Struggente, nella sua drammaticità, questa quinta “confessione” (Ger 20,7-18) del profeta di Ànatot, pochi km a nord di Gerusalemme (cf. Ger 11,18–12,6; 15,10-21; 17,14-18; 18,18-23). Profeta chiamato nel pieno della giovinezza (na’ar, Ger 1,6), inesperto e, per di più, di carattere timido e introverso, è l’unico inviato da YHWH che, nel Primo/Antico Testamento, è chiamato a una vita da celibe, senza una famiglia propria, totalmente dedito al Signore (Ger 15,17: «Non mi sono seduto per divertirmi nelle compagnie di gente scherzosa, ma spinto dalla tua mano sedevo solitario, poiché mi avevi riempito di sdegno»), anzi perfino tradito dagli amici e dai suoi stessi familiari; «Sentivo la calunnia di molti: “Terrore all’intorno! Denunciatelo! Sì, lo denunceremo”. Tutti i miei amici aspettavano la mia caduta: “Forse si lascerà trarre in inganno, così noi prevarremo su di lui, ci prenderemo la nostra vendetta”» (20,10).
Mi hai sedotto
«Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso» (20,7), si lamenta con voce struggente il profeta. Mi hai amato, tanto, ancora prima che nascessi (cf. 1,5), ma tu eri molto più grande di me, ero giovane e non capivo tutto di te e le conseguenze del mettere i miei passi dietro i tuoi.
Mi sono fidato, Signore, ma tu hai un po’ esagerato e un po’ mi hai anche ingannato… Non mi hai rivelato proprio tutto, nei particolari, quello che mi aspettava, anche se mi avevi fatto intravedere l’impegno che la mia vocazione avrebbe comportato… («Vedi, oggi ti do autorità sopra le nazioni e sopra i regni per sradicare e demolire, per distruggere e abbattere, per edificare e piantare» (1,10).
Mi hai amato troppo intensamente, con troppa forza, forse al di sopra delle mie possibilità di risponderti un po’ alla pari, in piena coscienza. Ho messo la mia vita nelle tue mani, nel tuo cuore di innamorato, mio Signore. Ti ho detto di sì, ma da quel momento sono stati quasi sempre momenti di sofferenza e di dolore per me.
La gente non capisce e non vuole accogliere la tua parola. Mi prende in giro quando parlo a nome tuo, e il più delle volte senza tanta diplomazia. Non è molto bello per loro sentirsi rinfacciare sempre le stesse cose, ma io devo fare così. Mi hai chiamato tu a sradicare e a demolire, a distruggere e ad abbattere.
I rapporti fra le persone nella società civile sono segnati dall’ingiustizia e, ogni volta che apro la bocca, devo gridare: “Violenza! Oppressione/ḥāmās wāšōd”. È un tormento continuo, Signore, per me e per loro.
Io tento anche di “edificare e piantare” ma, appena ho denunciato la loro incoerenza e la loro fiducia magica e miracolistica nel tuo tempio, indipendentemente dalla loro vita etica, mi hanno arrestato e volevano linciarmi. Alla fine, per fortuna, gli anziani del paese mi hanno salvato, ricordando l’azione profetica forte di Michea di Morèset che, per le stesse cose che dicevo io, non fu messo a morte cent’anni fa (cf. Ger 26, spec 26,17-19).
Un fuoco bruciante
Ho pensato fra di me di eliminarti dal mio pensiero, dal mio orizzonte mentale, dal mio immaginario. Se ti elimino dalla mente – pensavo tra me –, se non mi “ricorderò di lui/’ezkerennû”, non mi saliranno più al cuore le sue parole, e troverò un po’ di pace. Rompo la mia promessa di alleanza, un fossato di dimenticanza si scavi fra me e te, o Signore, e una coltre di oblio cancelli il nostro ricordo reciproco. Ognuno per la sua strada, senza tanti “ricordi”.
Il fatto è che non potevo andare contro la mia natura, contro tutta la storia del mio popolo nella quale sono stato educato a pensarti come un Dio che si ricorda sempre della sua alleanza, e che noi viviamo solo perché tu ci ricordi. Un ricordo di fuoco, come quello che incontrò Mosè nel roveto che bruciava ma senza consumarsi (cf. Es 3,1-6). Tu gli hai rivelato: «Io sono Dio in quanto ci sono per te, per tutto il popolo, per liberarlo. La mia essenza profonda è solo questa, esisto solo per questo. Ogni mattino guardo la terra e ne sono sempre più innamorato, mi godo l’arcobaleno (cf. Gen 9,12-17) e mi ricordo degli uomini con i quali ho fatto un’alleanza di creazione. Per questo scenderò a liberare Israele, perché io mi ricordo, vedo, ascolto, scendo e libero per riscattare (cf. Es 3,7.14)».
Volevo dimenticarmi di te, Signore, ma il fuoco del Sinai che aveva bruciato Mosè brucia adesso me. Lo sento dentro come un tumore che consuma le ossa, come una droga che brucia in vena. Mi sono sforzato di spegnerlo, ma mi sono stancato per niente. Non posso spegnere un fuoco che ricorda, un fuoco che fa vivere e libera un popolo. «… forte come la morte è l’amore, tenace come il regno dei morti è la passione: le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina! Le grandi acque non possono spegnere l’amore né i fiumi travolgerlo» (Ct 8,6b-7a).
Io vivo del tuo ricordo, io vivo del tuo amore. Non posso tagliare il ramo dell’albero che mi sostiene nella vita. Continuerò a parlare nel tuo nome, ma fa’ che la gente ascolti e capisca che parlo per la loro salvezza, per svelenire la loro vita, per edificare rapporti e relazioni belle, costruttive.
Fa’ che capiscano che non possono mettere il piede in due scarpe, venire con faccia pia nel tuo tempio e, nello stesso tempo, opprimere la tua immagine che hai stampato nell’uomo e nella donna, in tutto il creato.
Amami dolcemente, non esagerare, cerca di capire il ritmo del mio cuore.
Va’ dietro di me, Avversario!
Gesù si è ristorato interiormente nei giorni passati nel paradiso di Cesarea di Filippo, alle sorgenti del Giordano. Sono le sorgenti di quel fiume attraversato da Giosuè al termine della peregrinazione di quarant’anni nel deserto. È il fiume che segna il passaggio alla libertà, il fiume ormai consacrato esso stesso dalla discesa nelle sue acque del Figlio di Dio per essere battezzato con i poveri di Israele.
Il profeta Elia lo attraversa al contrario, incamminandosi verso est, per essere rapito da Dio in un turbine infuocato, una calda corrente ascensionale che, come carro di fuoco, lo fa “salire” incontro a YHWH (cf. 2Re 2,1-12).
Raccolto il mantello di Elia, forte dei due terzi del suo spirito, Eliseo torna indietro e si ferma anch’egli «sulla riva del Giordano» (cf. 2Re 2,13). Deve prendere in mano la sua vita e quella del suo popolo, iniziare un nuovo tratto della sua missione profetica. Percuote le acque del Giordano, che si dividono, lasciandolo passare (cf. 2Re 2,14).
Ad una delle tre sorgenti del Giordano (Banyas), Gesù prende decisamente in mano la sua vita e incomincia a “mostrare/deiknyein” (Mt 16,21) che è nel disegno salvifico del Padre che egli “doveva/dei” andare a Gerusalemme, soffrire molto, venire ucciso e risorgere il terzo giorno.
Gesù non “annuncia” (per la prima volta) il fatto che intravede lucidamente come sua fine dolorosa. Egli “mostra” col suo atteggiamento, la sua decisione, il suo mettersi in cammino che ha fatto proprio in pieno il desiderio del Padre che egli mostri agli uomini ciò che è veramente: il Figlio di Dio che ama tutti gli uomini e cambia loro cuore col dono della propria vita umano-divina.
Uno strumento “debole” l’amore. Può essere capito da qualcuno, ma dalla maggioranza della gente è facile che resti incompreso, irriso, sbranato dal modo “normale” di ragionare. Alla forza si risponde con la forza, all’oppressione solo con la violenza, al peccato con un rituale di purificazione o l’offerta di un sacrificio che non cambia le coscienze (cf. Eb 9,9.14).
Pietro non accetta la via “debole” scelta dal Padre/da Gesù, la rifiuta decisamente. Non può accettare che una fine ignominiosa da schiavi possa essere lo strumento adatto e degno per un messia e Figlio di Dio per cambiare a fondo le cose e gli uomini.
Gli uomini ragionano così. Ma le vie di Dio sono diverse da quelle degli uomini, le vie di Dio non sono le nostre vie. Ciò che sembra stolto e niente per gli uomini è scelto da Dio come strumento paradossale di salvezza (cf. 1Cor 1).
E Pietro riceve un fortissimo rimprovero che, anche se detto da un grande amico, colpisce nel profondo. Una sassata in faccia. «Va’ dietro di me, “Avversario /Satana”», tu mi sei di “inciampo”/skandalon nel cammino del Padre, con i tuoi sentieri ristretti e tortuosi, falsamente efficienti, fondati sulla ragione e sulla forza. L’amore non è mai violento e, quasi sempre, non è “ragionevole”.
Rimettiti dietro a me, ridiventa mio discepolo. Mentre saliamo a Gerusalemme, ripensa a tutto quello che ho detto e fatto in questi anni, a tutto quello che ci siamo detti nell’intimità delle notti fresche della Galilea.
Chi perderà la sua vita per me, la troverà
Pietro ha fatto una professione di fede corretta e completa circa Gesù (cf. Mt 16,16), e per le sue parole viene lodato come benedetto da Gesù. Ma la sua comprensione delle parole espresse è ristretta da una mentalità “umana” di efficienza, violenza, potenza impositiva, efficacia metodologica che si impone con una geometrica esposizione della piena potenza di fuoco.
Gesù gli propone le vie di Dio Padre, che egli ha ormai fatto completamente sue nella preghiera personale. Gesù ha assimilato la Pasqua. La vita nasce nella morte, la vita nasce nel dono di sé, il cambiamento non viene dall’esterno, ma dal rinnovamento dei cuori.
La sua è sempre stata una pro-esistenza, un’esistenza vissuta per gli altri, vissuta per amore. Per questo è sereno e lo propone come stile di vita evangelico ai suoi discepoli.
Chi trattiene per sé la vita, chi stringe a sé le cose e le persone con pressioni narcisiste e possessive, si troverà con un pugno di mosche in mano. Non puoi trattenere le acque impetuose dell’amore con la diga di dieci dita, allargate a fermare ciò che non si può fermare.
Geremia ha assimilato il fuoco d’amore di YHWH, anche se gli consuma le ossa. Il discepolo di Gesù accetta di cuore lo stile del dono totale di sé quale era quello di Gesù. Questo è una croce gloriosa, una croce feconda, una croce pasquale. Non si va in cerca masochisticamente della sofferenza, ma si abbraccia con amore, insieme a Gesù, ciò che la vita ci pone davanti, in persone e cose, come occasione di donarsi. Quando si ama, è sempre più quel che si riceve che quello che si dà.
Le cose non possono riempire l’anima. Cambiare ossessivamente luoghi non cura la malattia dell’anima. La croce pasquale di Gesù pacifica la coscienza, dona la forza di poter dare con gioia, anzi dona quella forza miracolosa che si vede in tante mamme e papà di famiglia riversata sui propri figli, nel bisogno o su una strada che non porta da nessuna parte. Non posso contenere il fuoco nelle ossa, dice Geremia.
Non posso perdere tempo per ciò che non riempie l’anima. Vengo “dietro a te”, pienezza di vita. Il tuo fuoco non brucia, ma arde sempre in me, senza consumarmi. Voglio avvicinarmi e gustare «questo grande spettacolo… Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!» (cf. Es 3,3.5). È il cuore di Gesù: trafitto, pasquale, vittorioso, potentemente “debole” ma l’unico vincente.