Il regno di Dio costituisce il motivo centrale della predicazione di Gesù. Egli inizia la vita pubblica annunciando: “Il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15), poi, servendosi di molte parabole, ne svela gradualmente “i misteri” (Mt 13). Quella degli operai dell’ultima ora (Mt 20,1-16) è certamente la più sconcertante. Gesù l’ha raccontata per porre in risalto sia la gratuità della chiamata, sia l’impegno richiesto a chi entra nel regno di Dio. Non si può negare che è faticoso rimanere fedeli a Cristo. Ma se essere discepoli comporta notevoli sforzi, come non ritenere giustificate le rimostranze degli operai assunti alle sei del mattino e retribuiti come quelli che sono arrivati alle cinque della sera?
Se s’imposta il rapporto con Dio in termini di lavoro non equamente remunerato, se il premio che si riceve in paradiso non è proporzionato ai meriti accumulati, allora viene da pensare che sia beato chi mette piede nel regno dei cieli solo all’ultimo momento, chi ha la fortuna di “morire in grazia di Dio” dopo essersi “goduto la vita” lontano da lui.
È questa la mentalità che crea il noncurante (colui che si disinteressa degli inviti alla fede), il ritardatario (che si compromette nel bene il più tardi possibile), il riottoso (che osserva i comandamenti sotto sforzo e per paura dell’inferno), il malvestito (il battezzato che continua a comportarsi da semipagano). Solo chi ha capito che il regno di Dio è una festa, un banchetto, entra deciso e senza indugi, perché non vuole perdere neppure un istante della gioia che gli viene offerta.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Stare sulla soglia della tua casa, Signore, dà più gioia che abitare nei palazzi degli empi”.
Prima Lettura (Is 25,6-10a)
6 Preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli, su questo monte,
un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti,
di cibi succulenti, di vini raffinati.
7 Egli strapperà su questo monte il velo che copriva la faccia di tutti i popoli
e la coltre che copriva tutte le genti.
8 Eliminerà la morte per sempre; il Signore Dio asciugherà le lacrime su ogni volto;
la condizione disonorevole del suo popolo farà scomparire da tutto il paese,
poiché il Signore ha parlato.
9 E si dirà in quel giorno: “Ecco il nostro Dio;
in lui abbiamo sperato perché ci salvasse;
questi è il Signore in cui abbiamo sperato;
rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza.
10 Poiché la mano del Signore si poserà su questo monte”.
Anticamente i grandi banchetti se li poteva permettere soltanto la gente importante. I re li organizzavano spesso per ragioni politiche: invitavano coloro con i quali volevano stringere alleanze o rafforzare legami di amicizia. Particolarmente sontuosi erano i banchetti in cui si festeggiava qualche ricorrenza o qualche vittoria sui nemici (cf. Est 1,1-8; Dn 5).
Nella lettura di oggi il profeta si presenta come il banditore di un annuncio sensazionale. Non un sovrano di questo mondo, ma Dio stesso offrirà un banchetto, del quale elenca il menù: cibi prelibati, carni saporite e di ogni tipo, vini eccellenti e raffinati (v. 6)… Roba da mandare in tilt la fantasia della povera gente d’Israele, abituata a mangiare una sola volta al giorno e non sempre.
Anche i rabbini si sono dilettati a disquisire sulle portate offerte in questo banchetto. Partendo dal fatto che la Bibbia ricorda un mostro marino, chiamato Leviatàn, ucciso da Dio e dato “come carne al popolo che abitava nel deserto” (Sal 74,14), essi concludevano che la principale vivanda dei giusti sarà la carne di questo mitico pesce. È per questo che in Israele, ancora oggi, alla cena del venerdì sera, quando inizia il sabato, si è soliti mangiare pesce, per richiamare a tutti gli uomini pii il banchetto celeste che li attende.
Chi saranno gli invitati? – si chiedono ansiosi gli ascoltatori. Tutti i popoli della terra, senza alcuna esclusione, è la risposta. Saranno convocati tutti alla stessa mensa; gioiranno insieme i popoli che prima si sono odiati, che hanno commesso violenze, che hanno lottato per sottrarsi le terre e i beni.
Non si mangerà soltanto. Si assisterà a eventi straordinari, accadranno fatti inauditi: il Signore farà cadere il velo, la coltre che copre gli occhi degli uomini (v. 7) e tutti lo potranno contemplare, seduto a mensa accanto a loro; poi egli “distruggerà la morte per sempre e asciugherà le lacrime da ogni volto… ” (v. 8).
Il profeta non era così ingenuo da pensare che un giorno non sarebbe più esistita la morte biologica; annunciava piuttosto la scomparsa di ciò che per l’uomo è morte e sconfitta: la vita senza senso e senza ideali, la beffa del fallimento e del dolore, la fame, la malattia, l’emarginazione. Tutto ciò che è “non vita” verrà eliminato, “lo ha detto il Signore” (v. 8). In nessun altro testo dell’AT si trovano promesse tanto straordinarie.
Il banchetto, naturalmente, sarà allietato da musiche, canti, danze. La lettura si conclude con il testo di un inno che pare composto proprio per essere eseguito in coro dai partecipanti: “Ecco il nostro Dio; in lui abbiamo sperato perché ci salvasse; questi è il Signore in cui abbiamo sperato; rallegriamoci, esultiamo per la sua salvezza, poiché la voce del Signore si poserà su questo monte” (vv. 9-10).
Il profeta alludeva ai tempi messianici, ma non si rendeva conto della portata delle promesse che, in nome di Dio, stava facendo; non immaginava che un giorno il Signore avrebbe davvero distrutto la morte e per sempre. Lo capirà invece Paolo che, illuminato dagli avvenimenti della Pasqua, scriverà ai corinti: “Quando poi questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità, si compirà la parola della Scrittura: La morte è stata ingoiata per la vittoria” (1 Cor 15,54). Lo capirà il veggente dell’Apocalisse che, all’apparire dei cieli nuovi e della terra nuova, scorgerà Dio nell’atto di tergere le lacrime dagli occhi di ogni uomo (Ap 21,4)… come Isaia aveva predetto.
Seconda Lettura (Fil 4,12-14.19-20)
12 Ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco; sono iniziato a tutto, in ogni maniera: alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza. 13 Tutto posso in colui che mi dá la forza.
14 Avete fatto bene tuttavia a prendere parte alla mia tribolazione.
19 Il mio Dio, a sua volta, colmerà ogni vostro bisogno secondo la sua ricchezza con magnificenza in Cristo Gesù. 20 Al Dio e Padre nostro sia gloria nei secoli dei secoli. Amen.
Col brano di oggi si conclude la Lettera ai filippesi. Poche righe, commoventi, da cui traspaiono i sentimenti di profonda amicizia che legavano Paolo ai cristiani di quella comunità. L’Apostolo ricorda anzitutto i disagi, le privazioni, le contrarietà che ha sopportato per la causa del vangelo: “Fratelli, ho imparato ad essere povero e ho imparato ad essere ricco, sono iniziato a tutto, in ogni maniera, alla sazietà e alla fame, all’abbondanza e all’indigenza” (v. 12).
Si trova a Efeso, in carcere, non per reati comuni, ma per aver servito Cristo. Lì ha ricevuto i doni inviatigli dai filippesi. È un uomo austero, Paolo, è abituato alla vita dura, alle persecuzioni e alla fame, tuttavia, di fronte al loro gesto generoso, si commuove e dice: grazie di cuore per esservi fatti presenti in questa mia tribolazione (v. 14).
Chi si gioca la vita per la causa del vangelo rimane un uomo, con tutte le emozioni e sentimenti: è ferito dalle ingratitudini e si rallegra per le manifestazioni di stima e di affetto. Soprattutto chi ha rinunciato, per amore del Regno, a formarsi una propria famiglia, sente profondamente questo bisogno di amicizia. Chi apprezza il messaggio di salvezza che egli annuncia, è bene che gli manifesti in qualche modo la propria riconoscenza.
Alla fine della lettera, Paolo assicura che Dio ama e protegge i suoi inviati e ricompenserà, in modo sovrabbondante, i gesti di generosità compiuti nei loro confronti (v. l9).
Vangelo (Mt 22,1-14)
1 Gesù riprese a parlar loro in parabole e disse: 2 “Il regno dei cieli è simile a un re che fece un banchetto di nozze per suo figlio. 3 Egli mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non vollero venire. 4 Di nuovo mandò altri servi a dire: Ecco ho preparato il mio pranzo; i miei buoi e i miei animali ingrassati sono già macellati e tutto è pronto; venite alle nozze. 5 Ma costoro non se ne curarono e andarono chi al proprio campo, chi ai propri affari; 6 altri poi presero i suoi servi, li insultarono e li uccisero.
7 Allora il re si indignò e, mandate le sue truppe, uccise quegli assassini e diede alle fiamme la loro città.
8 Poi disse ai suoi servi: Il banchetto nuziale è pronto, ma gli invitati non ne erano degni; 9 andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze. 10 Usciti nelle strade, quei servi raccolsero quanti ne trovarono, buoni e cattivi, e la sala si riempì di commensali.
11 Il re entrò per vedere i commensali e, scorto un tale che non indossava l’abito nuziale, 12 gli disse: Amico, come hai potuto entrare qui senz’abito nuziale? Ed egli ammutolì. 13 Allora il re ordinò ai servi: Legatelo mani e piedi e gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti. 14 Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti”.
Al tempo di Gesù, fra il popolo si favoleggiava molto sul “Gan Eden” – il Giardino di Eden – dove i giusti avrebbero goduto ogni felicità. Alla luce della ben nota profezia di Isaia che abbiamo trovato nella prima lettura, lo si immaginava come un sontuoso banchetto dove per bevanda sarebbe stato servito nientemeno che il “vino conservato nel grappolo dai sei giorni della creazione”; lo si rappresentava come un luogo dove non ci sarebbe stato bisogno di spargere aromi e profumi, perché “un vento del settentrione e un vento di mezzogiorno, soffiando fra le piante aromatiche del Gan Eden, avrebbero sparso ovunque la loro fragranza”.
I rabbini continuavano con promesse di gioie ancora maggiori: “Può un ospite – si chiedevano – preparare un banchetto per dei viandanti, senza sedersi a mensa con loro? Può uno sposo preparare un banchetto per degli invitati, senza sedersi accanto a loro?”. La risposta era: “Nell’aldilà, il Santo, benedetto egli sia, disporrà una danza per i giusti nel Gan Eden e siederà in mezzo ad essi e ciascuno lo additerà dicendo: ecco, questi è il nostro Dio, lo abbiamo atteso, godremo della sua salvezza”.
È su questo sfondo culturale che va proiettata la parabola che ci viene proposta oggi. Notiamo subito che la prospettiva del regno di Dio predicato da Gesù è però notevolmente diversa da quella dei rabbini. Questi annunciavano un Gan Eden preparato per l’aldilà, il banchetto del regno di Dio di cui parla Gesù è imbandito nell’aldiqua: è la condizione nuova in cui entra immediatamente chi accoglie il dono del suo Spirito, chi crede nella sua proposta di felicità, chi si fida delle sue beatitudini.
In tutta la parabola l’atmosfera è quella della gioia e della festa, ma ci sono anche, inattesi, due momenti drammatici: al centro c’è una città in fiamme e, nell’epilogo, un malcapitato che viene gettato fuori nelle tenebre. Cercheremo di cogliere il significato anche di queste due scene, ma cominciamo prima a identificare i personaggi.
La festa di nozze è l’immagine biblica dell’incontro d’amore tra il Signore e Israele. Nella parabola lo sposo è Gesù, è lui il figlio, e la sposa è l’umanità intera che, pur presentando tanti aspetti poco attraenti (odi, guerre, ingiustizie, lacrime di innocenti…) è amata perdutamente da Dio.
Il banchetto rappresenta la felicità dei tempi messianici. Chi accoglie la proposta del vangelo ed entra nel regno di Dio fa l’esperienza della gioia più autentica e profonda. Nella Bibbia il regno di Dio non è paragonato a una cappella dove tutti pregano raccolti e devoti; non è immaginato come un convento dove non si ode il minimo rumore, dove nessuno disturba la meditazione e l’estasi degli altri, ma è un banchetto dove ci si incontra, si mangia e si beve a sazietà, si dialoga e si fa festa.
Nella prima lettura il profeta ha promesso che Dio avrebbe organizzato un banchetto per celebrare la vittoria sulla morte. La Pasqua è il momento del trionfo di Dio ed è anche il giorno in cui sono state celebrate le nozze indissolubili fra Cristo e l’umanità. Da lì in avanti non hanno più senso la tristezza, la sfiducia, lo scoraggiamento; tutte le morti sono state vinte, tutti i sepolcri sono stati spalancati.
I servi che hanno l’incarico di portare l’invito sono divisi in tre gruppi. I primi due rappresentano i profeti dell’AT, fino a Giovanni Battista. Questi hanno svolto il compito di preparare Israele ad accogliere Gesù, lo sposo. Non hanno avuto successo. Il terzo gruppo indica gli apostoli e tutti noi; i risultati ottenuti da costoro sono decisamente migliori.
I primi invitati non sono entrati alla festa, non se la sono sentita di abbandonare i loro interessi, il campo e gli affari (v. 5). Non avevano bisogno di un banchetto; si sentivano sazi, ritenevano di possedere già ciò che è necessario per una vita senza problemi. Rappresentano le guide spirituali d’Israele, soddisfatti della struttura religiosa che si erano data e che offriva loro sicurezza davanti agli uomini e davanti a Dio.
Coloro che non prendono coscienza della loro povertà, che non hanno fame e sete di un mondo nuovo, non entreranno mai nel regno di Dio, si adatteranno alle meschinità con cui sono soliti convivere. Solo i poveri sono in grado di capire la gratuità dell’amore di Dio.
Gli invitati raccolti lungo le strade e nelle piazze sono gli uomini di tutto il mondo. Non è casuale il fatto che, nel testo originale, non si parli di buoni e cattivi – come risulta dalla nostra traduzione (v. 10) – ma di cattivi e buoni, senza distinzione, anzi, dando la precedenza proprio a coloro che non hanno meriti. È un modo sottile di alludere alla completa gratuità dell’amore di Dio e al fatto che “mentre noi eravamo ancora peccatori, Cristo morì per gli empi” (Rm 5,6).
La presenza del bene e del male nella chiesa è un tema ripreso più volte da Matteo. Chi entra nel regno di Dio non diviene immediatamente perfetto, porta con sé tutte le proprie miserie, debolezze morali, infermità. Il popolo di Dio è composto da gente che è cattiva e buona, è un campo dove continuano a crescere insieme grano e zizzania, è una rete che mette insieme ogni sorta di pesci.
È l’invito a coltivare la comprensione per le debolezze umane e a mantenere le porte delle nostre comunità aperte a tutti. I poveri, gli emarginati, coloro che si sentono rifiutati devono trovare nella chiesa il luogo dove si sentono accolti, capiti e stimati.
Prima di passare alla seconda parte del brano, va chiarito il dettaglio della città in fiamme (v. 7). È stato certamente introdotto da Matteo nella parabola raccontata da Gesù, infatti il versetto interrompe il racconto e, se lo si togliesse, la storia scorrerebbe via più logica. È difficile immaginare un banchetto che inizia, poi, nel bel mezzo, si fa una guerra e alla fine… le vivande sono ancora lì pronte sul tavolo e gli invitati sono rimasti in attesa.
L’evangelista ha voluto fare una lettura teologica della rovina di Gerusalemme, che è già avvenuta quando egli scrive il suo vangelo. I primi cristiani consideravano questo tragico evento come un castigo di Dio per il rifiuto del messia da parte di Israele.
Siamo di fronte a una interpretazione che urta la nostra sensibilità. Sappiamo bene che Dio non è responsabile dei disastri provocati dalle nostre insensatezze. Si tratta di un modo di esprimersi abbastanza arcaico, derivato dal linguaggio dell’AT dove spesso sono chiamati castighi di Dio quelli che in realtà sono le conseguenze del peccato. Ecco ad esempio come Isaia spiega le catastrofi cui Israele è andato incontro: “Hanno rigettato la legge del Signore, hanno disprezzato la parola del Santo d’Israele, per questo è divampata l’ira del Signore contro il suo popolo e su di esso ha steso la sua mano per colpire” (Is 5,24-25). Non sarebbe una fedeltà al testo sacro, ma insensato fondamentalismo, ripetere oggi queste espressioni che, nella nostra cultura, hanno tutt’altro significato. È dunque necessario fare una trasposizione e riformulare l’immagine, per renderla comprensibile all’uomo d’oggi.
Ecco come potrebbe essere proposto oggi il messaggio: chi rifiuta i pressanti inviti del Signore a prendere parte al banchetto del regno di Dio, si autocondanna alla distruzione, vedrà la propria vita ridotta in cenere e, di tutto ciò che ha costruito, non scorgerà alla fine che macerie fumiganti (1 Cor 3,13).
Come sempre però, Dio si serve anche dei disastri provocati dal peccato per portare avanti il suo progetto di bene, li fa entrare nella realizzazione del suo disegno di salvezza. La distruzione del tempio di Gerusalemme e il rifiuto del messia da parte di Israele hanno infatti favorito l’entrata dei pagani nella Chiesa. Gli “esclusi dalla cittadinanza d’Israele, estranei ai patti della promessa, senza speranza e senza Dio” (Ef 2,12) ora possono a pieno diritto sedersi come commensali al banchetto. La conclusione è tanto semplice quanto commovente: “E la sala fu piena” (v. 10). Non manca nessuno, tutti i figli sono riuniti attorno alla mensa del Padre, la festa può avere inizio.
Il sipario potrebbe calare su questa scena dolce e suggestiva, invece ecco che la parabola continua con un episodio che sembra rovinare tutto: il re entra nella sala, passa in rassegna gli ospiti e se la prende con un malcapitato che non ha indosso l’abito conveniente; lo tratta con durezza inaudita, addirittura ingiustificata, se si considera la venialità della colpa (vv. 11-13). Chi si era lasciato coinvolgere dalla gioia della festa non può che rimanere allibito. Come si spiega?
Risulta subito evidente che questa parte del racconto è slegata dalla precedente: non si accorda con quanto è stato affermato; perché meravigliarsi che ci sia qualcuno senz’abito nuziale, se le persone sono state raccolte per strada, nei campi, sulle piazze? Sarebbe più sorprendente trovare chi indossa l’abito di gala. Ma ciò che stona di più è lo sdoppiamento di personalità del sovrano. Si comporta da schizofrenico: prima è generoso e buono verso i più disgraziati, poi, per una mancanza da nulla, gli saltano i nervi, diventa terribile, persino crudele.
La spiegazione è abbastanza semplice. La seconda parte della parabola non è il seguito della prima, ma una nuova parabola che va isolata e interpretata senza fare riferimento a quella che la precede.
Il tema che l’evangelista vuole mettere a fuoco è la possibilità, anche per coloro che hanno accolto l’invito ad entrare nel regno di Dio, di allontanarsi dalla logica evangelica. Costoro rischiano il fallimento, come chi ha rifiutato l’invito.
La vita nuova del cristiano è spesso paragonata nel NT ad un abito nuovo, indossato nel giorno del battesimo. Non basta aver ricevuto il sacramento, è necessario assumere un comportamento consono. Non ci si può presentare con gli stracci della vita antica: gli adulteri, le disonestà, le slealtà, la dissolutezza morale. Non ci si può accontentare di mettere una pezza nuova sul vestito vecchio, bisogna rinnovare completamente il corredo, è necessario impostare la vita su valori del tutto nuovi.
Quanto al castigo inflitto all’uomo senz’abito nuziale, va tenuto presente, anzitutto, che questo modo duro di esprimersi è tipico di Matteo. Solo lui impiega spesso le espressioni “gettare fuori nelle tenebre esteriori” (Mt 8,12, 23,30) e “là ci sarà pianto e stridore di denti” (Mt 13,42-50, 23,30, 24,51…). Gli altri evangelisti non usano questo linguaggio.
Matteo scrive per giudei abituati ad essere esortati e rimproverati dai loro predicatori con queste espressioni forti. Si tratta di immagini legate al tempo e alla cultura del popolo d’Israele. Questo fatto va tenuto presente per non farsi un’immagine di Dio assurda e addirittura blasfema, quella di un Dio senza cuore e senza misericordia.
Lo scopo dell’evangelista è quello di richiamare i cristiani – delle sue e delle nostre comunità – alla serietà con cui vanno assunti e portati avanti gli impegni battesimali.
L’ultima frase: “Molti (cioè “tutti”) sono chiamati, ma pochi gli eletti” (v. 14) non è legata a nessuna delle due parabole che la precedono. In esse gli eletti sono molti (quasi tutti) e pochi i rifiutati (uno solo).
Siamo di fronte a un detto che Gesù ha pronunciato in un contesto diverso. Matteo lo ha inserito qui per scuotere, con un’affermazione ad effetto, il torpore e la tiepidezza di alcuni cristiani delle sue comunità. Viene interpretato spesso come un’indicazione sul numero limitato di coloro che entreranno in paradiso. Qui però Gesù non sta parlando del paradiso, ma del regno di Dio, del mondo nuovo nel quale si entra aderendo alla sua impegnativa proposta di vita. Tutti sono invitati, ma pochi hanno il coraggio di compiere il passo decisivo. La maggioranza esita, tentenna, vacilla, è titubante, non è del tutto convinta che dentro troverà una tavola imbandita, non se la sente di rinunciare alla sicurezza che le deriva da ciò che già possiede. Gesù mette in guardia dal rischio di perdere tempo prezioso: si potrebbe arrivare in ritardo, quando gli altri sono già al dolce o alla frutta.