Il tema su cui ordinare le proposte che ci vengono offerte dalle tre letture di questa domenica mi è suggerito dalla splendida colletta che apre la celebrazione. Nella traduzione del messale essa suona così: «O Dio, che unisci in un solo volere le menti dei fedeli, concedi al tuo popolo di amare ciò che comandi e desiderare ciò che prometti, perché, tra le vicende del mondo, là siano fissi i nostri cuori dove è la vera gioia». I verbi chiave mi sembrano “amare” e “desiderare”, in cui è condensato il cuore della persona attorno al bisogno di amare e di essere amato, traguardo che orienta i nostri desideri alla ricerca della beatitudine, o, per dirla con un termine più comprensibile, della gioia.
Sintonizzarsi su Dio
Qui nasce subito un problema. L’aggettivo che qualifica la gioia è cruciale: c’è una gioia “vera”, e dunque ce n’è una che non lo è, che si rivela illusoria ed effimera, e si converte alla fine nel suo contrario, la tristezza. Come è possibile tale oscillazione?
Qui mi pare che la traduzione non renda appieno la frase latina inter mundanas varietates, che penso sia meglio tradurre con «nel variare delle vicende mondane», perché l’oscillazione emotiva tra gioia e tristezza, nel duplice aspetto che le fa vere o false, per cui una “falsa” gioia produce una “vera” tristezza e viceversa, è un tema che riveste un aspetto fondamentale. È lì infatti che si pone il discernimento, da cui può nascere un cuore unificato o un cuore spappolato secondo la direzione che prende la voluntas, punto d’arrivo dello stimolo offerto dal desiderio. Come è possibile un tale fraintendimento?
Aelredo di Rievaulx, nel suo Specchio della carità, offre una ragione così espressa: «Ogni creatura è fatta dal niente, ed è fatta mutevole, e spinta da questa mutabilità che fa parte della sua natura, continua a volgersi a ciò da cui è stata tratta, il niente» (I,40, ed. Pezzini, Paoline, Milano 1999, p. 123).
Nulla di strano: si veda Gv 8, dove l’uomo è descritto come naturalmente portato alla menzogna, all’omicidio, al peccato. C’è un rimedio? Sì, ed è l’appiglio fisso attorno al quale ritrovare, conto la mutabilità, la stabilità dell’amore e del desiderio.
Così continua Aelredo: «Per evitare che la sua mutabilità porti l’uomo alla deriva verso ciò che le è inferiore, per contenere questa sua mutabilità entro ciò che è l’essere stesso, per portarla a innalzarsi con uno slancio più favorevole verso le cose superiori, sempre la creatura ha bisogno della grazia di colui che, con la sua potenza, l’ha creata» (Ibidem, p. 124).
La metafora del fiume è trasparente: se non si vuol correre il rischio di disperdere nel niente quella che chiamiamo “vita”, occorrono tre operazioni: mantenere il contatto con la sorgente, disciplinare il flusso tra due argini che lo disciplinano, e dirigere lo slancio verso la foce. Tutte queste tre cose prendono il nome di Dio: il creatore, il custode e il remuneratore.
Il senso della colletta è, riassumendo, uno solo: sintonizzarci su Dio disciplinando l’amore alla luce dei suoi comandi e verificando il magma dei nostri desideri su quanto Dio stesso propone e promette. La “spiritualità” che ne nasce è mirata a scavare a fondo nei nostri “bisogni”, e ancor più nei nostri “desideri”, per farne una risorsa, e non un pericolo, per unificarne le traiettorie, per discriminare i veri dai falsi, i superficiali dai profondi, i genuini dagli indotti. È un discernimento da fare con la testa, e soprattutto con la vita, alla scuola dell’esperienza, rischiando anche, dove si presenta il caso.
Ho voluto dare un esempio di quante possibilità di sviluppo omiletico si possano trovare nel linguaggio conciso, splendido e cristallino delle collette, soprattutto in quelle prodotte in un’epoca d’oro di creatività liturgica quali furono i secoli IV-V. Rimane da commentare quanto acquisito con i segnali offerti dalle letture.
La prima viene da Is 22,19-23, e descrive la destituzione di un maggiordomo del re Ezechia, rivelatosi inadatto al compito, che viene sostituito da un altro al quale è affidato un “potere” che era stato evidentemente gestito male da chi l’ha preceduto. Lo si ricava implicitamente dal compito che è affidato al nuovo, Eliakim, di cui si dice che «sarà un padre per gli abitanti di Gerusalemme e per il casato di Giuda». Questo potere è simboleggiato nella «chiave della casa di Davide», immagine che sarà richiamata nel vangelo.
Ma ciò che più conta nella prospettiva illustrata sopra è la metafora seguente: «Lo conficcherò come un piolo in luogo solido». È una lode che celebra la sua solidità e la sua stabilità nel compito assegnatogli, che lo mette al riparo da ogni deriva di “mutevolezza” tipica di chi non ha un centro solido di riferimento.
Capaci di stupirsi
Una lode che celebra ed esalta il vero centro di tutto ci è offerta da Paolo (Rm 11,33-36), una bellissima dossologia (inno alla gloria) che non argomenta, ma dispiega la «profondità della ricchezza, della sapienza e della conoscenza di Dio!». Questa è la preghiera che nasce da un sentimento di stupore quale si trova spesso nella liturgia, che è anzitutto “rendimento di grazie”, cioè eucaristia, che dà il nome al più alto atto di culto che celebra e nutre la nostra fede. Ed è proprio nella messa che ogni volta ci viene ricordato solennemente che è «Per Cristo, con Cristo e in Cristo» che sale alla Trinità «ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli».
La maniera distratta e trasandata con cui i fedeli rispondono con il loro Amen induce a pensare che tutto c’è nella loro mente in quel momento tranne lo stupore. In un mondo dove il trionfo della tecnica sembra aver cancellato questo sentimento, naturale nei bambini, ma che rischia invece purtroppo di azzerarsi nell’assuefazione dell’adulto, nella illusione di aver tutto a portata di mano, non ci permette più la “sorpresa”, culla imprescindibile dello stupore.
Mi viene in mente una bella poesia di R.S. Thomas dedicata al Natale, tipico territorio della “poesia”. «Vigilia di Natale! Cinque / cento poeti in attesa, con la penna / sospesa sul foglio, / che la poesia arrivasse, / al rintocco delle campane. Fu perché / il camino era troppo piccolo, / perché essi avevano cessato / di credere, che la poesia li oltrepassò / nel raggiungere l’uscita / verso l’oblio, lasciando / la soglia vuota / di tutto tranne che di un bambino / che rimava col cielo al quale più / tardi avrebbero insegnato la prosa» (R.S. Thomas, Il senso è nell’attesa, Ancora, Milano 2010, p. 141).
Penso non sia difficile capire cosa si intenda qui per poesia e prosa. L’immagine del «bambino che rima con il cielo» (sky-rhymingchild) è piuttosto eloquente per esprimere la facoltà immaginativa unita allo stupore meravigliato davanti a quanto c’è di bello nel mondo, in contrasto con la prosa annoiata di chi si rassegna alla banalità umana. Ma c’è modo e modo di crescere. Ogni età ha la sua “grazia”. Una buona crescita consiste nel conservarle tutte nello scorrere del tempo: lo stupore del bambino, il gusto della sfida dell’adolescente, l’entusiasmo del giovane, la ponderatezza dell’adulto e la sapienza dell’anziano.
E, parlando di poesia, giova pure ricordare il vecchio adagio per cui «la verità, la bellezza e la bontà fluiscono l’una nell’altra». La fede, fatta di verità e di principi morali, genera pure quell’esperienza della bellezza che si è riversata nei secoli in tante stupende creazioni letterarie, artistiche e musicali. È una miniera inesauribile! Un mondo che vive di sola “ragione” è come abitare nei deserti ghiacciati dei poli, e – come scrive Patrice de la Tour du Pin – «Tutti i paesi senza leggende / saran condannati a morire di freddo».
La “pietra”
Abituati a leggere in Mt 16,13-20 il testo classico che fonda il potere delle chiavi e il primato di Pietro e dei suoi successori, c’è il pericolo che quanto detto sin qui sia già sfumato nel “camino troppo piccolo” dell’abitudine. Mi pare invece che questo brano costituisca la migliore conclusione della riflessione condotta sopra sulla nostra mutevolezza, che ha bisogno di un appiglio o di una base solida per non diventare sterilità e inconcludenza.
Ricordo, anzitutto, quanto proposto nella riflessione di domenica scorsa, dove ho mostrato come il “dare un nome all’altro” sia cruciale per stabilire il tipo di relazione. Gesù chiede ai discepoli cosa pensa la gente di lui. Escono vari nomi: Giovanni il Battista, Elia, Geremia, o qualcuno dei profeti. L’unico a rispondere a nome proprio è Pietro, che dichiara netto: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Chiara e completa confessione di fede, quella che Marco ha scelto per aprire il suo vangelo, da lui definito come «vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio». C’è tutto: l’umanità (Gesù), l’unzione a profeta (Cristo), la divinità (Figlio di Dio).
Il lettore, fosse anche il celebrante, che ignora le brevi pause suggerite dalle virgole, infilando le tre qualifiche come fossero una striscia indistinta (Fausti va a capo per ognuna delle tre!), commette un grave imperdonabile errore. Dopo che Simone-Pietro ha dato un nome preciso a Gesù, Gesù, dopo avergli ricordato che quella scoperta gli viene dal cielo, riconosce la sua fede e rinomina lui pure colui che era Simone figlio di Giona: «Io a te dico: tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le potenze degli inferi non prevarranno su di essa».
Quale immagine di stabilità più eloquente della “pietra”! Quale maggiore garanzia di stabilità della vittoria assicurata sul potere distruttivo delle forze infernali? Sappiamo che Pietro non sarà sempre una “pietra” (lo si vedrà subito domenica prossima), ma anche queste esperienze di fallimento fanno parte della pedagogia divina che ricorderà a colui che riceve «le chiavi del regno dei cieli» mediante le quali gli viene trasmesso il potere di «legare e di sciogliere», di farne un buon uso, avendo nella memoria che quel potere non va utilizzato a suo piacimento, ma sempre in armonia con il Dio della misericordia, lo stesso che in varie occasioni ha mostrato allo stesso Pietro che questa, più del castigo senza sconti, è la forza che riabilita una persona e la rimette in cammino al di là delle sue deficienze. Come dichiara la Regola di Taizé: «Il cristiano è un uomo mai scoraggiato, perché è sempre perdonato».