Il discendente
«Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò, e in te si diranno benedette (Wénin: “in te acquisteranno per esse la benedizione”, al niphal, coniugazione del passivo) tutte le famiglie della terra (kōl mišpeḥōt hāhădāmâ)».
L’elezione inclusiva annunciata da YHWH ad Abramo ad Harran all’inizio della sua avventura di fede, fatta di abbandoni e di percorsi verso una terra non conosciuta, verrà ripetuta più volte, con leggere variazioni. Così in Gen 18,18 YHWH riafferma dopo il riso di Sara (18,13.15[bis]): «… Abramo dovrà diventare una nazione grande e potente e in lui si diranno benedette (al niphal, coniugazione del passivo; Wénin: “acquisteranno per loro la benedizione”) tutte le nazioni della terra (kōl gōyê hā’āreṣ)». In Gen 22,18 l’angelo di YHWH, “caricando” ulteriormente la lode di YHWH per il superamento della prova del “legamento di Isacco” annuncia ad Abramo: «Si diranno benedette (all’hitpael, coniugazione del passivo-riflessivo) nella tua discendenza (bezar‘ăkā) tutte le nazioni della terra (kōl gōyê hā’āreṣ), perché tu hai obbedito alla mia voce».
Il progetto di benedizione da parte di YHWH è universale fin dall’inizio della storia della salvezza vera e propria. Di fatto, storicamente, la benedizione di YHWH arriverà ai popoli/alle famiglie della terra anche e soprattutto attraverso il rifiuto dell’accoglienza di Gesù come Messia e figlio di Dio da parte della maggioranza del popolo giudaico. Ma tutto questo non significa che l’universalismo della benedizione di YHWH sia un ripiego, scadente in qualità. Esso era previsto fin dall’inizio e l’apostolo Paolo ne diventerà un campione, ricordando a tutto il giudaismo del suo tempo un aspetto della benedizione probabilmente andato trascurato.
Paolo invece lo riporta in primo piano. Giocando intelligentemente – intelligenza e preparazione biblico-rabbinica che evidentemente non aveva considerato “spazzatura” dopo l’incontro con Cristo risorto a Damasco… – sul termine ebraico collettivo “discendenza/zera‘”, interpretandolo nella lingua greca come collettivo singolare, “discendenza/discendente/sperma”, Paolo vedrà in Gesù il discendente per eccellenza di Abramo, discendente al quale era diretta in definitiva la promessa della benedizione inclusiva, discendente dal quale avrebbero attinto per sé la benedizione tutte le nazioni/popoli/famiglie della terra, cioè proprio i disprezzati gōyîm. Paolo afferma infatti in Gal 3,16: «Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza che furono fatte le promesse. Non dice la Scrittura: “E ai discendenti” (tois spermasin), come se si trattasse di molti, ma: “E alla tua discendenza” (tōi spermati sou), come a uno solo, cioè Cristo». E battezzati in Cristo, «uno in Cristo» (cf. Gal 3,27-28), anche i cristiani diventano discendenti di Abramo, coeredi della benedizione promessa.
La casa dei popoli
«Osservate il diritto e praticate la giustizia» (Is 56,1), sono le prime parole con cui inizia la prima pagina della terza parte del libro di Isaia (Is 56–66). Composto dopo il ritorno dall’esilio babilonese (538 a.C.) a cura dei discepoli della tradizione risalente al profeta storico (chiamato da YHWH nel 740 a.C.), esso esprime subito il tono di apertura cordiale e universale alle genti, frutto probabilmente anche delle acquisizioni ottenute dagli esiliati proprio nel crogiuolo della fornace babilonese.
La prospettiva è ancora totalmente centripeta e centrata sulla visione tipicamente giudaica, ma le maglie sono larghe e accoglienti. Si guarda con simpatia a coloro che dal mondo, fino ad allora disprezzato, si apriranno all’accoglienza di YHWH, “per amare/amando il suo nome”.
Il servizio a YHWH e l’amore del suo nome è la maniera concreta con cui “gli stranieri/benê hannēkār” afferrano saldamente l’alleanza di YHWH e vi restano fedeli.
Hanno sentito parlare di un Dio liberatore dalla schiavitù egiziana, che avrebbe dimostrato il suo potere riscattatore facendo passare il suo popolo dal lavoro nella schiavitù (‘ābad) al servizio liturgico (‘ābad) sul monte Sinai. «[YHWH] Rispose: “Io sarò con te [= Mosè]. Questo sarà per te il segno che io ti ho mandato: quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete (ta‘abdûn) Dio su questo monte». Dalla schiavitù al servizio. Da un padrone schiavista a un Signore della libertà e della vita. A questo Dio è bello servire, è bello seguirne le orme di liberazione e i comandi per restare liberi.
Grande segno di libertà sarà il precetto del Sabato, giorno di Dio e giorno dell’uomo. Giorno che ricorda all’uomo la sua pienezza di immagine di Dio, che il settimo giorno riposò dopo aver creato il suo capolavoro (cf. Gen 20,8-11). Giorno che ricorda la liberazione dalla schiavitù dell’Egitto, monito a rimanere nella libertà e a non ridiventare schiavi di nessuno (uomini, lavoro, denaro, consumo, narcisismo).
È bello stringersi al “nome” di un tale Dio, amarlo con tutto il cuore e con tutto se stessi. È bello riamare chi ti ha amato per primo, circondandoti con una siepe di libertà profumata, facendoti vivere tranquillo e in pace, «al sicuro; ognuno… sotto la propria vite e sotto il proprio fico» (1Re 5,5; cf. 1Mac 14,12; Mi 4,4; Zc 3,10).
Un Dio così ben volentieri lo si prega e lo si invoca sul suo monte santo, a Gerusalemme. Raccolti in preghiera, da soli o nell’assemblea, si sente la pienezza di gioia che ti riempie, scendendo dall’alto, dal Dio della giustizia e della pace.
La casa di Dio è una casa per Dio e una casa per l’uomo, perché ricuperi la pienezza della propria dignità e della libertà di figlio di Dio. Figlio è colui che è uguale al padre, colui che fa le stesse cose del padre. Nella casa di Dio si impara col cuore a essere come il Padre, ad agire come agisce il Padre.
La casa di Dio si chiamerà casa di preghiera “per tutti i popoli (lekol-hā‘ammîm)”. I gōyyîm, i disprezzati popoli stranieri “pagani”, entrano cordialmente nell’orizzonte mentale dei giudei tornati dalla fornace babilonese. Essi hanno imparato sulla loro pelle cos’è la pulizia etnica, la schiavitù, anche quella dorata (e difatti molti non tornarono a casa, ma rimasero ben installati e integrati a Babilonia, con i loro archivi e le loro banche, come fecero quelli del clan dei Murashu).
Chi decise di tornare invece pensava di sognare, la bocca aperta al sorriso e la lingua piena di gioia (cf. Sal 126[125], 1-2). Che gioia poter cantare in patria i salmi di Sion, al suono dolce delle cetre (cf. Sal 137[136],1-6: «Lungo i fiumi di Babilonia, là sedevamo e piangevamo ricordandoci di Sion. Ai salici di quella terra appendemmo le nostre cetre, perché là ci chiedevano parole di canto coloro che ci avevano deportato, allegre canzoni i nostri oppressori: “Cantateci canti di Sion!”. Come cantare i canti del Signore in terra straniera? Se mi dimentico di te, Gerusalemme, si dimentichi di me la mia destra; mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, se non innalzo Gerusalemme al di sopra di ogni mia gioia».
D’ora in poi i popoli che vengono dalle “genti” potranno unirsi all’unico popolo eletto, testimone di YHWH, l’unico vero Dio. Seguiranno le loro tradizioni e i loro costumi nazionali, ma insieme formeranno la famiglia dei figli di Dio, dei discendenti di Abramo e di Gesù, nella gioia della sua casa.
La “casa” del Discendente
Forse stanco psicologicamente – almeno a livello letterario – delle discussioni con i farisei sul puro e sull’impuro (cf. Mt 15,1-20), Gesù decide di “cambiare aria” e andare… dai pagani. Tutto il c. 15 del Vangelo di Matteo troverà impegnato Gesù in un tour in territorio “pagano”, che da Tiro e Sidone, passando in mezzo alla Decapoli, lo porterà a compiere guarigioni presso il mare di Galilea (Mt 15,29-31) e a moltiplicare i pani anche a favore delle popolazioni della sponda nord-orientale del “mare” (15,32-38), per poi dirigersi (con la barca?) a Magadan/Magdala, sulla sponda occidentale, di fede maggiormente ebraica (15,32).
Aria più buona fra i pagani fenici di Tiro e Sidone? Qualche discepolo può averlo invitato a “casa” sua (cf. Mc 7,24) a prendersi qualche giorno di riposo, ma le ferie diventano subito un importante “riposo attivo”, tipico degli atleti di livello. È un’“uscita” importante, anche se segnalata solo da Matteo e Marco.
Luca sa che Gesù non è stato mandato “se non alle pecore perdute di Israele”, e descrive il suo Gesù tutto intento alla “raccolta di Israele”. Ma in un capitolo tutto dedicato al tema del puro e dell’impuro, Matteo descrive questa scena di vita, in terra “pagana”, tragica e coinvolgente al tempo stesso. Egli vuole illustrare con le scelte vitali di Gesù cosa gli stia veramente a cuore e come per lui l’impuro nasca dal di dentro e non dalle condizioni esterne di vita e di condizione sociale, religiosa, culturale o altro.
Una donna pagana, cananea, fenicia di stirpe e greca per la lingua (cf. Mc 7,26) si accoda al gruppo di Gesù invocando l’aiuto terapeutico del Messia, figlio di Davide. Così le era stato detto a proposito di quel “signore”, uomo di Dio aperto alla gente, ai poveri e ai malati.
Nella “casa” (cf. Mc 7,24) Gesù, il Messia discendente per antonomasia di Abramo, mette alla prova una madre esacerbata dalla malattia grave della figlia (“figlioletta”, per Mc 7,25). Una malattia forse coinvolgente lo spirito e quindi particolarmente spaventosa, misteriosa, ignota nelle sue cause, impossibile da guarire con i mezzi umani.
Padroni e cagnolini
La “fede disperata” di una madre alla fine ottiene udienza. Gesù ostacola, “scandalizza” (da “skandalon”/inciampo), contrasta ulteriormente la “fede” («grande», Mt 15,28) della donna cananea, rimandando alla sua missione unica fra i giudei, a cui solo è bene dare il pane messianico (come ha fatto lui in abbondanza poco prima (cf. Mt 14,13-21).
La donna è spregiudicata, intelligente, ma riverente. L’angoscia le attanaglia il cuore, eppure riconosce i diritti di precedenza dei “padroni” (“figli” in Mc 7,28) nel mangiare il pane alla mensa dei giudei, il popolo eletto. Ma anche i cagnolini di casa/kynaria – non i pericolosissimi cani randagi/kynes (cf. 1Re 14,11;16,4; 21,19.23 [i cani divoreranno Gezabele, la figlia del re di Tiro e Sidone sposata da Acab, re di Israele]; 2Re 9,10.36; Sal 22,17; 59,7-8; seppur caritatevoli con il povero Lazzaro: Lc 16,21) – partecipano delle briciole che cadono dalla mensa degli umani. Tanto più questo deve realizzarsi se è vero che Gesù è un uomo di Dio, del Dio degli ebrei, un uomo santo e aperto ai poveri, come si dice in giro.
“Cani/kynes” erano chiamati con disprezzo dai pii giudei i popoli delle genti/ethnē. Eppure Gesù accoglie, si apre anche a loro, fa crescere la fede col metterla alla prova, si lascia “cambiare idea” da una donna, cananea, “pagana”. Non c’è impurità nella vita, già piena di tanti guai e dolori, senza che ci si mettano di mezzo le sottigliezze “religiose”, incuranti dell’umanità. Non c’è “dentro” e fuori”, “noi” e “loro”. La mensa è larga e abbondante, è la mensa del Messia di Israele, il Figlio di Dio.
Tutti sono chiamati alla sua mensa e, pian piano, Gesù porterà se stesso e i suoi non solo a non aspettare “le genti” con cuore centripeto, ma andare a cercare con serenità i “cagnolini” affamati e ammalati. E dove arriva il Discendente, arriva anche la benedizione di Dio (e di Abramo). Anche a distanza la vita rifiorisce. Per la grande fede della madre, la figlia “è [stata] guarita/iathē” dal Dio della vita. Per tutti i popoli il futuro (“la figlia”) si apre alla gioia e alla fecondità.