Qualcuno (penso ai nati negli anni ’40 e ’50, e anche prima) ricorderà che una delle più vistose innovazioni prodotte dal Concilio, dopo il passaggio dall’uso del latino all’italiano nelle celebrazioni liturgiche (messa, sacramenti, liturgia delle ore), fu – immagino – la ristrutturazione del presbiterio, che comportò due grosse novità: la scomparsa delle balaustre, che eliminava una visibile netta separazione tra clero e popolo, e la trasformazione dell’altare, che da secoli era stato ridotto a una “predella” che serviva da base a una serie di mensole dove troneggiavano candelieri giganti, a volte le statue dei quattro dottori della Chiesa, e diversi vasi di fiori; il tutto trovava il suo punto focale di attenzione nel tabernacolo, diventato di fatto il centro della devozione eucaristica, con la “presenza” segnalata dalla lampada accesa.
Recuperare il binomio altare/mensa
L’altare come “mensa”, sul quale non dovrebbe essere posato niente se non ciò che serve alla celebrazione della messa, ritrovò con la riforma una sua centralità e un suo pieno significato, perché una mensa serve a preparare e a porre il cibo del quale poi ci si nutre (non dunque candelieri e vasi di fiori), marcando con questo il punto attorno al quale si “raduna” una comunità.
Il mutamento del presbiterio mise in luce altri due segni importanti per capire il senso della celebrazione: l’ambone, che serve a enfatizzare l’importanza della Parola che lì viene proclamata e commentata, e la sede, dove sta colui che presiede l’assemblea, la guida e la istruisce, ed è chiamato così a sentirsi comunità, sensazione mai raggiunta del tutto, e che colui che presiede dovrebbe tenere bene in mente per non rischiare di intendere la celebrazione come “recitazione del programma stampato”, dove l’unica variante prevista è l’omelia.
Ma, anche su questo, è utile ricordare che l’omelia non è obbligatorio svolgerla sul solo vangelo, e neanche sulle letture, ma può esserlo su ogni parte della messa, «tenuto conto sia del mistero che viene celebrato, sia delle particolari necessità di chi ascolta» (Ordinamento generale del Messale romano, n. 65). Tutto può essere occasione per un qualche commento o gesto che aiuti il popolo a crescere nella coscienza di essere una “comunità”, a cominciare dal ritmo pacato e concorde della risposta ai dialoghi che occorrono in vari momenti della celebrazione, come non sempre accade.
Visto che l’assemblea pare sia composta per lo più dalla generazione cresciuta nel pre-concilio, mi chiedo quanto i più siano consapevoli di quanto ho appena detto sul senso dell’altare-mensa, cosa non sempre chiara neanche nel prete che presiede.
Quanto alle generazioni nuove, il problema è enorme, ma su questo non mi fermo, perché la situazione implica – mi sembra – un’attenzione appassionata alla liturgia nella catechesi a fanciulli e giovani, e una ri-catechizzazione a livello catecumenale degli adulti, magari anche in occasione della preparazione ai sacramenti di confessione, comunione e cresima, per i quali, oltre e più che dei bambini, ci si dovrebbe preoccupare dei genitori, secondo il metodo di una “formazione permanente”.
Una mensa gustosa e nutriente
Questa introduzione mi è venuta alla mente pensando che la prima lettura e il vangelo di oggi ruotano attorno a qualcosa che ha nella mensa il suo riferimento naturale: mangiare e bere, con in più ascoltare, che è, come tutti sanno, il bello della tavola, che non è fatta solo per “nutrirci”, ma che raggiunge il suo obiettivo più importante nella gioia del “mangiare insieme”, il che implica una circolazione della parola che serve a dare senso alla riunione.
La lettura del profeta Isaia (55,1-3) ci presenta un Dio che mette radicalmente in crisi il sistema capitalistico e le leggi del mercato: «O voi tutti assetati, venite all’acqua, voi che non avete denaro, venite; comprate e mangiate; venite, comprate senza denaro, senza pagare, vino e latte».
Ma a leggere bene, forse non si tratta di procurarsi gli alimenti necessari per la vita senza pagare, ma, elevando un poco lo sguardo, ricordare che noi abbiamo fame e sete anche di altre cose che non sono solo quelle materiali, ed è pensando a questi bisogni che il profeta continua: «Perché spendete denaro per ciò che non è pane, il vostro guadagno per ciò che non sazia?».
Stiamo pure nell’immagine della mensa alla quale ci accostiamo di solito. Che guadagno c’è nell’avere sulla tavola cibi e bevande prelibate quando le persone che mangiano e bevono insieme non sono in sintonia tra loro? Quando ristagna nell’ambiente un’atmosfera di diffidenza, di sospetto, di rancore per offese non digerite? Quando l’aria è così pesante che non si vede l’ora che il tutto finisca?
È quanto segue che illumina tutto il brano: «Su, ascoltatemi e mangerete cose buone e gusterete cibi succulenti». Naturale pensare al «Non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio» (Dt 8,3; Mt 4,4), e soprattutto alle parole dette da Gesù in un lungo discorso segnato dall’incomprensione e, alla fine, dal rifiuto: «Io sono il pane della vita, sono il pane che discende dal cielo perché chi ne mangia non muoia, e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,48-51). Lo stesso vale per la sete: «Chi berrà dell’acqua che io gli darò non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna» (Gv 4,14).
Non sono discorsi fatti di vapore acqueo, proposte di una spiritualità eterea che vorrebbe evadere dalle durezze della vita. Il pane di cui discorre Gesù sono anche le “parole”, le nostre, quelle che confortano, benedicono, educano, perdonano, incoraggiano, che non offendono, non insultano, non disprezzano, non maltrattano, ma servono invece a dare speranza, gioia e gusto per la vita.
Se c’è un prezzo da pagare per acquistare questi beni, che non possediamo in modo automatico, e che sono sempre minacciati dal loro contrario, c’è solo una ricetta: «Porgete l’orecchio – dice Dio – e venite a me, ascoltate e vivrete». E cos’è questa “vita”? «Io stabilirò per voi un’alleanza eterna». Quale? Quella che, con Gesù, è diventata l’alleanza nuova, che rinnoviamo in ogni eucaristia, quella comunione di cuori che cresce sulla gratuità e sul dono: «Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue con cui consegno me stesso a voi, per la vostra vita».
Se questo è vero – come è vero –, non sorprende più l’attacco folgorante della seconda lettura (Rm 8,35.37-39): «Fratelli, chi ci separerà dall’amore di Cristo?». Segue un torrente di affermazioni, che travolge ogni forma di paura e di angoscia, perché niente e nessuno, se non noi stessi, potrà mai rompere questa alleanza, un “inno all’amore di Dio” che ci arriva dalla bocca di uno che ha sofferto nella sua carne tutte le tribolazioni che enumera, e che dichiara, alla fine, come niente di tutto ciò lo può separare dall’amore di Cristo, perché «in tutte queste cose noi siamo più che vincitori grazie a colui che ci ha amati».
Compassione e gratuità
Quasi a dimostrare ancora una volta la verità di queste parole di Paolo, arriva l’accostamento che fa Matteo nel suo vangelo (Mt 14,13-21) tra l’assassinio di Giovanni Battista e il primo racconto della moltiplicazione dei pani, tra la sconfitta di un “profeta” e la risposta di un altro che lo segue, e che, pur prevedendo che subirà la stessa sorte (Mt 16,21), non si arrende, non fugge, e risponde a un fallimento umano alla sua maniera, quella divina.
Il collegamento tra i due episodi è fatto dallo stesso evangelista: «Avendo udito della morte crudele di Giovanni Battista, Gesù partì di là su una barca e si ritirò in un luogo deserto, in disparte». Non è la prima né l’unica volta che questo “ritirarsi di Gesù” fa pensare a un’indecisione, forse anche a un suo momento di paura. Ma il “deserto” è il luogo dove egli ha l’abitudine di intrattenersi con il Padre per capire come comportarsi. E la risposta arriva presto: si ritrova davanti «una gran folla che lo ha seguito a piedi dalle città». La sua reazione è la solita che conosciamo: le folle suscitano la sua “compassione”, che si traduce anzitutto nella guarigione dei malati.
Il racconto di Marco è più ricco di dettagli, nei quali ci dice il motivo che colpisce Gesù (erano come pecore senza pastore), e pure che «egli insegnava loro molte cose» (Mc 6,11). Matteo, in certo senso, “asciuga” il testo, ma l’essenziale rimane: la compassione porta a un intervento mirato a guarire.
Questa figura di Gesù “medico” è dominante nei vangeli, in grado massimo in quello di Luca, e integra magnificamente quella di “maestro”, le due immagini chiave che fanno la sostanza di quella che si chiama, nei discepoli, “attività pastorale”.
In Matteo, Gesù insegna con il gesto, scelta curiosa in un vangelo celebre per i “discorsi” di cui è costellato. Comunque, oltre alle malattie, in questo caso Gesù guarisce la fame, dilatando a “tutti” la sua attenzione.
E qual è l’insegnamento? La prima lezione ci dice che, come aveva fatto con la parabola del seminatore, la qualità più caratteristica di Dio è la gratuità: se egli è colui che ha tutto, in termini di beni e poteri, non è per vantarsene, ma per donare e condividere. E, in questo caso, non solo dichiara con luminosità solare che il pane è un bene destinato ad essere condiviso, ma pure mostra che lo stesso discorso vale del “potere”, che da lui passa ai discepoli: «Dategli voi stessi da mangiare»! Si poteva dire con maggiore chiarezza che il vero potere è il servizio?
I gesti con cui Gesù opera il miracolo – «prese i pani e i pesci, alzò gli occhi al cielo, recitò la benedizione, spezzò i pani e li diede ai discepoli, e i discepoli alla folla» – evocano in modo trasparente l’Ultima Cena e le nostre eucaristie che la rappresentano e la ripresentano.
Non credo di dover aggiungere altro. Non ci viene raccontata la reazione della folla: solo si dice che «mangiarono a sazietà» (ritorna la parola di Isaia) e si portarono via i pezzi avanzati.
Non credo sarà difficile fare di questa storia la base per una riflessione sul significato della messa, e su come, di conseguenza, la viviamo. Perché quello che dovremmo aver capito è ciò che siamo chiamati a fare una volta usciti di chiesa.