L’elogio della “donna forte”
Il libro dei Proverbi appartiene al blocco letterario dei “libri” sapienziali”, che intendono insegnare l’arte del ben vivere fra gli uomini, a dirigere bene la società, facendo tesoro dell’esperienza umana ma sempre collegando gli eventi umani a una riflessione ispirata dal “timore” di YHWH, cioè dal rispetto ossequioso del discepolo credente verso l’immensamente Altro e Alto, costituito dal Dio di Israele. La sapienza del ben vivere partecipa, infatti, della qualità divina della sapienza che è stata intrisa nel creato, che ne partecipa con la sua mirabile struttura, pur presentando realtà drammatiche e insolubili all’uomo.
Secondo S. Pinto, dopo i 1,1-7, i sette versetti del Prologo che danno il titolo all’intera opera, seguono sette collezioni di detti, risalenti a varie epoche e autori, introdotti da espressioni che forniscono loro il tema principale: 1,8–9,18 (Istruzioni della Sapienza); 10,1–22,16 Proverbi di Salomone); 22,17–24,22 (Le parole dei sapienti); 24,23-34 (Anche queste sono parole per i saggi); 25,1–29,27 (Anche questi sono proverbi di Salomone, raccolti dagli scribi di Ḥizqiyya, re di Giuda); 30,1-33 (Massime di Agur, figlio di Yaqeh, da Massa); 31,1-31 Massime di Lemuel, re di Massa).
Il poema alfabetico o acrostico (31,10-31, in cui ogni versetto è preceduto dall’indicazione di una delle 22 lettere dell’alfabeto ebraico) dal quale è tratta la lettura liturgica è un “inno” che loda le gesta di una donna ideale, simile agli inni che lodano i trionfi militari (cf. Gdc 5).
Un’articolazione utile del testo (suggerita da M. Milani) potrebbe essere questa: vv. 10-11, titolo e introduzione generale (si abbozza la figura della donna e la fiducia del marito); vv. 12-18, prima descrizione della donna (l’operatività è principalmente legata al commercio e secondariamente al lavoro domestico); vv. 19-20, prima conclusione (chiasmo; le palme delle mani sono al centro del ritratto); vv. 21-27, seconda descrizione (si riprende il simbolismo del fare, si richiama il commercio, si sottolinea maggiormente il tema della casa, si anticipa il rimando alle “porte della città”); vv. 28-29, seconda conclusione (invito all’elogio riservato alla famiglia); vv. 30-31, conclusione generale (l’esortazione alla lode è rivolta a tutti: “le porte della città”).
È chiaro che non possiamo leggere questo brano sapienziale astraendo dalla cultura del tempo biblico in cui è stato composto, cultura sapienziale assunta totalmente da YHWH che “ispira” l’autore rispettando la sua vera autorialità, con i pregi e le lacune antropologiche, sociali, culturali, religiose con le quale egli recepisce ciò che YHWH intende dire.
Non si può fare un “copia e incolla” di tutto ciò che viene lodato nell’inno della “donna forte/di valore”, nel tentativo assurdo di riprodurre oggi i lineamenti socio-culturali-economici di un tempo assolutamente diverso da quello del terzo millennio, caratterizzato in modo tutto particolare dal mutamento (non sempre totalmente positivo!) nella concezione della donna, della sua dignità e del suo ruolo nella famiglia, nella società, nell’ambito lavorativo ed ecclesiale.
Questo non toglie nulla al fatto che molti popoli si potranno sentire descritti alla lettera nei particolari del testo. Si immagini il mondo africano, dove gran parte della struttura dell’economia domestica grava sulle spalle delle donne.
Gli affari vanno bene
L’inno alla “donna forte” che conclude il libro dei Proverbi loda senz’altro la figura positiva di una donna impegnata attivamente nell’economia domestica, producendo reddito familiare, ma tenendosi aperta con una certa libertà di movimento al commercio con altre realtà produttive, vicine e lontane.
Il maestro saggio dei Proverbi non può che lodare il matrimonio monogamico vissuto nella fedeltà per l’uomo: è un vantaggio reale, e viene raccomandato fin dalle prima pagine del libro (cc. 2; 5; 6). Il commercio della donna forte va bene, ma il primo ambito di impegno è quello della famiglia. Ella si alza presto, prepara cibo ricercato (alcuni elementi dei quali fa venire da lontano), dà ordini ai servi ma lavora anche di persona. La sua capacità di sapiente economia domestica è unita a doti di imprenditorialità che lei mette a frutto con una certa libertà. Mostra forza “virile” nel comprare un campo, business normalmente riservato agli uomini, e lo lavora di persona.
Attenzione al povero
Al centro del suo cuore (e centro dell’inno) c’è lo slancio/getto (vb. šālaḥ v. 19a) e l’apertura delle mani verso il lavoro manuale tipicamente femminile della conocchia, senza dimenticare mai la solidarietà sociale dello “slancio/getto” (vb. šālaḥ v. 20b) delle sue mani verso “il povero”. Questo non è mai assente dal suo universo mentale, che altrimenti ne farebbe una semplice donna piccolo-borghese, rinchiusa nel suo piccolo mondo antico. Laboriosità personale e solidarietà sociale verso le fasce più deboli e prive di ammortizzatori sociali ne fanno una donna non assente dall’universo umano più ampio del benessere e dell’interesse puramente individuale e familiare. È questo probabilmente il centro letterario dell’inno.
Occupata, non pre-occupata
Nei vv. 21ss si prosegue notando che forza e dignità sono il vestito della “donna forte”. Gli abiti che confeziona per sé e per i suoi familiari le danno serenità per il futuro e rendono nobile la sua stessa persona con la loro preziosa sobrietà. La sua casa è un piccolo laboratorio di sartoria e pelletteria e fornisce prodotti finiti ai grandi magazzini ed empori nazionali e internazionali. Il surplus viene reinvestito nel “laboratorio” domestico, con sapiente strategia di economia “aziendale”.
Nonostante il carico di lavoro – la prima ad alzarsi e l’ultima a coricarsi e talvolta bisogna finire un lavoro urgente e la notte si fa in bianco –, il suo animo è unificato, sereno e pacificato, non stressato e “strappato” in mille direzioni. Si tiene “occupata” non “preoccupata”.
Suo marito è lodato alle porte della città, dove si riunisce l’assemblea degli uomini importanti e degli anziani, che, accanto al vocìo e al cicaleccio del mercato, giudicano le vertenze giudiziarie minori, “giudici di pace” ante litteram. I suoi figli e le sue figlie la lodano apertamente, perché lei è sapiente nel fare e nel parlare.
Donna “sapiente”
È un modello della sapienza umana e biblica. Lei avverte infatti – e qui spunta l’apporto tipicamente religioso della scienza biblica – che la bellezza e l’operosità umana creatrice di benessere sono dei valori, ma “vaporosi”, un “soffio”, realtà caduche e transitorie, sfuggenti. Non sono “vanità”, moralmente vacue e condannabili, ma certamente un “soffio” (hebel) su cui tanto ha rifletto il saggio Qoèlet.
L’inno volge al termine e scopre le carte, quelle importanti. Il v. 30b è difficile a livello testuale e il testo ebraico può essere tradotto: “la donna che teme YHWH (con mutazione di vocali; lett. “il timore di YHWH) è da lodare”. Il testo greco della LXX rende: «Una donna saggia sarà lodata/il timore del Signore, ecco quello di cui bisogna vantarsi» (tr. L. Mazzinghi).
È evidente che la donna dalle mille doti ritratta in Pr 31 supera di gran lunga le stesse grandi figure femminili che costituiscono le colonne portanti della storia di Israele: Sara, Miriam, Rama, Ester, Giuditta ecc. La sua figura ha molti tratti simbolici. Il suo elogio, posto a conclusione del libro, fa da pendant positivo all’immagine della donna “straniera” descritta in Pr 1–9 con molti tratti negativi.
La donna di Pr 31 è «figura del sapiente che ha messo in pratica gli insegnamenti della sapienza contenuti nel libro. È probabilmente per questa ragione che il poema è stato posto volutamente a conclusione del libro stesso» (L. Mazzinghi). Non un elogio alla piccola borghesia quindi, ma all’operosità responsabile e aperta ai poveri e fondata sulla fede in YHWH, sull’ascolto della sua parola messa a confronto con la realtà concreta, tipica del “sapiente” della Bibbia.
«È stato un gran lavoratore», si dice spesso al funerale di tante persone. Il libro dei Proverbi ci ricorda altre due realtà fondamentali: apri la mano ai poveri e fonda “il “soffio” della tua vita sulla salda roccia della fede nel Dio della vita.
Parabole
Andando incontro al termine dell’anno liturgico, la Chiesa offre ai fedeli come cibo di vita le parole decisive, ultime, “escatologiche” di Gesù. Esse riguardano le realtà essenziali del traguardo della vita di fede e ricordano le qualità da mettere in campo per vivere fin d’ora e rimanere nella vita buona del Vangelo, facendolo “fruttificare” nella fioritura della propria esistenza.
Gesù si serve delle parabole, “acculturate” al suo tempo. Nei loro elementi fondamentali devono essere realistiche, “credibili”, rapportate al contesto e alle logiche di vita ben conosciuti dagli interlocutori.
A Gesù e all’evangelista non preme che il lettore vi si rapporti come a delle allegorie, con i loro elementi da decodificare con precisione per poi riferirli con esattezza al referente ultimo, esterno al racconto. Le parabole sono storie fittizie con una loro logica precisa, che induce “necessariamente” a una conclusione inevitabile da trarre e da esprimere personalmente, per poi applicarla alla vita che muta in continuazione.
La risposta personale porterà a mettere in atto dinamiche di vita inattese, nuove, non messe in freezer una volta per tutte dalla meticolosa decriptazione allegorica.
Consegnò i suoi beni
Un “uomo/anthrōpos” – con tutta probabilità ricco possidente – “affida/paredōken” (Mt 25,14.20), “dona/edōken” (v. 15) i “beni/hyparchonta” di sua proprietà, ai suoi “servi/schiavi/doulous”. Nella società greco-romana queste figure potevano talvolta anche salire la scala sociale fino a diventare potenti liberti, spesso amministratori con ampie responsabilità e libertà di manovra. L’uomo deve “partire per un paese lontano/apodēmōn”; probabilmente è un grosso commerciante, un imprenditore a livello internazionale. È possibile che la sua assenza si prolunghi per “molto tempo/polyn chronon”, senza pensare che i pericoli dei viaggi per mare e per terra potevano anche essere mortali per coloro che li intraprendevano.
Dando i numeri
L’“uomo” – chiamato in seguito “kyrios/signore/padrone” (vv. 18.19.21[bis].22.23[bis].24.26) – consegna con la massima fiducia il suo denaro ai suoi servi. Un talento corrispondeva a circa 26 o 34 chilogrammi d’argento e corrispondeva a 6.000 denari (la paga giornaliera di un operaio era dio un denaro). Al primo servo il padrone affida cinque talenti (la retribuzione di 82 anni lavorativi di 365 giorni), al secondo due (la paga di 32,8 anni lavorativi), al terzo il corrispettivo di 16,4 anni lavorativi. Ipotizzando € 30.000 per la retribuzione annua odierna di un impiegato, si arriva rispettivamente a € 2.460.000,00 per il primo servo, a € 984.000 per il secondo ed € 492.000 per il terzo. Ipotizzando invece una retribuzione annua odierna di € 50.000,00, si arriva a € 3.280.000,00 per il primo servo, € 1.312.000,00 per il secondo ed € 656.000 per il terzo. Sono cifre di tutto rispetto, pur nel loro alto grado di ipoteticità.
I primi due “lavorano/ērgazeto” il denaro affidato loro, guadagnando ciascuno il 100%, il doppio della somma di partenza.
Il terzo servo nasconde in una buca il denaro del suo signore. Modalità accettata a quei tempi come strategia legittima di custodia di un bene altrui, essa però non poteva recuperare l’eventuale perdita di valore dovuta all’inflazione che poteva intervenire nel frattempo.
Entra nella gioia
«Dopo molto tempo» arriva il momento del rendiconto chiesto dal “padrone dei servi/kyrios tōn doulōn”, da colui che aveva pieno potere di disporre delle loro vite e dei loro beni.
I primi due servi dichiarano rispettosamente al loro padrone il “guadagno ottenuto/kerdainō”, ricevono entrambi la lode di “servo buono/agathos e affidabile/fedele/pistos” e la promessa di un avanzamento di carriera davvero importante. Sopra di tutto, però, sono invitati a entrare nella stanza padronale costituita dalla “gioia” del loro padrone. Il padrone aveva affidato loro i suoi beni, andando loro incontro con massima fiducia; ora li invita a entrare nel suo intimo, nella gioia sua che “conterrà” anche le loro vite future.
Il terzo servo riconosce la signoria del padrone – che è anche un “uomo” –, ma rinfaccia a lui di essere un uomo “duro/esigente/sklēros” che richiede dei guadagni non fruttati direttamente dal suo lavoro. Ammette di aver agito “per paura/phobētheis” – e non orgoglioso della fiducia ricevuta – e ricorda la sua tattica prudente di custodia del bene affidatogli, legittima, ma “improduttiva”.
Egli riceve l’aspro rimprovero di essere un servo “malvagio/ponēros” e “timido/riluttante/pauroso/esitante/che si tira indietro/pigro/oknnēros”. Ha solo riportato la somma di partenza, diminuita dall’inflazione e senza gli interessi che un deposito in banca – altra strategia economica prudente di investimento –, che almeno avrebbe recuperato l’inflazione e fruttato degli interessi, pur non richiedendo alcun “impegno” personale del depositante. Privato del suo talento, il terzo servo viene licenziato in tronco e gettato nel luogo della perdizione definitiva/escatologica (buio e stridore di denti).
A chi ha sarà dato
Gli ultimi versetti del racconto contengono gli elementi parabolici “paradossali” che si distanziano dalla realtà ben presente agli ascoltatori e che fanno loro intuire che si sta parlando d’altro, della logica tipica del Regno dei cieli.
A Gesù non interessa certamente il lavoro ossessivo o gli investimenti a rischio e di alto rendimento, in vista di un guadagno rapido (l’usura non è del tutto esclusa neanche dall’operato dei primi due servi…).
Il talento “ricevuto/preso” dal terzo servo viene donato a chi possiede già dieci talenti, frutto del suo “lavoro”. E questo tratto paradossale viene spiegato da Gesù. Chi impegna la propria vita lavorando, mettendo a frutto i doni ricevuti, mettendoci la faccia, senza vivere sulla difensiva, arricchisce se stesso. A chi possiede, perché ha trafficato, si è messo in gioco, sarà donato da Dio in sovrabbondanza di vita buona e soddisfacente, che riempie il cuore.
We trust in God, ma non nel biglietto su cui c’è scritto… Non si tratta di soldi, ma di vita, di vita divina, di gioia del Padre del Signore/Kyrios Gesù risorto dai morti e tornato “dopo lungo tempo” a visitare il suo popolo a cui ha dato piena fiducia. Gesù non propone alcun criptocalvinismo e neppure considera la ricchezza ipso facto segno della benedizione divina, come in molti testi dell’Antico Testamento.
Gesù cerca la pienezza della gioia della nostra vita, ben impiegata e soddisfacente perché donata a se stessi e agli altri nell’impegno quotidiano, nella sfida agli eventi che si presentano, nel lavorio incessante contro il “tirarsi indietro” e il vivere “andando al minimo”, col freno a mano tirato.
È evidente che non occorre drogarsi per “andare al massimo” e così “vivere una vita spericolata”.
La vita fiorisce dal di dentro, dono affidato con fiducia da chi ci vuole bene.
La vita fiorisce donandola, “lavorandola”.
Cerchio la gioia? “Entra nella gioia del tuo Signore”, che è morto e risorto per te, perché tu abbia la vita e l’abbia in abbondanza (cf. Gv 10,10).
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