XXIII Per annum: Oculatezza, flessibilità e distacco

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Il libro della Sapienza

Il libro deuterocanonico della Sapienza è stato composto in greco, in una data da porsi tra il 30 e il 14 a.C., probabilmente ad Alessandria d’Egitto. Ai correligionari, specialmente giovani, tentati di abbandonare la cultura e la fede ebraica, l’autore presenta la ricchezza della sapienza dei padri perché possano viverla e offrila come contributo proprio nella convivenza serena con la cultura ellenistica onnipervasiva e predominante nel loro ambiente di vita.

Secondo la recente proposta dell’esegeta Vittoria D’Alario (Milano 2018), nel libro della Sapienza si può rinvenire la seguente struttura letteraria: 1,6–6,21 Esordio: sapienza e giustizia; 6,22–9,18 Elogio della sapienza; 10,1–19,22 Esemplificazione: sapienza e storia; 19,13-22 La nuova creazione.

L’elogio della sapienza

Secondo la studiosa, che seguiamo (talvolta alla lettera) nella sua analisi, il corpo centrale (Sap 7, 1– 8,21) dell’Elogio della sapienza (6,22–9,18) può essere strutturato in modo concentrico:

6,22-25 Il discorso franco e aperto;

7,1–8,21 L’anamnesi di Salomone e l’elogio della sapienza:

   A. 7,1-6 L’autopresentazione di Salomone, un uomo come tutti gli altri;

B. 7,7-12 Superiorità della sapienza ai beni materiali;

C. 7,13-21 I tesori della sapienza;

D. 7,21–8,1 Elogio della sapienza;

         C’. 8,2-9 L’amore di Salomone per la sapienza;

      B’. 8,10-16 I grandi vantaggi della sapienza;

   A’. 8,17-21 L’anamnesi di Salomone.

9,1-18 La preghiera di Salomone: 9,1-6 L’invocazione; 9,7-12 Un dono che viene dall’alto; 9,13-18 Sapienza e spirito.

Pensiero umano e volontà di Dio

Sap 9,13-18 riprende i temi della prima strofa (vv.1-6). La figura di Salomone viene posta in secondo piano, ed emerge l’uomo nella sua genericità.

Nel v. 13 sono riportati due interrogativi retorici che sottolineano l’impossibilità per ogni uomo “normale” di scrutare l’insondabile volontà di Dio. Chi può infatti conoscere la “volontà/boulē” (< boulomai) di Dio? Il verbo esprime una pura intenzionalità, ma implica anche un fatto determinato da questa volontà, la volontà a livello progettuale. Nessuno, basandosi solo sulle proprie forze, può conoscere la volontà generale di Dio, come neppure il suo “disegno concreto/boulēma”, il progetto esecutivo, effetto della sua volontà progettuale generale a livello intenzionale. Questa è la convinzione dei profeti (cf. Is 40,12-14, Bar 3,29-30: «Chi è salito al cielo e l’ha presa e l’ha fatta scendere dalle nubi? Chi ha attraversato il mare e l’ha trovata l’ha comprata a prezzo d’oro puro?») e dei sapienti di Israele (cf. Gb 38–39; Pr 30,2-5; Sir 1,2-6). Nessuno può immaginare che cosa Dio “vuole/thelei”. Il verbo può implicare anche una connotazione di compiacimento, desiderio, amore.

I v. 14-17 riflettono sulla debolezza costitutiva dell’uomo, che è parallela alla constatazione fatta nei vv. 5-6, in cui la fragilità dell’uomo e la sua incapacità di comprendere la volontà di Dio giustificavano la necessità del dono della sapienza. La fragilità strutturale dell’uomo è legata alla sua corporeità (v. 15). Questo rende problematico il rapporto tra la mente e la realtà, per cui i ragionamenti degli uomini sono spesso approssimativi e instabili v. 14).

Corpo e anima

Secondo il v. 15, «il corpo corruttibile appesantisce l’anima/phtharton gar sōma barynei psychēn». Si percepisce chiaramente il condizionamento culturale ellenistico nel momento in cui si vuole esprimere la propria fede ebraica. Il richiamo al linguaggio platonico per sottolineare la debolezza dell’uomo connessa alla sua corporeità (cf. Fedone 81c; Fedro 247b) è innegabile a livello lessicale e semantico. Occorre tenere presente però che l’autore biblico conserva in pienezza la propria mentalità ebraica olistica. Secondo tale mentalità, l’uomo è costituito dalla compresenza indissolubile di corporeità fragile e caduca (“bāśār/gr. sarx/carne”), principio spirituale (“ebr. rûaḥ/gr. pneuma/spirito-anima”) e principio responsabile dello psichismo e della vitalità (ebr. nepeš/gr. psychē/spirito-anima-animo”).

La fede e la cultura ebraica non giunge mai a sposare in toto il dualismo che connota in modo dicotomico il pensiero filosofico greco, secondo il quale l’uomo è costituito dualisticamente di corpo e di anima e il corpo è considerato quale sepolcro dell’anima (sōma-sēma).

Secondo la riflessione credente propria dell’ebraismo, invece, l’uomo nella sua totalità è costitutivamente un essere fragile e caduco dalla sua nascita fino alla sua morte (cf. Sap 7,12-6). La radice di questa sua precarietà non va infatti individuata nella sua componente carnale intesa in modo dicotomico e dualistico rispetto all’“anima”, ma alla perdita della sua incorruttibilità dovuta a un peccato iniziale (cf. Sap 2,23-24: «Sì, Dio ha creato l’uomo per l’ [lett. “nell’/gr. epi”] incorruttibilità, lo ha fatto immagine della propria natura. Ma per l’invidia del diavolo la morte è entrata nel mondo e ne fanno esperienza coloro che le appartengono»).

Mantenendo intatti i dettami dell’antropologia ebraica trasmessa dalla fede dei padri, l’autore della Sapienza cerca di esprimere in categorie greche la propria fede e la propria antropologia (teologica), per renderla comprensibile all’uditorio greco della propria città (e tendenzialmente al vasto mondo dell’ellenismo coevo).

Un’operazione di inculturazione della fede davvero ammirevole, ma che non deve essere mal compresa o sovradimensionata dal lettore cristiano dei nostri giorni. Il cristianesimo, infatti, sposa in toto l’antropologia olistica ebraica, innestandovi a livello teologico la novità della propria fede nel Cristo morto e risorto. Innestato in lui per la fede e il battesimo, l’uomo gode della presenza e dell’opera dello Spirito Santo. L’uomo si trova quindi a vivere con una corporeità corruttibile, un concetto creato dall’autore della Sapienza. In Sap 12,1 egli dirà che «lo spirito incorruttibile» di Dio è presente in tutte le cose e in 18,4 applicherà l’aggettivo “incorruttibile” alla luce che emana dalla Legge.

In definitiva, l’uomo è fragile, secondo l’antropologia ebraica, perché è privato di quella incorruttibilità alla quale era destinato nel progetto di Dio (cf. Sap 2,23).

Realtà alla mano e realtà del cielo

Il v. 16 riporta il terzo interrogativo retorico (tis exichniasen;; cf. vv. 13a tis… gnōsetai;; v. 13b tis enthymēthēsetai;). L’uomo non è capace di decifrare le realtà che trascendono la realtà sensibile, “le cose celesti/ta… en ouranois”.

In vari libri sapienziali si riporta questa domanda retorica per evidenziare i limiti della sapienza umana di fronte all’insondabilità del disegno di Dio: cf. Sir 1,3; 18,4; Bar 3,29; Qo 3, 21.22; 8,1.7). Se Sap 3,16b afferma che, a stento, l’uomo può scoprire “le realtà a portata di mano /ta en chersin”, Qo 6,10-12 afferma che l’uomo è persino incapace di conoscere ciò che è bene per lui. La sapienza di Dio è inaccessibile (Qo 7,23-24) e lì l’uomo deve rinunciare a progetti conoscitivi troppo ambiziosi, accettando con gioia la quotidianità come dono di Dio (2,24; 3,13). Dio ha posto nell’uomo “il mistero del tempo/’et hā‘ôlām” ma l’uomo è incapace di comprendere la totalità del disegno di Dio dal suo inizio al suo termine (cf. Qo 3,11, in una traduzione più accurata proposta dall’esegeta L. Mazzinghi).

Sapienza e spirito

Il libro della Sapienza propone una linea risolutiva del rapporto uomo-Dio e uomo-storia diverso rispetto a Qohelet. I grandi progetti politici e religiosi possono essere rivelati grazie al dono della sapienza (Sap 9,11-12: «Ella infatti tutto conosce e tutto comprende: mi guiderà con prudenza nelle mie azioni e mi proteggerà con la sua gloria­ – prega il Salomone fittizio autore di Qohelet –. Così le mie opere ti saranno gradite; io giudicherò con giustizia il tuo popolo e sarò degno del trono di mio padre».

Secondo Sap 9,17, nessuno avrebbe potuto conoscere la “volontà intenzionale/boulē” di Dio (cf. 9,13a), se egli non avesse dato all’uomo “la sapienza/tēn sōphian”, messa in parallelismo con il dono dello spirito santo di Dio inviato dall’alto (epempsas to hagion sou pneuma hypo hypsistou).

La sapienza di Dio non è conoscibile attraverso gli sforzi della sapienza umana, come pensava il pensiero filosofico dei greci. Essa è un dono di Dio.

La sapienza di Dio assicura la conoscenza della volontà di Dio e nei testi sapienziali viene di fatto identificata con la Legge: «Egli ha scoperto ogni via della sapienza e l’ha data a Giacobbe, suo servo, a Israele, suo amato. Per questo è apparsa sulla terra e ha vissuto fra gli uomini. Essa è il libro dei decreti di Dio e la legge che sussiste in eterno; tutti coloro che si attengono ad essa avranno la vita, quanti l’abbandonano moriranno» (Bar 3,37–4,1). «La sapienza fa il proprio elogio – si ricorda nel libro del Siracide –, in mezzo al suo popolo proclama la sua gloria. […]. Tutto questo è il libro dell’alleanza del Dio altissimo, la legge che Mosè ci ha prescritto, eredità per le assemblee di Giacobbe» (Sir 24,1.23).

Lo spirito di Dio sembra essere una forza che sostiene l’uomo nel compimento della Legge. Secondo Geremia (3333-34) ed Ezechiele (Ez 36,26-29), la Legge sarà interiorizzata e, per Ezechiele, sarà lo stesso spirito di Dio a essere “donato/nātan” (più che “posto”): «Porrò il mio spirito dentro di voi e vi farò vivere secondo le mie leggi e vi farò osservare e mettere in pratica le mie norme» (Ez 36,27).

Sapienza e salvezza

L’uomo è strutturalmente fragile e caduco, incapace di conoscere la volontà di Dio e di metterla in pratica. Lo può però fare chiedendo questo dono nella preghiera, come ha fatto “Salomone” che ha invocato il dono della sapienza (cf. Sap 9,1-18).

La preghiera di “Salomone” si conclude con il v. 18, che riprende il v. 2 («e con la tua sapienza hai formato l’uomo perché dominasse sulle creature che tu hai fatto»). Come con la sapienza Dio creò l’uomo, così “con la sapienza furono salvati/en sophiai esōthēsan” (da Dio, passivum divinum) gli uomini.

Sap 9,18 introduce il tema trattato nei capitoli successivi (Sap 10–19). Essi mostreranno all’opera la sapienza in rapporto alla storia, illustrando come essa agisca per la salvezza di Israele dalla schiavitù in Egitto nel momento stesso in cui prova i carcerieri con gli stessi strumenti con i quali essi avevano oppresso gli israeliti (cf. le sette “antitesi” in Sap 11,2–19,12).

I sentieri della terra, le realtà sbagliate, storte, inique e ingiuste dei “pensieri e delle azioni concrete/le vie/hoi triboi” degli uomini che operano nella storia umana sulla terra sono state in tal modo “raddrizzate/diōrthōthēsan” (da Dio). In tal modo, grazie alla sapienza di Dio che agisce nella storia (Sap 10–19), gli uomini “furono catechizzati/edidachthēsan” su ciò che è gradito a Dio: la volontà inconoscibile di Dio fu rivelata e illustrata nella storia.

Una volontà di libertà per il suo popolo, una volontà salvifica per tutti «coloro che sono sulla terra» (Sap 9,18a).

Il discepolo andrà fino alla fine

Secondo l’interessante strutturazione retorica proposta da R. Meynet, la sequenza Lc 13,22–14,35 è imperniata sul detto di Gesù: «Chi si esalta sarà abbassato e chi si abbassa sarà esaltato» (Lc 14,11), che può fornire il titolo alla sequenza stessa. La doppia parabola centrale (4,7-14) è incorniciata da due sotto sequenze che comprendono ciascuna due passi: 13,22-30 e 13,31–14,6, da una parte, e 14,15-24 e 14,25-25, dall’altra. I titoli dei quattro passi li possiamo ricavare dalla relazione tra loro. Il primo (13,22-30) con il penultimo (14,15-24) e il secondo (13,31–14,6) con l’ultimo (14,25-35). Se Lc 13,31–14,6 può essere titolato “Gesù andrà fino alla fine”, Lc 14,25-35 potrà ricevere il titolo “Il discepolo andrà fino alla fine”.

Le condizioni per il discepolato

In sintesi, la sequenza Lc 13,22–14,35 può essere compresa alla luce delle seguenti correlazioni letterarie e semantiche.

Se la pericope di Lc 13,22-29 intendeva rispondere all’interrogativo: “Chi entrerà e siederà nel regno di Dio?”, la sua corrispondente Lc 14,15-23 sembra rispondere all’interrogativo: “Chi mangerà il pane nel regno di Dio?”. Se è vero che, per Gesù, alcuni ultimi saranno primi e alcuni primi saranno ultimi (Lc 13,30), è altrettanto vero che chi si esalta sarà abbassato e chi si abbassa sarà esaltato (Lc 14,11) e che nessuno di quegli invitati che rifiutano gusterà la cena del generoso padrone di casa (Lc 14,24).

Se Gesù andrà sino alla fine (13,31–14,6), anche il discepolo andrà fino alla fine (Lc 14,25-35).

Amare di più

All’indistinta “folla numerosa/ochloi polloi” che lo accompagna nel suo cammino (per alcuni tratti – alla sera probabilmente tornavano alle loro case) Gesù propone alcune impegnative condizioni per diventare suoi veri discepoli (cf. v. 26.27.33). Occorre “andare verso di lui/erchetai pros me” scegliendolo come persona unica, non come una dottrina di pensiero o una causa socio-politico-religiosa. Questo comporta un «amarlo di più/“odiare”/misei» delle realtà affettive familiari più care.

Si tenga presente che nell’AT la “moglie odiata” era la seconda moglie rispetto alla prima. «Hai una moglie secondo il tuo cuore? Non ripudiarla, ma se non le vuoi bene/alla odiata/misoumenēi, non fidarti» ammonisce il Siracide (Sir 7,26). Si veda anche Gen 29,31 «Ora il Signore, vedendo che “Lia veniva trascurata [gr LXX: era odiata/miseitai Leia]”, la rese feconda, mentre Rachele rimaneva sterile… Il Signore ha udito che io “ero trascurata/gr LXX: misoumai”».

Importante è anche il testo di Dt 21,15-17, dove si assicura la doppia eredità al figlio della moglie “odiata” (cinque volte il testo greco ha misoumenē; così la traduzione CEI 2008) rispetto a quello della “amata”.

Il testo molto citato di Dt 24,1-4 non regola tanto il divorzio – come si dice molto spesso! –, quanto vieta all’uomo che ha ripudiato una donna di riprendersela in casa dopo che sia stata ripudiata da un altro uomo con cui nel frattempo si fosse sposata. Al v. 3 si ricorda la possibilità che il secondo marito “la odi/misei autēn” e che perciò la ripudi.

Si ricordi anche il dramma della sterile Anna, la sposa di Elkanà, sbeffeggiata dalla seconda moglie, Peninnà, a cui YHWH aveva aperto il grembo (cf. 1Sam 1,2-8).

Gesù non intende certo violare il quarto comandamento o rompere le unioni coniugali. Amando lui sopra ogni cosa, si ritrova, in seconda battuta, ogni altro valore situato nel suo giusto ordine e grado, onorato, trasfigurato ed elevato perfino a “mistero/mystērion” sacramentale dell’unione di Cristo con la Chiesa (cf. Ef 5,25ss).

Solo Gesù è una persona che salva la vita; nessuna persona cara lo può fare. Dopo aver accettato in prima istanza di inserirsi nella persona divina di Gesù come realtà primaria della propria vita, il discepolo troverà poi, in seconda istanza, la forma vivendi concreta che realizzi in piena felicità la propria vocazione specifica.

La croce

Il discepolo che non “va dietro” a Gesù in un cammino discepolare, prendendo cioè su di sé personalmente la croce – costituita dalle esigenze del Regno, dalla dolce persona di Gesù, dalle sue richieste esigenti vissute da lui stesso per primo in totale abbassamento di sé fino al dono totale sulla croce –, non può essere suo discepolo.

Non si tratta tanto e solo di accogliere e sublimare nella preghiera e nell’offerta a Dio “le croci” piccole e grandi che la vita presenta, quanto di abbracciare personalmente una persona decisiva per la propria vita, che si distingue per uno stile di vita di autodonazione, di pro-esistenza fino all’abbassamento totale di sé (cf. la parabola di Lc 14,7-10 presente nella stessa sequenza, con la sua conclusione in 14,11).

Oculatezza

La prima paraboletta di Gesù (vv. 28-30) – raccontata per simboleggiare le esigenze del discepolato attraverso un racconto fittizio che si conclude con una domanda, più o meno esplicita, a cui si deve rispondere personalmente – è impostata su un impianto simbolico edilizio. Essa invita all’oculatezza nel calcolare il budget a propria disposizione prima di iniziare un complicato lavoro di costruzione di una torre. Il tutto per evitare che, in caso di esaurimento dei fondi a disposizione, la costruzione debba essere interrotta, con la solita conseguenza dell’inesorabile tremenda vergogna sociale che ne seguirebbe (cf. Lc 14,9, nella stessa sequenza, circa l’invitato arrivista declassato e ricoperto di vergogna). Un disvalore opposto all’onore, codice principe della vita sociale nel Mediterraneo (cf. la “gloria/doxa” di Lc 14,10, nella stessa sequenza).

Se si intende abbracciare il Regno seguendo Gesù e la sua proposta impegnativa di discepolato, occorre essere oculati per vedere se si hanno a disposizioni le forze per farlo.

Queste, però, a differenza di ciò che avviene nella parabola, possono sempre essere richieste nella preghiera… La parabola (racconto intradiegetico), infatti, non corrisponde mai totalmente al referente extradiegetico a cui si narratore intende far riferimento: Dio Padre, Gesù, il Regno, le realtà escatologiche…

Oculatezza e flessibilità

La seconda paraboletta di Gesù (vv. 31-32) è impostata su un impianto simbolico di natura bellica. Occorre molta oculatezza nel voler affrontare in guerra un re avendo a disposizione la metà delle forze rispetto all’avversario. L’oculatezza deve essere unità alla flessibilità. Si sceglierà allora di diversificare le strategie, recedendo dall’azione bellica e preferendo il percorso della trattativa diplomatica in vista di una risoluzione pacifica del conflitto.

Stessa oculatezza e flessibilità occorrono per seguire Gesù e accogliere il Regno. Oculatezza rispetto al proprie forze rispetto all’impegno che si ha davanti e flessibilità nel cercare gli strumenti più adatti a conseguire lo scopo, eventualmente cambiandoli anche in corso d’opera.

Alle parabole fa spesso seguito la loro applicazione. Non sempre l’applicazione di una parabola – gesuana o ecclesiale, cioè di natura esplicativa e applicativa alla situazione postpasquale curata dalla Chiesa in un momento successivo – si situa in linea perfetta con l’andamento dialogico seguito nel racconto fittizio parabolico.

L’applicazione (“così/houtōs”) delle due parabole (v. 33) che richiede il distacco dai beni – gesuana o ecclesiale che sia – si pone esplicitamente sul filo logico del discorso riguardante il vero discepolo di Gesù («Non può essere mio discepolo», cf. vv. 27.28), ma non è esattamente in linea col filo logico e argomentativo dei due racconti parabolici fittizi. Questi prevedono oculatezza nell’avere i mezzi adatti e sufficienti, oppure oculatezza e flessibilità nel raggiungere lo stesso risultato diversificando la strategia grazie all’utilizzo di mezzi diversi.

L’applicazione insiste in ogni caso su un’altra richiesta esigente rivolta a chi voglia diventare discepolo di Gesù. Egli deve “allontanarsi/separarsi/rinunciare/mettersi da parte rispetto a/apotassetai” dai beni in proprio possesso.

Il “distacco” interiore dal dominio che i beni possono avere sul cuore è richiesto a tutti i discepoli. Il verbo apo-tassomai rimanda a un porsi in una tassonomia valoriale ben precisa, che prende le distanze da altre tassonomie. La forte esigenza richiesta rimane immutata per tutti i discepoli di Gesù.

Le forme concrete, esteriori della sequela di Gesù sono state tuttavia chiaramente diversificate fin all’inizio. Molti discepoli di Gesù non lo hanno seguito anche esternamente scegliendo come propria la “forma vivendi” itinerante del gruppo che formava il cerchio più ristretto dei Dodici e dei discepoli più vicini (“apostoli” e quant’altro). Essi lo “seguivano” e lo “appoggiavano” restando a casa e continuando la propria vita familiare e lavorativa normale.

Proposte sapienziali evangeliche

Gesù propone delle esigenze discepolari non accessibili alla mente umana.

Occorre la sapienza donata da Dio per afferrarle.

Occorre il suo santo spirito.

Lo spirito evangelico del Regno.

Lo Spirito del Figlio.

Seguire lui è trovare la fonte della sapienza.

Seguire lui è trovare il bandolo della volontà concreta di Dio sui sentieri dell’uomo sulla terra.

Un disegno di salvezza.

Richiede oculatezza, flessibilità.

Soprattutto distacco interiore e coraggio evangelico.

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