XXV Per annum: Furbo e disonesto

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Ogni volta che veniamo a messa, noi ci sentiamo sollecitati a vivere questo momento di grazia in intima unione con Gesù, sommo ed eterno sacerdote; lui, che ha unito nella sua persona la triplice realtà del sacerdote, dell’altare e della vittima.

Pertanto, riascoltiamo volentieri l’esortazione dell’autore della lettera agli Ebrei: «Noi non abbiamo un sommo sacerdote che non sappia prendere parte alle nostre debolezze: egli stesso è stato messo alla prova in ogni cosa, come noi, escluso il peccato. Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia» (Eb 4,15-16).

 

1. Il profeta Amos, nella prima lettura, ci fa ascoltare un’invettiva contro i ricchi che calpestano il povero: un messaggio estremamente forte e attuale. Anche se sono cambiate le circostanze e le motivazioni, è tuttavia innegabile che la crisi economica che stiamo attraversando ha cause riconducibili a responsabilità personali e di gruppo. Infatti, stiamo assistendo ad un fatto raccapricciante: i ricchi diventano sempre più ricchi, mentre i poveri diventano sempre più poveri.

Amos era un semplice contadino del secolo ottavo a.C., e fu strappato alla sua pace agricola dal Signore che gli affidò il pesante fardello di essere profeta in Israele (ma anche per gli altri popoli). Egli ha riconosciuto che, sotto le ingannevoli parvenze di un culto impeccabile e dietro il fasto di feste religiose, si nascondeva un cuore gretto. È un pericolo di sempre: «Ascoltate questo, voi che calpestate il povero»: il povero è sempre il più esposto alle angherie dei ricchi. Questi passano spesso come i benefattori del popolo, mentre in realtà lo opprimono con le leggi che impongono al mercato. Ma Dio prende la difesa dei poveri, che sono i suoi prediletti.

 I ricchi sono più preoccupati di sottrarsi alle restrizioni della Legge che non di rispettare le esigenze, pur minime, di un’etica che mette il prossimo, soprattutto chi è povero, al centro della propria attenzione: «Quando sarà passato il novilunio e si potrà vendere il grano ?». In realtà, il loro desiderio non è “vendere il grano” ma “rubare”. Come? «Diminuendo l’efa e aumentando il siclo e usando bilance false». Così, chi è costretto a comprare, si trova esposto alle ruberie più sfacciate.

Ma su costoro non tarda a risuonare la sentenza di Dio: «Certo, non dimenticherò mai tutte le loro opere». Chissà se qualcuno ricorda ancora queste parole!

2. Il salmo responsoriale è un inno di lode a Dio ma, considerando attentamente i suoi contenuti, ci accorgiamo che Dio viene presentato sì come colui che siede nell’alto, ma, nello stresso tempo, questo Dio ama chinarsi per guardare nei cieli e sulla terra. Un Dio chinato sulle sue creature è un Dio che ci commuove: quasi un anticipo o profezia di incarnazione.

Il tono innico lo si percepisce fin dall’inizio: «Lodate, servi del Signore, lodate il nome del Signore». Il nome del Signore dev’essere benedetto sempre e per sempre. È questo il principale dovere di un popolo che sa di dovere la sua dignità esclusivamente a JHWH che lo ha liberato dall’Egitto, dalla terra di schiavitù.

Questo Dio mette le sue delizie nel chinarsi sul suo popolo, per osservare in quali condizioni si trova. Se lo trova nella miseria a causa delle soverchierie dei ricchi, allora egli si mette dalla sua parte e lo libera: «Solleva dalla polvere il debole, dall’immondizia rialza il povero». Esattamente quello che dirà Maria di Nazaret nel suo Magnificat.

È questa, e non altra, l’icona di Dio che ci viene consegnata dal Primo Testamento. Gesù, nella pienezza dei tempi, rinnoverà questa immagine di Dio, quando lo presenterà come un padre infinitamente buono e misericordioso.

3. La seconda lettura è tratta dalla prima lettera dell’apostolo Paolo a Timoteo. Siamo dinanzi ad una “raccomandazione” ufficiale. A Timoteo l’apostolo dice di rimanere fedele nel trasmettere una prassi di vita cristiana autentica.

Anzitutto Paolo raccomanda al discepolo «che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti» a Dio per tutti. Paolo dimostra di avere una grande apertura verso tutti, nessuno escluso. Per coloro che sono al governo e che esercitano una qualche forma di potere, Paolo prega perché ai sudditi sia concesso di «condurre una vita calma e tranquilla, dignitosa e dedicata a Dio». Senza tralasciare il diritto di ogni uomo di esercitare liberamente la sua fede, come ci ha insegnato il concilio Vaticano II, è su questa “dignità” che dobbiamo porre l’accento più forte, oggi.

In secondo luogo, l’apostolo offre il motivo di questa raccomandazione: «Questa è cosa bella e gradita al cospetto di Dio, nostro salvatore, il quale vuole che tutti gli uomini siano salvati e giungano alla conoscenza della verità». Il vero credente è pronto non solo a fare la volontà di Dio, come diciamo nel Padre nostro, ma anche a conoscere e a soddisfare ciò che a Dio piace.

Con un ulteriore tocco magistrale, l’apostolo consegna al discepolo

quella certezza di fede che egli ha maturato durante tutto il suo ministero apostolico: «Uno solo, infatti, è Dio e uno solo anche il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Cristo Gesù, che ha dato se stesso in riscatto per tutti».

4. La pagina evangelica ci presenta la famosa parabola dell’amministratore scaltro o ladro o infedele. Luca lo stigmatizza come «disonesto».

Questo amministratore può essere considerato come un modello per la sua abilità, «perché aveva agito con scaltrezza». Ma in che cosa consiste questa “scaltrezza” per la quale l’amministratore viene lodato? Essa consiste nel fatto che egli ha saputo prevedere e provvedere per il momento nel quale i suoi beni sarebbero finiti.

Merita qualche attenzione il soliloquio. Come questo amministratore si è procurato la riconoscenza dei debitori del suo padrone, così i discepoli devono farsi amici distribuendo i beni di cui dispongono. È un invito all’elemosina e, in questo caso, gli amici sono i poveri.

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