A qualunque religione appartengano, i credenti in Dio pregano. Anche i cristiani pregano. Pregano per chi è malato, per chi non ha un lavoro, per il figlio che si è messo in cattive compagnie, per le famiglie con discordie. Chiedono a Dio che mandi le piogge, benedica i raccolti, protegga dalle sventure.
Oggi, questo tipo di preghiera è irriso da alcuni, lascia indifferenti altri e suscita non pochi interrogativi anche nei credenti. Perché pregare se Dio già conosce ciò di cui abbiamo bisogno ed è sempre disposto a donarci ogni bene?
Anche di fronte alle suppliche più accorate, spesso egli tace, lascia che gli avvenimenti seguano il loro corso apparentemente assurdo. Tutto procede come se egli non esistesse e il suo inspiegabile silenzio fa esclamare: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Sal 22,2).
Il dialogo con lui assume anche toni drammatici, si tramuta discussione, in disputa aperta. Geremia gli rivolge un’accusa quasi blasfema: “Tu sei divenuto per me un torrente infido, dalle acque incostanti” (Ger 15,18). Sei come i torrenti primaverili che, allo sciogliersi delle nevi, scorrono impetuosi, ma nei mesi dell’arsura, quando le carovane di Saba vi giungono assetate, sono aridi, senz’acqua (Gb 6,15-20).
Vorremmo un Dio compiacente, che si facesse garante dei nostri sogni. Egli invece tenta liberarci dalle nostre illusioni, di strapparci dalle meschinità, dalle grettezze, dai desideri vani, per coinvolgerci nei suoi progetti.
La preghiera diviene così una lotta con il Signore, come quella sostenuta da Giacobbe, per un’intera notte, presso il fiume Iabbok (Gen 32,23-33). Ne esce vincitore chi si arrende a Dio.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Il Padre nostro sa di che abbiamo bisogno”.
Prima Lettura (Gen 18,20-32)
In quei giorni 20 disse il Signore: “Il grido contro Sòdoma e Gomorra è troppo grande e il loro peccato è molto grave. 21 Voglio scendere a vedere se proprio hanno fatto tutto il male di cui è giunto il grido fino a me; lo voglio sapere!”.
22 Quegli uomini partirono di lì e andarono verso Sòdoma, mentre Abramo stava ancora davanti al Signore. 23 Allora Abramo gli si avvicinò e gli disse: “Davvero sterminerai il giusto con l’empio? 24 Forse vi sono cinquanta giusti nella città: davvero li vuoi sopprimere? E non perdonerai a quel luogo per riguardo ai cinquanta giusti che vi si trovano? 25 Lungi da te il far morire il giusto con l’empio, così che il giusto sia trattato come l’empio; lungi da te! Forse il giudice di tutta la terra non praticherà la giustizia?”. 26 Rispose il Signore: “Se a Sòdoma troverò cinquanta giusti nell’ambito della città, per riguardo a loro perdonerò a tutta la città”.
27 Abramo riprese e disse: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere… 28 Forse ai cinquanta giusti ne mancheranno cinque; per questi cinque distruggerai tutta la città?”. Rispose: “Non la distruggerò, se ve ne trovo quarantacinque”. 29 Abramo riprese ancora a parlargli e disse: “Forse là se ne troveranno quaranta”. Rispose: “Non lo farò, per riguardo a quei quaranta”.
30 Riprese: “Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora: forse là se ne troveranno trenta”. Rispose: “Non lo farò, se ve ne troverò trenta”. 31 Riprese: “Vedi come ardisco parlare al mio Signore! Forse là se ne troveranno venti”. Rispose: “Non la distruggerò per riguardo a quei venti”. 32 Riprese: “Non si adiri il mio Signore, se parlo ancora una volta sola; forse là se ne troveranno dieci”. Rispose: “Non la distruggerò per riguardo a quei dieci”.
Abramo non è solo un modello di fede e di ospitalità – come abbiamo visto la scorsa domenica – ma anche di preghiera.
Un giorno – narra la storia – il Signore gli rivela la sua decisione di andare a Sodoma per verificare le voci che gli sono giunte sulla malvagità dei suoi abitanti.
In quella città Abramo ha un nipote e si preoccupa di quanto può succedere.
Si rivolge al Signore e comincia a intercedere affinché Sodoma sia risparmiata, per amore dei giusti che in essa si trovano. Gli parla da amico, la sua preghiera non è un susseguirsi di formule imparate a memoria o lette su un libro, non è una filastrocca pronunciata distrattamente, è un dialogo spontaneo e sincero.
La scena è descritta con il tipico linguaggio fiorito degli orientali. Sembra di assistere all’incontro fra due mercanti del suq della città vecchia di Gerusalemme. Abramo tira sul prezzo, prima scende da cinquanta a quarantacinque, poi a quaranta e, visto che il Signore è disposto a trattare, si fa coraggio e scende non di cinque in cinque, ma di dieci in dieci.
In realtà il messaggio teologico del brano è molto profondo: vuole porre in risalto la magnanimità di Dio, quella infinita misericordia che l’uomo progressivamente scopre, proprio mediante la preghiera.
Viene da chiedersi perché Abramo si sia fermato a dieci.
Geremia ed Ezechiele oseranno scendere di più, intuiranno che Dio perdonerebbe al suo popolo se incontrasse anche un solo giusto: “Percorrete le vie di Gerusalemme – dice il Signore – osservate bene e informatevi, cercate nelle sue piazze se trovate un uomo, uno solo che agisca giustamente e cerchi di mantenersi fedele, e io le perdonerò” (Ger 5,1; Ez 22,30).
Oggi quell’unico giusto noi l’abbiamo trovato e siamo certi del perdono di Dio.
Seconda Lettura (Col 2,12-14)
12 Con Cristo siete stati sepolti insieme nel battesimo, in lui anche siete stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti. 13 Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati e per l’incirconcisione della vostra carne, perdonandoci tutti i peccati, 14 annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.
Se negli archivi di un giudice fosse conservato un documento che comprova le nostre trasgressioni alle leggi, noi non vivremmo sereni e tranquilli. Un giorno questo documento potrebbe essere reso noto ed essere causa della nostra condanna.
Contro di noi – dice Paolo – era archiviato nei cieli un libro in cui erano segnati i tutti i nostri “debiti”. Erano davvero tanti. Che ha fatto Dio? Ha preso quel documento e l’ha fatto a pezzi, l’ha inchiodato sulla croce. Non abbiamo più motivo di avere paura (v.14). Nel battesimo la nostra vita antica, i nostri peccati sono stati distrutti e ora, risorti con Cristo, conduciamo una vita completamente nuova.
Vangelo (Lc 11,1-13)
1 Un giorno Gesù si trovava in un luogo a pregare e quando ebbe finito uno dei discepoli gli disse: “Signore, insegnaci a pregare, come anche Giovanni ha insegnato ai suoi discepoli”. 2 Ed egli disse loro: “Quando pregate, dite:
Padre, sia santificato il tuo nome,
venga il tuo regno;
3 dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano,
4 e perdonaci i nostri peccati,
perché anche noi perdoniamo ad ogni nostro debitore,
e non ci indurre in tentazione”.
5 Poi aggiunse: “Se uno di voi ha un amico e va da lui a mezzanotte a dirgli: Amico, prestami tre pani, 6 perché è giunto da me un amico da un viaggio e non ho nulla da mettergli davanti; 7 e se quegli dall’interno gli risponde: Non m’importunare, la porta è già chiusa e i miei bambini sono a letto con me, non posso alzarmi per darteli; 8 vi dico che, se anche non si alzerà a darglieli per amicizia, si alzerà a dargliene quanti gliene occorrono almeno per la sua insistenza.
9 Ebbene io vi dico: Chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. 10 Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, e a chi bussa sarà aperto. 11 Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pane, gli darà una pietra? O se gli chiede un pesce, gli darà al posto del pesce una serpe? 12 O se gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione? 13 Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!”.
Nessun evangelista insiste tanto sul tema della preghiera quanto Luca che, per ben sette volte, ricorda che Gesù pregava. Era in preghiera – dice – al momento del battesimo (Lc 3,21); “si ritirava in luoghi solitari a pregare” durante la vita pubblica (Lc 5,16); ha pregato quando ha scelto i discepoli (Lc 6,12) e prima di chiedere loro di pronunciarsi sulla sua identità (Lc 9,18); era in preghiera al momento della trasfigurazione (Lc 9,28-29) e quando insegnò il Padre nostro (Lc 11,1). Pregò soprattutto nel momento più drammatico della sua vita, nel Getsemani (Lc 22,41-46).
Oltre a queste annotazioni, Luca riporta anche cinque preghiere di Gesù. Di queste voglio ricordare le due, commoventi, pronunciate sulla croce: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23,24) e – sono le sue ultime parole prima di morire – “Padre, nelle tue mani affido il mio spirito” (Lc 23,46).
È quanto basta per dimostrare che tutta la vita di Gesù è stata segnata dalla preghiera. La lucidità delle sue scelte, il suo equilibrio psicologico, la sua dolcezza unita alla fermezza si spiegano con il suo perfetto rapporto con il Padre, rapporto stabilito mediante la preghiera.
Egli non ha pregato per chiedere favori, per avere uno sconto sulle difficoltà della vita, non ha chiesto a Dio di modificare i suoi progetti, ma di fargli capire qual era la sua volontà, per poterla far sua e compierla.
Il brano di oggi è una catechesi sulla preghiera. Inizia presentando la circostanza in cui Gesù ha insegnato il Padre nostro (v.1), poi riporta la preghiera del Signore (vv.2-4) seguita da una parabola (vv.5-8) e si conclude con le parole con cui Gesù assicura l’efficacia della preghiera (vv.9-13). Esaminiamo ciascuna di queste parti.
Anticamente i movimenti religiosi erano caratterizzati non solo dalle verità in cui credevano e dalle norme etiche che osservavano, ma anche da una preghiera in cui era sintetizzata la loro fede e la loro proposta di vita. Anche il Battista ne aveva insegnata una ai suoi discepoli.
Un giorno gli apostoli si avvicinano a Gesù e gli chiedono di comporne una per loro (v.1). Rispondendo a questa richiesta insegna loro il Padre nostro.
Ecco – esclamano molti cristiani – la più bella di tutte le preghiere! Migliore dell’Ave Maria, della Salve Regina, del Requiem aeternam, perché è stata pronunciata da Gesù.
Questa affermazione parte dal presupposto che il Padre nostro sia una formula di preghiera da aggiungere alle altre. Non è così.
Il Padre nostro non va accostato alle altre preghiere, ma al Simbolo Apostolico perché, come il Simbolo, è un compendio della fede e della vita cristiana. Nella chiesa primitiva i catecumeni lo apprendevano direttamente dalla bocca del vescovo. Era la sorpresa, il regalo che egli faceva a chi aveva chiesto e ottenuto di diventare cristiano. Lo consegnava ai catecumeni otto giorni prima del loro battesimo e questi, durante la celebrazione della notte di Pasqua, lo restituivano, cioè lo recitavano per la prima volta insieme alla loro comunità. Per questo sarebbe bello recitarlo ogni tanto presso il fonte battesimale.
Padre (v.2).
Dimmi come preghi e ti dirò in quale Dio credi. L’ateo non prega perché non ha un interlocutore e ritiene alienante cercare da un altro quelle soluzioni che ognuno può trovare da solo. I credenti pregano, ma le modalità sono diverse, perché a ogni fede religiosa corrisponde una diversa immagine di Dio. Per qualcuno Dio è solo una forza cieca, impersonale, a volte benefica, altre malefica, imprevedibile, magari capricciosa; per altri è un interlocutore anonimo, per altri ancora un “ente supremo”, un giudice severo, un “padrone assoluto di tutte le cose” al quale ci si può avvicinare solo accompagnati da un angelo o da qualche santo che funga da mediatore.
Per i cristiani Dio è il Padre dal quale sono stati pensati e amati “prima ancora di essere formati nel segreto, intessuti nelle profondità della terra” (Sal 109,15). Quando si rivolgono a lui – stando in piedi (non in ginocchio) – lo chiamano Padre (v.2). Ricorrono a lui direttamente e con fiducia, non sentono alcun bisogno di protezioni o raccomandazioni, entrano nella sua casa perché la porta è sempre spalancata e se, come il figlio prodigo, a volte se ne allontanano, sanno di poter tornare ed essere ben accolti.
“Sia santificato il tuo nome” (v.2).
È il primo auspicio che affiora sulle labbra del cristiano quando si rivolge al Padre. Rivela l’incontenibile desiderio di vedere realizzato il sogno di Dio.
La forma passiva dell’espressione equivale – nel linguaggio biblico – a santifica, o Dio, il tuo nome.
Non noi, ma lui deve manifestare la santità del suo nome. Come?
Lungo i secoli – dice la Bibbia – Israele ha profanato il nome del suo Dio, non perché lo bestemmiava, ma perché, con le sue infedeltà, gli impediva di manifestare il suo amore e di realizzare la sua salvezza (Ez 36,20). Il nome di Dio non è “santificato” o glorificato quando molti lo applaudono, quando aumenta il numero di chi partecipa a solenni liturgie e cerimonie nei templi, ma quando la sua salvezza raggiunge l’uomo. Un povero che ottiene giustizia, un cuore liberato dall’odio, un peccatore che torna ad essere felice, una famiglia in cui è ricostruita l’intesa e la pace “santificano il nome di Dio”, perché sono la prova che la sua parola compie prodigi.
Nel Padre nostro il cristiano auspica che Dio porti presto a compimento la promessa fatta per bocca di Ezechiele: “Santificherò il mio nome grande, disonorato fra le genti. Vi radunerò da ogni terra e vi condurrò sul vostro suolo. Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Abiterete nella terra che io diedi ai vostri padri; voi sarete il mio popolo e io sarò il vostro Dio” (Ez 36,23-28).
Quando chiede: sia santificato il tuo nome, il discepolo dichiara al Padre la propria disponibilità a lasciarsi coinvolgere, a collaborare con lui perché questa promessa di bene si realizzi. Non conosce “né il giorno né l’ora” (Mc 13,32), ma è certo che la sua preghiera verrà esaudita.
“Venga il tuo regno” (v.2).
L’esperienza della monarchia in Israele è stata deludente, come testimoniano le drammatiche denunce dei profeti: “I capi sono dei banditi e complici di ladri; tutti sono bramosi di regali, ricercano mance, non rendono giustizia all’orfano e la causa della vedova a loro non giunge” (Is 1,23).
Il popolo sente il bisogno di un regno nuovo in cui, a guidare le sorti del Paese non siano l’avidità, le frenesie di potere, gli interessi egoistici, ma i pensieri di Dio.
Inizia l’attesa del giorno in cui il Signore prenderà in mano personalmente le sorti del suo popolo e diventerà re. Il Salmista canta così la meraviglia di quel regno: “Nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna. Abbonderà il frumento nel paese, ondeggerà sulle cime dei monti. La messe sarà come l’erba della terra” (Sal 72,7.16). Anche i profeti sognano quel giorno: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza, che dice a Sion: regna il tuo Dio” (Is 52,7).
L’attesa, al tempo di Gesù, è febbrile. Nella terza delle diciotto Benedizioni, i pii israeliti chiedono a Dio: “Dal tuo luogo, o nostro re, risplendi e regna su di noi, perché noi attendiamo che tu regni in Sion”. Le speranze suscitate dalle profezie generano anche illusioni, false attese, fraintendimenti da cui prendono avvio rivolte dissennate che finiscono in bagni di sangue.
Non è “di questo mondo” il Regno che costituisce il fulcro della predicazione di Gesù. Nel NT si parla per centoventidue volte del “regno di Dio” e ben novanta sulla bocca di Gesù. Egli afferma: “Se scaccio i demoni con il dito di Dio, è dunque giunto a voi il regno di Dio” (Lc 11,20) e proclama: “Il regno di Dio è già in mezzo a voi” (Lc 17,21).
È finito il tempo dell’attesa, tuttavia il cristiano continua a impetrarne la venuta perché il regno di Dio è solo agli inizi, deve svilupparsi e crescere in ogni uomo come semente di bene, di amore, di riconciliazione, di pace. La preghiera gli fa evitare tragici equivoci, lo aiuta a discernere fra i regni di questo mondo (dai quali è sempre lusingato e sedotto) e il regno di Dio.
“Dacci ogni giorno il nostro pane quotidiano” (v.3).
Fra i popoli orientali dove ogni gruppo familiare aveva il suo forno, il pane era ben più di un semplice alimento da consumare. Evocava sentimenti, emozioni, relazioni di amicizia che noi oggi ignoriamo. Era un richiamo alla generosità ed alla condivisione con i più poveri: non lo si poteva mangiare da soli (Gb 31,17), la focaccia doveva sempre essere condivisa con l’affamato (Is 58,7).
Il pane era sacro, non poteva essere buttato nell’immondizia, non lo si tagliava con il coltello, lo si spezzava delicatamente. Solo le mani dell’uomo erano degne di toccarlo perché aveva qualcosa di sacro: il lavoro dell’uomo e la benedizione di Dio che aveva concesso al suo popolo una terra fertile e aveva mandato a suo tempo piogge e rugiada.
È la fatica dell’agricoltore che ci dona il pane. Allora cosa domandiamo a Dio: che lavori al nostro posto? Ha senso chiedergli ciò che siamo in grado di procurarci da soli? Non corriamo il pericolo di ricadere nell’alienazione e nell’oscurantismo?
Esaminiamo ogni dettaglio della domanda: chiediamo il nostro pane. Della manna non si dice mai che è nostra: pioveva dal cielo, era unicamente dono di Dio (Ne 9,20). Il pane invece è contemporaneamente dono di Dio e frutto del sudore, della fatica e del sacrificio dell’uomo, per questo gli uomini possono giustamente dire nostro.
Il pane benedetto da Dio è quello prodotto “insieme” ai fratelli, quello ottenuto dalla terra che Dio ha destinato a tutti e non solo a qualcuno, quello che non contiene le lacrime del povero sfruttato.
Recitare il Padre nostro significa porsi in costante verifica di se stessi perché non lo può pregare in modo sincero e autentico chi pensa unicamente al proprio pane, chi si dimentica del povero, chi non si impegna per la giustizia sociale.
Non può chiedere a Dio il nostro pane chi non lavora, chi vive alle spalle degli altri.
Chiedere il pane quotidiano significa rifiutarsi di accaparrare cibo per il giorno seguente, mentre i fratelli mancano del necessario oggi; significa liberare il proprio cuore dalla bramosia del possesso e dall’angoscia del domani. Equivale a dire: “Aiutami o Padre a contentarmi del necessario, liberarmi dalla schiavitù dei beni e dammi la forza di condividerli con i poveri”.
“Perdonaci i nostri peccati, perché anche noi perdoniamo” (v.4).
Possiamo recitare qualunque preghiera (l’Ave Maria, l’Angelus Domini, il Requiem aeternam) con l’odio nel cuore, ma non il Padre nostro.
Il cristiano non può sperare di essere ascoltato da Dio se non coltiva sentimenti di amore verso il fratello. Non basta dimenticare il male ricevuto, viene chiesto di più.
Il cristiano non può aprirsi all’amore del Padre se rifiuta di riconciliarsi con il fratello.
“E non ci indurre in tentazione” (v.4).
La tentazione da cui si chiede di essere salvati non si riferisce alle piccole debolezze, miserie e fragilità quotidiane (che pure non sono escluse), ma all’abbandono della “logica del Vangelo” per aderire alla “logica di questo mondo”. Le tribolazioni o la persecuzione possono fare inciampare e entrare in crisi; le preoccupazioni della vita e l’inganno dei beni possono soffocare il seme della parola di Dio. Il cristiano non chiede di essere preservato da queste “tentazioni”, ma di non cedere alle seduzioni di questo mondo, di non essere sfiorato dall’idea di abbandonare il Maestro.
Dopo aver presentato il modello della preghiera cristiana, Gesù racconta la parabola di un uomo che, con molta insistenza, va a chiedere ad un amico che gli dia tre pani (vv.5-8).
Questo racconto vuole insegnare che la preghiera ottiene risultati solo se è prolungata.
Non perché Dio voglia essere interpellato a lungo prima di concedere qualcosa, ma perché l’uomo impiega molto tempo per assimilare i suoi pensieri e i suoi sentimenti.
Le nostre preghiere sembrano tentativi di convincere Dio a cambiare il suo progetto. Vorremmo che egli si adeguasse alle nostre idee, che correggesse le “sviste” in cui è incorso. Se parliamo lungamente con lui, finiamo per capire il suo amore e per accettare i suoi disegni.
La preghiera non cambia Dio, apre la nostra mente, modifica il nostro cuore.
Questa trasformazione interiore non può realizzarsi – salvo improbabili miracoli – in pochi istanti. Ci è difficile rinunciare al nostro modo di leggere gli avvenimenti. Facciamo fatica ad accettare la luce di Dio. Siamo ciechi, non riusciamo (o non vogliamo) vedere. I cammini di Dio non sempre sono facili e piacevoli, richiedono conversioni, sforzi, rinunce, sacrifici. Per raggiungere l’adesione interiore alla volontà del Signore, per arrivare a vedere con i suoi occhi gli avvenimenti della nostra vita occorre pregare… per molto tempo.
Siamo così giunti all’ultima parte del Vangelo di oggi (vv.9-13). La preghiera cristiana è sempre esaudita – dice Gesù – eppure la nostra esperienza non sembra confermare questa affermazione.
Viene ripreso il tema dell’insistenza nella preghiera mediante tre immagini: chiedere, cercare, bussare. La preghiera produce sempre risultati prodigiosi e inattesi. Ma non coltiviamo false speranze. Fuori di noi la realtà rimarrà quella di prima (la malattia continuerà, il torto subito rimarrà, le ferite del tradimento saranno ancora dolorose…), ma dentro tutto sarà diverso. Se la mente e il cuore non sono più gli stessi, se lo sguardo con cui contempliamo la nostra situazione, il mondo e i fratelli diventano diversi, più puri, più “divini”, la preghiera ha ottenuto il suo risultato, è stata esaudita.
Recuperata la serenità e la pace interiore, anche le ferite psicologiche e morali si rimargineranno presto e anche le malattie organiche – perché no? – potrebbero guarire più facilmente.