“Allora Pilato fece prendere Gesù e lo fece flagellare. E i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo e gli misero addosso un mantello di porpora; quindi gli venivano davanti e gli dicevano: Salve, re dei Giudei! E gli davano schiaffi” (Gv 19,1-3).
Come mai Gesù non reagisce, come aveva fatto quando era stato colpito dal servo del sommo sacerdote (Gv 18,23)?
L’intronizzazione di un re da burla era un gioco ben noto nell’antichità. Un prigioniero che dopo alcuni giorni doveva essere giustiziato veniva rivestito delle insegne regali e trattato da imperatore. Uno scherno crudele, messo in atto anche nei confronti di Gesù.
Nella scena descritta da Giovanni compaiono tutti gli elementi che caratterizzano l’intronizzazione di un imperatore: la corona, il mantello di porpora, le acclamazioni.
È la parodia della regalità e Gesù la accetta perché dimostra nel modo più esplicito qual è il suo giudizio sulle ostentazioni di potere e sulla ricerca della gloria di questo mondo. Ambire a sedersi su un trono per ricevere onori e inchini è per lui una farsa anche se, purtroppo, è la più comune e grottesca commedia recitata dagli uomini.
Nella scena conclusiva del processo (Gv 19,12-16), Pilato conduce fuori Gesù e lo pone a sedere su una tribuna elevata. È mezzogiorno e il sole è allo zenit quando di fronte a tutto il popolo Pilato, indicando Gesù coronato di spine e rivestito con il mantello di porpora, proclama: “Ecco il vostro re”. È il momento dell’intronizzazione, è la presentazione del sovrano del nuovo regno, del regno di Dio.
Per i Giudei la proposta è tanto assurda da apparire provocatoria. Reagiscono furiosi con un rifiuto indignato: “Via, via, crocifiggilo!” (Gv 19,15). Un re così non lo vogliono nemmeno vedere, delude ogni attesa, è un insulto al buon senso.
Gesù è lì, in alto, perché tutti lo possano contemplare, illuminato dal sole che brilla in tutto il suo splendore; è in silenzio, non aggiunge una parola perché ha già spiegato tutto. Attende che ognuno si pronunci e faccia la sua scelta.
Si può puntare sulle grandezze, sulle regalità di questo mondo oppure seguire lui, rinunciando a tutti i beni e preferendo la sconfitta per amore. Da questa scelta dipendono la riuscita o il fallimento di una vita.
Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Regna con Cristo chi diviene con lui servo dei fratelli”.
Prima Lettura (Dn 7,13-14)
13 Guardando ancora nelle visioni notturne,
ecco apparire, sulle nubi del cielo,
uno, simile ad un figlio di uomo;
giunse fino al vegliardo e fu presentato a lui,
14 che gli diede potere, gloria e regno;
tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano;
il suo potere è un potere eterno,
che non tramonta mai, e il suo regno è tale
che non sarà mai distrutto.
Il capitolo dal quale sono tratti i due versetti della lettura si apre con una drammatica visione notturna. Dall’oceano che, nell’antico Medio Oriente, era il simbolo del mondo ostile e del caos, emergono quattro enormi belve: un leone, un orso, un leopardo e una quarta bestia spaventosa, terribile, dalla forza eccezionale; stritola ogni cosa con i suoi denti di ferro (Dn 7,2-8).
Il linguaggio e le immagini sono apocalittiche; i riferimenti e le allusioni alla storia dei popoli vanno capiti.
Il simbolismo delle quattro fiere è spiegato dall’autore stesso (Dn 7,17-27). Rappresentano i quattro grandi imperi che si sono succeduti e che hanno oppresso il popolo di Dio. Il leone indica il regno sanguinario di Babilonia, la maledetta; l’orso è l’immagine del popolo della Media, vorace e sempre pronto ad aggredire; il leopardo con quattro teste è il simbolo dei persiani che scrutano in ogni direzione in cerca di preda; la quarta bestia, la più spaventosa, raffigura il regno di Alessandro Magno e dei suoi successori, i diadochi. Di questi, uno si presenta particolarmente sinistro, Antioco IV, il persecutore dei santi fedeli alla legge di Dio. Egli detiene il potere proprio nel tempo in cui è scritto il libro di Daniele.
La storia d’Israele è stata un susseguirsi di regni crudeli e impietosi con i deboli. Hanno violato i diritti dei popoli e si sono imposti con la violenza e la sopraffazione, si sono comportati da bestie.
Il mondo sarà sempre vittima di dominatori arroganti che fanno della forza il loro dio? Il Signore assisterà indifferente all’oppressione del suo popolo?
Al veggente è dato contemplare un’altra scena grandiosa: in cielo vengono collocati dei troni e un vegliardo, che rappresenta lo stesso Dio, si asside per il giudizio e pronuncia la sentenza: alle bestie viene tolto il potere e l’ultima viene uccisa, fatta a pezzi e gettata nel fuoco (Dn 7,9-12). Poi cosa accade?
È a questo punto che si inserisce il brano della nostra lettura. Daniele continua la sua rivelazione: “Guardando nelle visioni notturne, ecco apparire, con le nubi del cielo, uno simile ad un figlio d’uomo” al quale il vegliardo, Dio, affida il potere, la gloria ed il regno.
Figlio d’uomo è un’espressione ebraica che significa semplicemente uomo. Dopo tante bestie, ecco finalmente comparire un uomo. L’uomo è immagine di Dio e la sua vocazione è quella di dominare gli animali (Gn 1,28; Sl 8,7-9).
Chi è costui? Chi rappresenta?
Non viene dal mare come i quattro mostri, ma dal cielo, cioè da Dio. L’autore del libro di Daniele non si riferiva a un singolo individuo, ma a Israele che, dopo la grande tribolazione affrontata sotto Antioco IV, avrebbe ricevuto da Dio un regno eterno, un regno che non sarebbe mai tramontato. Tutti gli altri popoli gli sarebbero stati sottomessi, senza essere oppressi, perché il suo re avrebbe avuto un cuore d’uomo.
Con questa profezia, scritta durante la persecuzione dell’empio Antioco IV (167-164 a.C.), l’autore voleva infondere coraggio e speranza nelle persone pie del suo popolo. L’oppressione era ormai alla fine; ancora pochi anni e Dio avrebbe consegnato a Israele il dominio del mondo.
Quando si è compiuta questa profezia?
Dopo due o tre anni, Israele conquistò infatti l’indipendenza politica. Era dunque giunto il regno del “figlio d’uomo”?
Come sempre accade quando l’autorità è intesa come potere e dominio, anche i nuovi liberatori, i Maccabei, si trasformarono presto in oppressori e sfruttatori.
La profezia si è compiuta solo con l’avvento di Gesù, il “figlio d’uomo” che ha dato inizio al regno dei santi dell’Altissimo (Mc 14,62). Tutti i regni che si sono susseguiti prima di lui si sono ispirati al medesimo brutale principio: la competizione. Il forte ha soggiogato il debole, il ricco si è imposto al povero, il più capace ha asservito il meno dotato. Nuovi dominatori si sono installati al posto dei loro predecessori, senza rendere più umana la convivenza dei popoli, anzi peggiorandola, perché pensieri e sentimenti rimanevano identici: voracità, crudeltà e sopraffazione.
Gesù ha interrotto per sempre il susseguirsi di questi imperi feroci, ha capovolto i valori ponendo al vertice non il potere, ma il servizio. Ha introdotto un criterio nuovo, quello del cuore d’uomo, che è l’opposto del cuore crudele delle belve.
Raccontavano i rabbini che, in una notte oscura, un uomo accese una lampada, ma il vento la spense. La accese una seconda volta e poi una terza, ma di nuovo fu spenta. Allora disse: aspetterò che sorga il sole. Allo stesso modo Israele fu salvato dall’Egitto, ma la sua libertà fu spenta dai babilonesi; venne salvato di nuovo, ma fu subito oppresso dai medi, dai persiani e dai greci. Allora disse: attenderò il sole, il regno del messia.
Gli ebrei stanno ancora aspettando che sorga questa luce. Anche noi la attendiamo perché ancora non brilla in tutto il suo splendore, ma sappiamo che è già sorta: è Gesù di Nazareth, il cui regno “è come la luce dell’alba, che va aumentando in splendore fino a quando è giorno pieno” (Pr 4,18).
Seconda Lettura (Ap 1,5-8)
5 Gesù Cristo è il testimone fedele, il primogenito dei morti e il principe dei re della terra.
A Colui che ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, 6 che ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre, a lui la gloria e la potenza nei secoli dei secoli. Amen.
7 Ecco, viene sulle nubi e ognuno lo vedrà;
anche quelli che lo trafissero
e tutte le nazioni della terra si batteranno per lui il petto.
Sì, Amen!
8 Io sono l’Alfa e l’Omega, dice il Signore Dio, Colui che è, che era e che viene, l’Onnipotente!
Da Patmos, una minuscola isola dell’Egeo, un cristiano esiliato “a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù Cristo” (Ap 1,9) scrive a sette chiese dell’Asia Minore, scosse dalla persecuzione scatenata da Domiziano, per esortarle alla perseveranza nella fede.
Il nostro brano, tolto dal prologo delle sette lettere che costiuiscono la prima parte del libro dell’Apocalisse, esordisce con un riferimento a Gesù cui sono attribuiti quattro titoli significativi: Cristo, testimone fedele, primogenito dei morti, principe dei re della terra (v. 5).
Oggi ci interessa soprattutto l’ultimo, principe dei re della terra, perché è l’invito a valutare con occhi nuovi la storia del mondo. Tutti guardavano all’imperatore di Roma come all’arbitro dei destini dei popoli, all’uomo onnipotente che si spacciava per dio e riempiva delle sue statue tutto l’impero. Invece non era lui a reggere le sorti del mondo: egli era sottoposto a un sovrano superiore, a Cristo cui il Padre aveva consegnato il regno che nessuno mai potrà distruggere.
La potenza di un impero si valuta anzitutto dalle dimensioni del territorio su cui si estende. Il regno di Cristo non occupa alcuno spazio geografico, non si basa su dimostrazioni di forza e non consiste nel dominio. I membri di questo regno non sono né soldati, né schiavi, né sudditi, ma sacerdoti (v. 6) chiamati a offrire, con la loro vita, sacrifici graditi a Dio, cioè opere di amore. È questo l’unico ordine che ricevono dal loro re.
Ogni gesto di generosità che compiono è un esercizio del loro sacerdozio. Quando sono perseguitati a causa della loro fedeltà al vangelo, offrono a Dio il più gradito dei sacrifici: l’amore eroico verso quegli stessi carnefici che li fanno ingiustamente soffrire e li mettono a morte.
L’autore invita le comunità cristiane dell’Asia Minore, inclini a scoraggiarsi a causa della persecuzione, a puntare lo sguardo verso il Signore che viene (v. 7). La sua vittoria è assicurata e ognuno la vedrà, anche se il suo trionfo non sarà di quelli che gli uomini si attendono: non umilierà i suoi nemici, non condannerà coloro che lo hanno trafitto, ma li vincerà convertendo il loro cuore. Tutti riconosceranno il loro peccato e si convertiranno al suo amore. È questa l’unica vittoria che le comunità cristiane devono attendersi.
Alla fine del brano (v. 8) Dio appone la sua firma alle affermazioni del veggente dell’Apocalisse, presentandosi come l’Alfa e l’Omega. L’immagine della prima e dell’ultima lettera dell’alfabeto greco è una felice trasposizione nella cultura ellenistica dell’affermazione biblica: “Io sono il primo e l’ultimo; fuori di me non vi sono dèi” (Is 44, 6). La storia del mondo è una vicenda intermedia: tutto parte da Dio e tutto ritorna a lui. Ai suoi occhi il potere degli imperatori di Roma è un breve interludio, anche se ai cristiani pare tanto doloroso e interminabile.
Vangelo (Gv 18,33-37)
In quel tempo 33 disse Pilato a Gesù: “Tu sei il re dei giudei?”.
34 Gesù rispose: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”.
35 Pilato rispose: “Sono io forse giudeo? La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?”.
36 Rispose Gesù: “Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai giudei; ma il mio regno non è di quaggiù”.
37 Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”.
Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce”.
Nella parte più alta della città di Gerusalemme, in quello che era stato il palazzo del re Erode il grande, Pilato aveva stabilito il suo pretorio. Lì, all’alba della vigilia della Pasqua ebraica, i giudei condussero Gesù con l’accusa di essere un malfattore.
È all’interno di questo pretorio che ha luogo il dialogo riferito nel nostro brano. La questione che viene formulata fin dalla prima domanda che il procuratore rivolge a Gesù è delle più delicate: “Tu sei il re dei giudei?”.
Da quando nel 63 a.C. Pompeo aveva conquistato Gerusalemme e assoggettato la Giudea al dominio romano, nelle sinagoghe si era cominciato a recitare un salmo, composto da un rabbino imbevuto del pensiero biblico: “Signore, tu sei nostro re. La regalità del nostro Dio è eterna su tutte le nazioni. Tu hai scelto Davide come re d’Israele e hai giurato che la sua discendenza non si sarebbe mai estinta davanti a te. Ora, a causa dei nostri peccati, i peccatori si sono innalzati contro di noi. Guarda, Signore, e suscita un figlio di Davide, nel tempo che tu hai stabilito, per regnare su Israele” (PsSal 17).
Era un esplicito rifiuto della potenza straniera.
Velleitari tentativi di rimettere in discussione il potere romano erano stati abbozzati fin dal 4 a.C., dopo la morte di Erode. In Perea si era ribellato Simone, uno schiavo di corte che, dopo aver incendiato i palazzi di Gerico, aveva fatto scorrerie in tutto il regno. In Giudea, Atronge, un pastore dalla statura gigantesca aveva inflitto pesanti perdite all’esercito romano. Infine, al tempo del censimento di Quirinio (6 d.C.), Giuda il galileo, ricordato anche nel libro degli Atti (At 5,37), aveva iniziato un’altra sedizione a Sefforis, vicino a Nazaret, incitando il popolo a non pagare il tributo a Cesare.
Tutte queste rivolte erano state soffocate nel sangue. Così, dal 6 al 36 d.C., la Giudea conobbe un periodo di tranquillità sotto l’autorità dei prefetti di Roma. I movimenti rivoluzionari, fra i quali il celebre partito degli zeloti, comparvero solo in seguito, verso la metà degli anni 40 d.C., quando Roma compì l’insensatezza di inviare in Palestina procuratori crudeli e corrotti.
Anche in un periodo di relativa calma come quello in cui governò Pilato (26-36 d.C.), l’accusa di risvegliare sopite speranze nazionaliste e il sospetto di voler restaurare la monarchia davidica risultavano estremamente pericolosi.
In questo contesto storico va collocato il dialogo sulla regalità intercorso fra Gesù e Pilato.
La prima domanda del procuratore – Tu sei il re dei giudei? – mira a puntualizzare l’accusa e rivela la perplessità di Pilato che si ritrova davanti un uomo solo, disarmato, senza soldati che lo possano difendere, che è stato abbandonato dai suoi stessi amici e schiaffeggiato da un servo di Anna. Non pare proprio il tipo capace di mettere in pericolo il potere di Roma.
Gesù risponde con una controdomanda, per costringere il procuratore a prendersi le sue responsabilità: “Dici questo da te oppure altri te l’hanno detto sul mio conto?”, cioè: hai qualche ragione per ritenermi un sedizioso, oppure stai dando retta a chiacchiere? Non ti è stata riferita la mia reazione al tentativo di un mio discepolo di mettere mano alla spada (Gv 18,10-11)?
La replica di Pilato è quasi risentita: “Sono io forse giudeo?”, cioè: io sono un funzionario romano e amministro la giustizia in modo autonomo. Poi continua: “La tua gente e i sommi sacerdoti ti hanno consegnato a me; che cosa hai fatto?” (v. 35).
È a questo punto che il tema della regalità di Cristo entra nel vivo.
Gesù cerca di aiutare il procuratore a capire: “Il mio regno non è di questo mondo” (v. 36).
Pilato conosce solo i regni di questo mondo. Se qualcuno gli parla del regno di Tiberio, subito pensa all’immenso territorio sul quale l’imperatore estende il suo dominio, oppure al tempo, agli anni in cui ha regnato, oppure ancora all’autorità sovrana che egli esercita. Ha in mente anche le caratteristiche ben definite dei regni di questo mondo: sono portati avanti da uomini mossi dall’ambizione, si basano sull’uso della forza e del denaro, vanno difesi con le armi, il forte si impone e comanda e i sudditi devono stare sottomessi e obbedire.
Quello di Gesù non ha nulla in comune con questi regni. Egli non uccide nessuno, va lui a morire; non comanda sugli altri, obbedisce; non si allea con i grandi e i potenti, si mette dalla parte degli ultimi, di coloro che non contano nulla. Per gli uomini possedere, conquistare, sterminare sono segni di forza, per Gesù sono indici di debolezza e di sconfitta. Per lui grande è colui che serve.
Pilato non capisce di che cosa Gesù stia parlando; riesce solo a fargli una domanda generica: “Dunque tu sei re?” (v. 37).
Gesù ha sempre reagito con durezza con chi ha tentato di farlo aderire a una regalità di questo mondo; fin dall’inizio l’ha considerata una proposta diabolica (Mt 4,8-10). Ha deluso le attese messianiche dei suoi discepoli, è fuggito quando il popolo lo voleva proclamare re (Gv 6,15). Ora invece che è sconfitto e ha le ore contate, ora che non c’è più alcuna possibilità di equivoco, di fronte al rappresentante del mondo pagano, proclama solennemente: “Sì, sono re”.
Poi spiega: “Sono venuto nel mondo per rendere testimonianza alla verità” (v. 37). Non per insegnare delle verità, come facevano i saggi, ma per testimoniare la verità.
Per i filosofi greci la verità era la scoperta dell’essenza delle cose, indicava la caduta di ogni velo, di ogni segreto sul senso del loro esistere. Legata a questa verità filosofica c’era la verità storica che consisteva nel raccontare in modo oggettivo, nel riferire i fatti esattamente com’erano accaduti.
Diverso è il modo di intendere la verità da parte degli ebrei. Nella Bibbia verità è fedeltà alla parola data, è stabilità e perseveranza, è ciò o è colui di cui ci si può fidare. Dio è verità perché non si smentisce mai, mantiene le promesse fatte, è animato da un amore che nulla e nessuno riuscirà mai a incrinare (Es 34,6).
Per un ebreo la verità non è qualcosa di logico, ma di concreto, è ciò che avviene nella storia.
Per consolare e illuminare il veggente del libro di Daniele, turbato dagli eventi drammatici della storia del suo popolo, il Signore gli rivela ciò che è scritto nel “libro della verità” (Dn 10,21). È un’immagine per indicare che Dio gli ha manifestato il progetto di salvezza che sta per mettere in atto.
Verità sono i disegni di amore del Signore; conoscere la verità significa capire questi disegni e lasciarsi coinvolgere nella loro realizzazione.
Gesù è venuto a rendere testimonianza alla verità, perché incarna il progetto di Dio, lo porta a compimento, per questo è la verità (Gv 14,6). Con la sua presenza nel mondo, con tutta la sua vita spesa per amore, dimostra la fedeltà del Signore al suo patto con l’uomo.
Ora dovrebbero risultare più chiare molte espressioni usate da Giovanni. Fare la verità (Gv 3,21) e camminare nella verità (2 Gv 4) indicano l’adesione a Cristo con tutta la propria vita; lo Spirito della verità (Gv 14,17; 15,26; 16,13) è l’impulso divino che, dopo aver introdotto nel progetto di Dio, dà la forza di mantenersi fedeli; la verità rende liberi (Gv 8,32) perché solo chi conduce una vita conforme al vangelo è realmente libero, chi se ne scosta diviene schiavo delle proprie passioni e dei propri idoli.
Gesù conclude la spiegazione sul suo regno dichiarando: “Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce” (v. 37) e Pilato, che capisce sempre meno, gli risponde: “Cos’è questa storia della verità?”.
Al procuratore non interessa la persona di Gesù, ma sapere se costituisce o no una minaccia per il potere di Roma. È refrattario al progetto di Dio, pensa al regno di questo mondo, non alla verità. Insensibile alla voce di Gesù e stanco di udire parole per lui senza senso, interrompe il dialogo.
È il simbolo del mondo incredulo che si rifiuta di ascoltare la parola di verità: non trova in essa alcun motivo di condanna, ma non ha il coraggio di prendere posizione e finisce per cedere a scelte di morte.
Non è però sulla decisione del procuratore romano di consegnare Gesù per essere crocifisso che cala il sipario sul dramma della regalità. Sul patibolo Pilato fece porre un’iscrizione in tre lingue: in ebraico, latino e greco, perché fosse letta e capita da tutti: “Gesù il nazareno, il re dei giudei” (Gv 19,19).
Senza rendersene conto, il rappresentante del più potente regno di questo mondo riconosceva, in modo ufficiale, la regalità di Gesù. Quando i sommi sacerdoti protestarono chiedendogli che la rettificasse, dichiarò che quella dichiarazione era irreversibile: “Ciò che ho scritto rimane scritto” (Gv 19,22). Lui, il depositario dell’autorità dell’imperatore, non la poteva modificare: la vittoria degli sconfitti era iniziata con il loro re innalzato sulla croce. Nessun regno di questo mondo era ormai più in grado di arrestarne l’avanzata.
Questa è stata la grande sorpresa di Dio.