Ogni volta che celebriamo l’eucaristia, soprattutto la domenica, quando abbiamo la grazia e la gioia di condividere la stessa fede tra fratelli e sorelle, noi siamo animati dal desiderio di accogliere dalla parola di Dio proclamata l’invito e lo stimolo a vivere in modo conforme alla fede che professiamo.
Ancora una volta ci viene in aiuto la riflessione dell’autore della lettere agli Ebrei: «Non avete ancora resistito fino al sangue nella vostra lotta contro il peccato e avete già dimenticato l’esortazione a voi rivolta come a figli: “Figlio mio, non disprezzare la correzione del Signore e non ti perdere d’animo quando sei ripreso da lui; perché il Signore corregge colui che egli ama e percuote chiunque riconosce come figlio”» (Eb 12,5-6).
1. La prima lettura ci presenta un’altra pagina dei libri sapienziali, esattamente dal libro della Sapienza, nella quale si stabilisce un confronto tra la sapienza greca e la sapienza ebraica. Secondo la mentalità greca, la sapienza è il frutto della ricerca umana e si manifesta soprattutto nelle opere che l’uomo, ogni uomo, sa fare. Nelle sue opere l’uomo riflette la sua capacità inventiva e creativa e se ne compiace.
Nella concezione ebraica, invece, la sapienza è dono di Dio: un dono che Dio concede a coloro che lo venerano come il loro Signore e redentore. L’uomo accoglie la sapienza come dono che viene dall’alto e ne ringrazia il donatore.
L’autore di questo libro lodevolmente cerca di stabilire un dialogo tra i cultori di queste due mentalità e, a partire dalla sua concezione religiosa, offre l’opportunità di stabilire uno scambio di vedute. Riconosciamo così la dimensione missionaria di questo autore e di questo libro.
«Quale uomo può conoscere il volere di Dio? Chi può immaginare che cosa vuole il Signore?». La riflessioni inizia con un interrogativo che, sulle prime, lascia un po’ perplessi. L’autore, infatti, condivide la fede del suo popolo e conosce bene quello che il Signore Dio ha rivelato al popolo eletto. Ma qui si tratta di sapere da dove viene, o meglio da chi viene il dono della sapienza, con il quale non solo sappiamo cose nuove ma ci è dato anche di sapere da chi vengono e perché ci sono rivelate.
L’autore offre una risposta abbastanza chiara quando scrive: «Chi avrebbe conosciuto il tuo volere, se tu non gli avessi dato la sapienza e dall’alto non gli avessi inviato il tuo santo spirito?».
2. Il salmo responsoriale mette a confronto l’eternità di Dio e la brevità della vita dell’uomo sulla terra. L’uomo è come l’erba che, «al mattino fiorisce e germoglia» e alla sera «è falciata e secca», mentre, agli occhi di Dio mille anni «sono come il giorno di ieri che è passato», anzi, meno ancora, «sono come un turno di veglia nella notte».
Consapevole di questa piccolezza, all’uomo non resta che confidare pienamente nella benevolenza divina. La lontananza da Dio gli pesa e lo impaurisce, per cui dal suo cuore sgorga l’invocazione: «Ritorna, Signore».
L’uomo, anche l’uomo d’oggi con il suo delirio di onnipotenza, sa che tutto quello che costruisce è fragile e precario, non ha consistenza. Solo Dio può rendere salda l’opera delle sue mani.
Eppure, i giorni brevi dell’uomo possono essere pieni di gioia e di esultanza, se su di essi si posa «la dolcezza del Signore», se sono saziati dal suo amore. Questa “polvere”, questo “sogno” che è la creatura, non si dissolve se può contare sulla pietà del suo Dio: «Abbi pietà dei tuoi servi».
E al Creatore chiede di insegnargli a “contare” i suoi giorni, a far tesoro della vita che gli è concessa, a interpretarla come un dono. Allora il suo cuore diventerà “saggio”, cioè saprà dare alle cose il giusto valore.
Bella la nostalgia di Dio per l’uomo: «Ritornate, figli dell’uomo» e bella la nostalgia dell’uomo per il suo Dio: «Ritorna, Signore». Per un abbraccio di eternità.
3. La seconda lettura ci presenta un biglietto di raccomandazione che Paolo scrive a Filemone in difesa dei un suo «fratello carissimo», lo schiavo Onesimo. Costui era fuggito dal suo padrone e ora Paolo chiede al suo padrone di accoglierlo di nuovo in segno di benevolenza e di carità.
Quello che colpisce di più è il fatto che Paolo considera la vicenda non tanto dal punto di vista del diritto vigente allora, quanto piuttosto dal punto di vista della carità evangelica. È questo il valore in gioco che dovrebbe convincere anche Filemone che era un cristiano della comunità di Colossi.
Da quando Onesimo, ascoltando la predicazione dell’apostolo, si è convertito al cristianesimo, egli per Paolo è diventato come un figlio e perciò lo presenta e lo difende con viscere paterne. Per questo Paolo chiede a Filemone di accogliere Onesimo non più come schiavo ma come un fratello; un «fratello carissimo» per Paolo e ancor più per Filemone.
Non si finisce mai di cogliere la finezza e la tenerezza con cui Paolo tratta i suoi interlocutori; sia Filemone sia Onesimo. Oltre alla paternità, qui entra in gioco anche l’amicizia, come si evince da questa affermazione: «Se dunque tu mi consideri amico, accoglilo come me stesso». Stupenda questa attitudine di Paolo: il grande teologo sa diventare anche un valido difensore.
4. La pagina evangelica di oggi ci presenta un passaggio del vangelo secondo Luca, nel quale emergono le esigenze della sequela di Cristo, cioè alcune note caratteristiche di quella radicalità evangelica che dovrebbe contraddistinguere ogni vero discepolo di Gesù.
Come sottofondo di questa pagina, sarei tentato di dire che ci sta la convinzione di taluni che ritenevano fosse facile seguire gli insegnamenti di Gesù di Nazaret mentre, col passar del tempo, si rendevano conto di quanto fosse impegnativa la proposta di vita implicita nelle parole e nell’esempio di Cristo.
Da un lato, Gesù seduceva le folle parlando loro in modo semplicissimo di cose estremamente alte. Dall’altro, egli non lascia spazio a illusioni: per seguirlo e diventare suoi discepoli sono necessarie alcune scelte fondamentali, sulle quali non è praticabile alcuno sconto.
In primo luogo, occorre rinunciare a tutto. Non vi è alcun dubbio che qui Gesù chiede di abbandonare anche le persone più care. Ma per quale motivo? Per lui e per il Vangelo, cioè per rendersi disponibili a diffondere la Buona Novella.
Poi occorre avere il coraggio di prendere la croce: la propria croce, dietro a Gesù che porta la sua croce. Nessuna icona meglio della croce potrebbe rendere quella istanza di radicalità che emerge da ogni pagina del vangelo. Gesù, i suoi discepoli li vuole pienamente disposti e totalmente dediti alla causa del Vangelo.
Le due parabole che seguono hanno lo scopo di sollecitare alla riflessione: per considerare attentamente la situazione, per valutare le proprie forze, per soppesare le istanze operative di fronte alle quali si trova e per prendere la decisione opportuna. Per concludere: «Così chiunque di voi non rinunzia a tutti i suoi averi, non può essere mio discepolo».