ad altre città della Giudea.

YHWH ha chiamato Amos «da dietro le greggi», cioè in posizione umile, non ottimale, senza pretese; cf. la situazione di Davide “il piccolo/haqqāṭôn”, ultimo di otto fratelli “preso/lāqaḥtî”da YHWH «da dietro le greggi», 1Sam 7,8. Nella sua situazione di allevatore non aveva il pedigree sociale e culturale adatto per essere chiamato a fare il profeta. Eppure «YHWH ‘mi prese/wayyiqqāḥēnî<lāqaḥ’ da dietro il gregge e mi disse: ‘Va’, profetizza/lēk hinnābē’ al mio popolo Israele’».

Amos svolge alla lettera la vocazione profetica ricevuta direttamente da YHWH, rivolta verso la porzione settentrionale del suo popolo (“Israele = regno del Nord”). Amasia gli intima di fare proprio il contrario: andare nel paese di Giuda, mangiare-là pane (= ricevere là il suo sostentamento) (prima) e (poi) profetizzare!

Amos è profeta obbediente a YHWH, disinteressato, pronto a distaccarsi dal proprio lavoro che gli dà prosperità, per andare al Nord, territorio sconosciuto e nemico, a profetizzare vaticini molto severi proprio nel covo cultuale del re, il santuario di Bet El.

Egli profetizzerà che la corrotta Samaria perirà (Am 3,9-15), innalzerà il lamento su Israele impenitente, rivelerà l’incongruenza assoluta di un culto esteriore che convive con l’ingiustizia sociale, il lusso e la condotta lasciva di uomini e donne collegate al tempio. Essi costruiscono le case piene di avori (ritrovati negli scavi archeologici!), case per l’estate e per l’inverno, mentre il popolo soffre la fame.

I latifondisti si accaparrano i terreni dei poveri, vendono uno schiavo per un paio di sandali, progettano di vendere anche lo scarto del grano e aspettano impazienti che passi in fretta il giorno di riposo del sabato. Pochi anni dopo il sacerdote-profeta Isaia rinfaccerà a Gerusalemme gli stessi peccati: «Smettete di presentare offerte inutili; l’incenso per me è un abominio, i noviluni, i sabati e le assemblee sacre: non posso sopportare delitto e solennità. Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue» (Is 1,13-14).

L’ultima parola di YHWH pronunciata dal suo profeta Amos sarà comunque di salvezza: «In quel giorno rialzerò la capanna di Davide, che è cadente, ne riparerò le brecce, ne rialzerò le rovine, la ricostruirò come ai tempi antichi» (Am 9,11).

Amos, come tutti i profeti, non è un profeta di sventura. La salvezza è sempre annunciata all’orizzonte di chi si apre alla conversione e alla penitenza (cf. però l’atteggiamento del popolo del Nord, Am 4,6.9.11).

A due a due

All’inizio della sezione “del pane” (Mc 6,7–8,26; cf. 6,8.31.36.37[bis].42.44.52; 7,2.3.4.5.20.27; 8,1.4.5.6.14[bis].6[bis].19) Gesù “convoca a sé” i Dodici e, forti dell’intimità con lui, li invia a due a due dopo aver dato loro “potere/exousia” sul mondo del male opposto al regno di Dio, gli spiriti impuri.

La loro missione pre-pasquale, limitata per ora probabilmente ai soli villaggi circostanti della Galilea, deve essere per loro innanzitutto un’esperienza di fraternità.

Annota realisticamente il saggio Qohelet: «Meglio essere in due che uno solo, perché otterranno migliore compenso per la loro fatica. Infatti, se cadono, l’uno rialza l’altro. Guai invece a chi è solo: se cade, non ha nessuno che lo rialzi. Inoltre, se si dorme in due, si sta caldi; ma uno solo come fa a riscaldarsi? Se uno è aggredito, in due possono resistere: una corda a tre capi non si rompe tanto presto» (Qo 4,9-12). La comunione è già missione, la prima missione. È testimonianza della comunione di vita trinitaria.

Nella grande preghiera (Gv 17) Gesù pregherà così il Padre: «Io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità e il mondo conosca che tu mi hai mandato e che li hai amati come hai amato me» (Gv 17,23).

Ospitare l’ospitalità

Le norme di equipaggiamento intimate da Gesù (vv. 8-9) si possono ben comprendere, dato il raggio limitato della missione. Ma sono pur sempre norme radicali, di precarietà, di sobrietà assoluta, che sono state riprese nella stesura dei vangeli perché sentite come ancora esprimenti l’ideale da aver ben presente anche nel periodo post-pasquale della Chiesa. Esprimeranno in tal modo concretamente il distacco, il disinteresse, la gratuità che muove i Dodici in tutto il loro essere.

Non sono i mezzi mondani potenti a rendere efficace la testimonianza missionaria dei discepoli di Gesù. Essi se ne serviranno, evidentemente, ma con sorvegliata oculatezza, ponendo la propria fiducia e il fondamento dell’annuncio in una solida vita di fede e di solidarietà con i fratelli più poveri, veri vicari di Cristo.

I Dodici dovranno fare un’esperienza di fraternità umana, un’esperienza di provvidenza divina attraverso la benevolenza degli uomini. Prima di parlare e predicare dovranno essere pronti a ricevere l’umanità delle persone sconosciute, camminando fiduciosi sulle strade della missione. Senza la spocchia di voler solo e sempre dare per primi, ma con la disponibilità innanzitutto a ospitare l’ospitalità. Non la dovranno sfruttare girovagando di casa in casa, ma entrando solo in una di esse, come base operativa della missione.

Rifiutare il rifiuto

Gesù mette in conto anche il rifiuto della presenza e dell’annuncio dei Dodici. Essi dovranno rifiutare il rifiuto. Non dovranno avere niente in comune con il rifiuto del vangelo e dell’opera guaritrice degli “apostoli/inviati”. Ne prenderanno la distanza con l’azione simbolica plateale dello scuotimento della polvere dai calzari, come se stessero ritornando da una terra impura e non dalla terra del Santo, Israele. La testimonianza “per loro/contro di loro/autois” è opera di verità contro il male che si chiude al bene di Dio.

È il rifiuto della malvagità, non dei malvagi. Scuoteranno la polvere, ma non insulteranno né demonizzeranno le persone.

Banditori e curatori

Gesù non aveva menzionato esplicitamente il compito dell’annuncio e può darsi una leggera prevaricazione dei Dodici nei confronti del loro compito (cf. J. Mateos). Di fatto i Dodici, comunità “in uscita” (v. 12: exelthontes), si fanno banditori pubblici (ekēryxan) della conversione. Esattamente come Amos al suo tempo (cf. Am 4).

Essi realizzano esattamente il compito affidato esplicitamente a loro da Gesù: “gettano fuori” dagli uomini la fonte e gli effetti del male che si contrappongono al regno di Dio che si è fatto vicino (cf. Mc 1,14), ungono i malati con l’olio della forza di Dio (cf. Gc 5,14), perché diventino atleti forti e scintillanti del vangelo, facendosene carico “prendendoli in cura/etherapeuon”.

Il profeta e l’apostolo lasciano le loro sicurezze.

«Che devo fare, Signore?/quid faciam, Domine?» (At 22,10).

«[…] Un’altra notte, mentre dorme, sente di nuovo una voce, che gli chiede premurosa dove intenda recarsi. Francesco espone il suo proposito, e dice di volersi recare in Puglia per combattere. Ma la voce insiste e gli domanda chi ritiene possa essergli più utile, il servo o il padrone. “Il padrone”, risponde Francesco. “E allora – riprende la voce – perché cerchi il servo in luogo del padrone?”. E Francesco: “Cosa vuoi che io faccia, o Signore?”. “Ritorna – gli risponde il Signore – alla tua terra natale…”» (2Celano II, FF 587).

Prendi il largo, duc in altum!

«Prendete la vita controcorrente; crea la tua vita controcorrente» (papa Francesco).

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