Ciro, mio “messia”
Nel 555 a.C. Ciro II, “Ciro il grande”, re dei persiani, si rivolta contro il suo signore Astiage, re dei medi; nel 552 ne conquista la capitale Ecbatana e, nel 549, riesce ad abbinare le corone, diventando re dei medi e dei persiani.
Nel 539 a.C. l’esercito di Ciro entra senza colpo ferire nella capitale di altri potenti nemici – Babilonia – e restituisce alle varie città gli idoli espropriati e radunati lì forzatamente dai sovrani babilonesi.
Nel 538 a.C. è la volta degli ebrei. Con l’editto di Ciro viene loro concesso di tornare nella loro patria e ricostruirvi il tempio distrutto. I polmoni si riempiono di gioia, la provvidenza di YHWH è davvero grande. Si torna a casa!
Qualcuno si è ben insediato, come aveva raccomandato il profeta Geremia nella sua lettera riportata in Ger 29. Aveva campi, banche, possedimenti. Se ne resterà tranquillo in una problematica diaspora, seppur non infeconda. Vi nascerà una grande scuola rabbinica, editrice di uno dei due Talmud/ “Insegnamento”, il Talmud babilonese (Talmud babli).
La gioia di chi si rimette in marcia per tornare dall’esilio, ricostruire le proprie case e il tempio, cantare i canti di Sion nel luogo più appropriato (cf. Sal 137,4), è immensa. Le cetre resteranno lì, appese ai salici di quella terra; ne faremo di nuove, più belle, col legno della nostra terra… Benedetto il Signore YHWH che ci ha liberato da questo esilio. Ci sembra tutto un sogno! (cf. Sal 126,1). La lingua si scioglie in bocca, si stacca dal palato (Sal 137,6); la bocca si riempie di sorriso, la lingua di gioia (Sal 126,2).
Nel venir qui, strascicando i piedi nel deserto, piangevamo a dirotto, tentando di seminare qualcosa per strada (per non dimenticarla) e soprattutto là dove YHWH aveva pensato di esiliarci, nel suo disegno di rifarci suoi figli obbedienti. Ma, tornando a casa, portiamo con gioia i covoni: li abbiamo mietuti con le lacrime agli occhi, frutto del crogiolo purificatore babilonese.
YHWH ha deciso di “santificare il suo nome”, di non lasciarlo bestemmiare ulteriormente a causa della misera sorte del suo popolo. Per l’onore del suo nome ci riporta a casa. Lui è santo, perché ci libera! Veramente solo lui, YHWH, può fare un’opera così grande: cambiare le sorti di Israele, ristabilirle come i torrenti del Negev, pieni d’acqua provvidenziale dopo tanti mesi di siccità ardente.
Tu non mi conosci, ma ti ungo messia!
YHWH è grande, unico! Dio amante degli uomini, redentore del suo popolo, un Dio libero e liberatore dei suoi figli. A dir la verità, ci siamo quasi scandalizzati quando abbiamo sentito il profeta dire che YHWH aveva designato “suo unto/messia/mešîô” il re pagano Ciro, re dei medi e dei persiani (e anche dei babilonesi).
Ma le vie di YHWH sono imperscrutabili, non sono le nostre vie. Lui ha visioni grandi, vede il bene ovunque ci sia, scorge l’apertura mentale e la politica religiosa avveduta e conciliante di Ciro verso i vari popoli del suo immenso impero che, con Dario II “Noto” (423-404), raggiungerà le venti regioni amministrative, dette satrapie. Israele sarà chiamata la satrapia dell’Oltrefiume.
YHWH è grande, magnanimo. Ciro II è sì “Il Grande”, ma non c’è paragone con YHWH. Egli lo ha unto/māšaḥ come suo “messia/consacrato”, lo ha “chiamato per nome” (cf. Is 45,3.4), dandogli cioè una missione ben precisa. Egli è uno strumento provvidenziale in mano del governatore unico del cielo, della terra e di ogni cosa bella che esiste (cf 45,7.9-13.20-25). Per questo «ti ho preso per la destra» (45,1), per darti forza e indicarti il cammino di una sovranità lungimirante. “Io” marcerò dinanzi a te nelle guerre vittoriose sui re tuoi nemici, te ne darò in mano le loro ricchezze. A me interessa solo la liberazione del mio popolo, l’unica mia ricchezza, il mio figlio primogenito (cf. Es 4,22).
«Tu non mi conoscevi» (Is 45,4; cf. v. 5). Non hai mai avuto esperienza profonda della mia identità, come l’ha avuta il mio popolo a partire dagli anni del primo esilio, quello in Egitto, e nel cammino dell’esodo nel deserto. Io ti chiamo lo stesso come mio strumento di bene, per riguardo del mio “servo/‘ebed” Giacobbe (v. 4), colui che mi rende il servizio liturgico a nome di tutti i popoli, e si dedica totalmente a me, liberatore e redentore. È solo Giacobbe/Israle “il mio eletto/beḥîrî” (v. 4) e io ti ho reso “unto/messia”, perché fossi uno strumento della sua liberazione e del suo ritorno a casa.
Fuori me: zero!
Sono stato io ad abbracciare il tuo cammino, a farti abbinare le corone dei persiani, dei medi e ora anche quella dei babilonesi. I sacerdoti di Babilonia ti hanno cantato che a farlo è stato il loro dio Marduk, attorniato dalla sua corte di dèi e di dee, un pantheon a me sconosciuto. Ma io ti faccio questa grande rivelazione, aperta a tutte le genti: «Io/’ānî (enfasi!) (sono) YHWH: nessun altro! Eccetto me non esiste un dio» (v. 5), «fuori di me: zero!» (v. 6 trad. A. Mello; cf. vv. 14.18.21.22; 46,9; Dt 4,35.39).
Il bene, il bello e il vero sono unità. Dio è uno e unico perché l’amore è Uno e unico, e dalla sua partecipazione nasce non la presunta violenza dovuta al monoteismo, ma l’amore fraterno dei figli dell’unico Padre.
Il tributo di Cesare
Dopo la prima controversia sostenuta nel suo insegnamento nel tempio da Gesù con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo (e con i farisei, cioè i discepoli degli scribi) riguardante la sua autorità (Mt 21,23-28), egli narra loro tre parabole del regno (Mt 21,28–22,14). La seconda controversia (Mt 22,15-22) è veramente insidiosa.
La “controversia/maḥălôqet” era una pratica comune nel rabbinismo. La comprensione della “Istruzione/Tôrâ” avveniva nel giudaismo (e nell’ebraismo di oggi) non tanto nella solitudine dello studio personale ma nel confronto dialettico. Questo non doveva essere ozioso, ma costruttivo. «Qualunque disputa che avviene nel nome del Cielo sarà ricordata [ovvero, anche le opinioni che non sono state accettate], ma quelle che non sono nel nome del Cielo alla fine non resteranno (Etica dei padri, 5,20)» (Michelini).
Il senso della “tentazione/prova” non aveva inizialmente un’accezione negativa, ma indicava la discussione franca, aperta, anche accesa, fra i maestri rabbini. Nel nostro caso, però, da Gesù viene notata la trappola tesagli, per “catturare con la rete, col laccio/pagideusōsin” Gesù nella sua parola di risposta. Non c’è negli interlocutori l’intenzione di iniziare una disputa corretta, anche infuocata, perché essa è avvelenata dalla “malvagità/cattiva (intenzione/ponērian)” che la corrompe e la perverte.
Gli interlocutori dapprima si rivolgono a Gesù con un’ampia ma veritiera captatio benevolentiae, articolata in quattro elementi che sottolineano:
1) la rettitudine personale di Gesù;
2) la sua intenzione di insegnare la “volontà concreta /tēn hodon/ha-derek” di Dio, quella vera;
3) per quanto riguarda gli uomini, di essi Gesù “non gliene importa nulla/non ha soggezione/non si lascia condizionare/ou melei”;
4) questo è possibile perché egli “non guarda verso (la) persona di uomini/non guarda in faccia a nessuno/non si lascia condizionare dal tipo di persone che ha davanti e dal loro pensiero/ou gar blepeis eis prōsopon anthrōpōn”.
La domanda del parere di Gesù riguarda una questione delicatissima: «È lecito/exestin (giuridicamente-religiosamente) pagare/dare il tributo/dounai kēnson a Cesare?». «Noi siamo il popolo che ha solo YHWH per Signore, e non dobbiamo riconoscere altre autorità, come quella romana, che per di più è occupante il nostro paese…». Così ragionavano “gli zelanti/zēlōtai” della Legge che, a partire dal 6 d.C., divennero sempre più agguerriti, fino a diventare un vero e proprio partito armato (gli “zeloti”) negli anni che precedettero la prima guerra giudaica (66-70 d.C.), conclusasi tragicamente con la distruzione della città e del tempio. Pagare i tributi era considerato da loro irreligioso, oltraggioso dell’unicità gelosa di YHWH nei confronti del suo popolo.
Se Gesù avesse espresso un’opinione positiva, sarebbe stato considerato un “irreligioso/sacrilego/non zelante” nei confronti di YHWH, un “venduto” ai romani, un collaborazionista della potenza occupante.
Se, invece, Gesù avesse negato la liceità giuridico-religiosa del pagamento del tributo, sarebbe stato denunciato alle autorità per insurrezione politica sediziosa e con la sua autorevolezza avrebbe contribuito a mettere in movimento un’azione di ribellione dalle conseguenze imprevedibili e incontrollabili.
L’immagine e l’iscrizione
Gesù risponde con un brillante escamotage. Nota la sottile “malizia/ponēria” della domanda, non semplice questione accademica rabbinica – molto importante, d’altronde – ma trappola per lui mortale. Bollandoli con l’apostrofe di “ipocriti” (persone che mettevano una maschera sopra la faccia per impersonare un personaggio a teatro), chiede di mostragli “la moneta del tributo/to nomisma tou kēnsou”. Essi gliela mostrano prontamente, senza imbarazzo, segno che l’avevano abitualmente appresso, nella borsa della piega del vestito. Con questo, essi dimostravano implicitamente di accettare di fatto da tempo la pretesa di potere del dominatore romano…
«Il denaro di Tiberio, che all’epoca circolava in Palestina, mostra sul diritto la testa dell’imperatore e, dietro, in secondo piano, Livia, l’imperatrice madre, raffigurata quale dea della pace; l’iscrizione recita: Ti(berius) Caesar Divi Aug(usti) F(ilius) Augustus e sul rovescio la scritta Pontif(ex) maxim(us)» (U. Luz).
In nota, lo studioso ricorda che «le monete imperiali non erano semplicemente oggetti di valore, ma implicavano anche riconoscimento e rispetto davanti al potere politico e religioso dell’imperatore, come illustra il provvedimento ricordato in Suet. Tib. 58, secondo il quale chi portasse con sé in una latrina o in un lupanare una moneta con l’effigie di Augusto si sarebbe reso perseguibile penalmente».
Gesù domanda ai suoi interlocutori farisei (molto probabilmente scribi, esperti della Legge) chi siano i referenti dell’immagine/eikōn e dell’“iscrizione/epigraphē”. La loro risposta li inchioda senza remissione: «Di Cesare».
Icastica la riposta/conclusione di Gesù alla controversia esplosiva, solo in apparenza accademica. «Ridonate in cambio/apodote a Cesare le cose di Cesare e le cose di Dio a Dio». Ridate, sotto forma di tributo, quello che è dovuto all’autorità politica e religiosa – (più o meno) legittima – che voi di fatto accettate da tempo, portando con rispetto in seno la moneta imperiale specifica per il pagamento del tributo. Rendete a Cesare l’onore e il rispetto per il campo proprio di azione, quel campo amministrativo, politico e religioso che, nei fatti, gli riconoscete e dei vantaggi del quale voi godete e usufruite. Il suo è un campo ben limitato d’azione. Ridategli in cambio il segno che riconoscete la sua autorità e il bene elargito dalla sua amministrazione in vista del bene comune e dell’ordinamento corretto della società che cerchi il bene comune di tutti.
Gesù non fonda qui teologicamente la dottrina teologica dei poteri, quello politico-economico e quello religioso riferito al vero Dio. Questo appartiene alla Wikungsgeschichte, la “storia degli effetti”.
Restituite a Dio le cose di Dio
«Le cose di Dio (ridatele) a Dio» è una frase che apre un mare infinito di opzioni interpretative. Questo dimostra chiaramente in prima battuta che Gesù non è un “rivoluzionario” violento (checché ne dicano alcuni studiosi, in specie del passato). Non lo sarà neanche per il gesto simbolico ridotto della “purificazione del tempio” (o meglio, del culto).
In stretto rapporto al contesto, Gesù intende probabilmente riferirsi al racconto biblico della creazione dell’uomo a “immagine/eikōn/ṣelem” e “somiglianza/homōiosis/demût” di YHWH (cf. Gen 1,26-27).
L’immagine e l’iscrizione sulla moneta imperiale erano il segno del referente umano, il “padrone” che l’aveva emessa, al quale apparteneva e a cui doveva essere ridata, come segno di appartenenza del contribuente al campo limitato della sua azione politico-amministrativa.
“Le cose di Dio”, appartenenti a lui e che a lui vanno ri-donate in cambio quale origine di ogni bene, non costituiscono però il 50% dei “tributi” che l’uomo deve dare ai suoi “padroni”. YHWH non è sullo stesso piano di Tiberio Cesare! L’uomo non è metà creatura a immagine e (tendenzialmente) a somiglianza di Dio e, per l’altra metà, semplice contribuente di un’autorità umana.
L’uomo deve ridonare a Dio tutto se stesso, nel campo totalizzante della vita ricevuta in dono insieme al creato da custodire e da coltivare con amore. YHWH è l’unico signore a cui va riconosciuto con rispetto il dominio totale di bene sull’uomo sua creatura, suo figlio, il suo Amato riscattato dal male e liberato per il bene.
Il campo d’azione universale della signoria di YHWH/del Padre (che in definitiva si identifica col suo Regno) illuminerà gli uomini in vista dell’esercizio corretto dell’autorità umana avente come scopo l’ordinamento sapiente e corretto della società, teso al bene comune. Di questo gli uomini sono responsabili con la loro intelligenza economica e politica. Se essa è illuminata dalla parola di Dio, tanto meglio, evidentemente.
Da figlio creato a immagine e somiglianza di Dio, l’uomo saprà essere leale nel campo politico-sociale-economico nei confronti dell’autorità legittima e democraticamente eletta/riconosciuta dalla maggioranza del popolo.
L’autorità umana non potrà, però, in ogni caso avanzare pretese totalizzanti che travalichino il suo limitato campo d’azione, che non può dominare l’intima vocazione dell’uomo a essere immagine e somiglianza di Dio, figlio nel Figlio Gesù.
Nessun pareggio. Nessuna equivalenza Stato-Chiesa, nessuna equa “spartizione” dei poteri… Sono grandezze fra loro non confrontabili, e YHWH/il Padre è l’unico Dio a cui rispondere non con prestazioni parziali, da “contribuente”, ma con tutto se stessi. «Fuori di me: zero!» ricorda Is 45,6. «A me, tutto te stesso», intima YHWH/il Padre. «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo», afferma Paolo ad Atene, citando poi un frammento del poeta Arato di Soli (At 17,28).
Nel suo capolavoro, la Lettera ai Romani, Paolo affermerà più compiutamente: «Nessuno di noi, infatti, vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore, se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore» (Rm 14,7-8).
Questo è il tributo che ha l’ultima parola.