Ogni volta che ci rechiamo nella casa del Padre, soprattutto la domenica giorno nel quale tutta la cristianità fa memoria della risurrezione di Gesù, noi rinnoviamo anzitutto il nostro inno di ringraziamento per il dono del battesimo in virtù del quale siamo diventati figli di Dio, fratelli di Gesù Cristo e membri della Chiesa. Partecipando all’eucaristia, noi esercitiamo – per così dire – un diritto: quello di sedere alla stessa mensa dei fratelli e delle sorelle nella fede e del Signore Gesù.
Nello stesso tempo, però, ci sentiamo sollecitati a rinnovare tutti gli impegni della nostra vita cristiana. Riconosciamo, infatti, di essere chiamati a imitare l’infinita bontà del Signore, che non si stanca mai di perdonare le colpe dei figli suoi ed è sempre pronto a colmarli di tenerezza paterna e materna. Con grande coraggio l’apostolo Paolo arriverà a dire: «Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi» (Ef 5,1): sarà proprio del tutto impossibile?
1. La prima lettura è tratta dal libro della Genesi: una pagina che narra della preghiera di intercessione che il grande patriarca Abramo eleva a Dio in favore delle città di Sodoma e Gomorra che, secondo un’antica tradizione, sarebbero state distrutte da un cataclisma in punizione dei loro peccati.
Ma il racconto di oggi ci presenta ben altri insegnamenti, che l’autore intende trasmettere con chiara evidenza. Anzitutto, qui si mette in grande rilievo l’intima relazione che lega Dio ad Abramo e Abramo al suo Dio. È segno che la preghiera di Abramo coinvolge la vita intera: non si prega solo con la bocca, ma con la vita, si prega mettendosi faccia a faccia (cf. Es 33,11 e Nm 12,8), corpo a corpo con il Signore, con il coraggio di chi sa che sta trattando, forse anche lottando (cf. Col 4,12), con un padre e non con un padrone.
Dal brano biblico emerge anche la somma magnanimità del grande patriarca Abramo, che si espone con Dio per intercedere a favore di due città straniere, sfacciatamente peccatrici: la preghiera del giusto non si chiude mai su orizzonti miopi ed egoistici, ma si dilata all’infinito fino a raggiungere ogni persona che versa in situazioni di miseria materiale e/o spirituale.
Infine, questa pagina biblica mette in primo piano la figura di Dio, infinitamente misericordioso, sempre disposto a perdonare. Anzi, si direbbe che egli attende solo di ascoltare e di ricevere preghiere dalle sue creature per dare sfogo alla sua misericordia. Questo è il cuore del Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe; ancor più questo è il cuore del Dio Padre del Signore nostro Gesù Cristo.
2. Il salmo responsoriale è un inno di ringraziamento a Dio per la sua fedeltà e la sua misericordia, manifestate nei confronti di un pio israelita che lo ha invocato con animo colmo di fiducia: «Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà». Il primo sguardo dell’orante dunque è rivolto al Dio delle promesse e dell’alleanza.
Il ritornello, estendendo la riflessione dal caso particolare ad una situazione generale, professa la stessa convinzione: «Nel giorno in cui ti ho invocato mi hai risposto»: un chiaro invito a tutti noi, affinché nelle tribolazioni della vita, impariamo a invocare l’aiuto del Padre che sta nei cieli piuttosto che lamentarci e confidare solo nell’aiuto degli altri.
Quando l’orante afferma: «Non agli dèi, ma a te voglio cantare, mi prostro verso il tuo tempio santo», richiama il contesto di una preghiera ufficiale, alla quale partecipa insieme a coloro che condividono la stessa fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe.
L’orante sa molto bene che, quando riceve da Dio l’aiuto invocato e il perdono dei peccati, allora gli tornano le forze morali e spirituali con cui combattere le sue battaglie quotidiane: «Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto, hai accresciuto in me la forza». Solo così egli può sperare di rimanere fedele alla parola data e dimostrare di essere un vero e autentico israelita.
Ma egli sa anche che, finché vive su questa terra, egli avrà sempre bisogno del divino aiuto. Per questo prega: «Il Signore farà tutto per me. Signore, il tuo amore è per sempre: non abbandonare l’opera delle tue mani». Dimostrerebbe di essere spiritualmente miope chi pregasse solo per le necessità presenti; la preghiera, di sua natura, tende a coprire anche gli spazi futuri della vita propria e altrui.
3. La seconda lettura è tratta dalla lettera dell’apostolo Paolo ai cristiani di Colossi: ci presenta una stupenda catechesi sul battesimo, con la quale l’apostolo intendeva tenere sempre viva la fede di quei cristiani, affinché potessero vantarsi della grande dignità di esser veramente, e non solo di nome, figli e figlie di Dio.
Anzitutto, l’apostolo richiama il simbolismo tipico del battesimo, che ben conosciamo: il simbolismo dell’acqua nella quale veniamo immersi e dalla quale emergiamo. Certo, è la fede che reca salvezza ma – secondo l’insegnamento di Paolo – la nostra fede agisce per mezzo dei riti sacramentali, primo fra essi il battesimo, che attualizzano la grazia dei misteri di Cristo.
In seconda battuta, Paolo mette in grande evidenza che noi siamo stati sepolti con Cristo e che in Cristo siamo anche risorti. Con Cristo e in Cristo: è il linguaggio con il quale l’apostolo ama comunicare il suo messaggio relativo alla nostra rinascita con la quale si inaugura la vita nuova.
La conseguenza logica è che «con lui Dio ha dato vita anche a voi che eravate morti a causa delle colpe»: questa è la vita nuova che viviamo da risorti in Cristo, vita che ci è donata dal Padre, che è la fonte e l’origine di ogni bene,
Alla fine, l’apostolo mette davanti a noi, in modo del tutto plastico, la figura di Cristo crocifisso: «Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce». Certo, è Gesù, il Figlio, che si è offerto al Padre ma – secondo l’apostolo – è anche il Padre che offre il Figlio per la nostra salvezza.
4. La pagina evangelica è tratta dal capitolo undicesimo del terzo vangelo che ci offre la versione lucana del Padre nostro. Quali sono le caratteristiche di questa versione, che è più breve di quella conservataci da Matteo, ma non per questo meno ricca e suggestiva?
Anzitutto, dobbiamo rilevare che Gesù risponde alla precisa domanda di uno dei suoi discepoli, che vorrebbe imparare da Gesù a pregare, come Giovanni il Battista aveva fatto con coloro che lo seguivano nella sua missione. Ma Gesù non si accontenta di esaudire una richiesta, bensì insegna a tutti noi, suoi discepoli, come dobbiamo pregare quando ci rivolgiamo a Dio.
«Padre»: basta questa invocazione per esprimere la nostra fede non in un Dio astratto e lontano, ma nell’unico Dio che ci è vicino più di ogni altro padre terreno. Padre, cioè Abbà, esattamente come si esprimeva Gesù quando si rivolgeva al Padre suo (cf. Mt 26,39.42). Esattamente come l’apostolo Paolo esorta i cristiani a comportarsi con Dio quando lo pregano (cf. Gal 4,7; Rm 8,15).
«Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno»: il nome e il regno dicono chiaramente che anche la nostra preghiera, come quella di Gesù, dev’essere teocentrica. Al vertice e al centro del nostro pregare non dobbiamo mettere noi stessi e neppure le nostre necessità materiali o spirituali, ma sempre solo ed esclusivamente Dio: il suo nome, perché sia riconosciuto da tutti, e il suo regno, perché venga.
«Perdona a noi i nostri peccati, anche noi infatti perdoniamo ogni nostro debitore»: è davvero forte l’impegno che ci prendiamo con quel «anche noi infatti».