Bibbia e laicità

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Bruno Maggioni (1932-2020) è stato dal 1955 sacerdote della diocesi di Como. Ha studiato teologia e scienze bibliche all’Università Gregoriana e al Pontificio Istituto Biblico di Roma. È stato docente di Esegesi del Nuovo Testamento alla Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale di Milano e di Introduzione alla teologia presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore (cf. qui il nostro profilo). Riprendiamo qui una sua lunga riflessione sulla fondazione biblica della laicità pubblicata nel 1977 sulla rivista Vita e Pensiero (fascicolo 5-6), riproposta dal quindicinale online della rivista Vita e Pensiero VPlus 76 (2020).

leviatano

Illustrazione di Gregorio Giannotta

Parlare di laicità significa toccare un tema che coinvolge innumerevoli problemi e si apre in varie direzioni. È comunque un discorso che – da qualsiasi parte lo si affronti – ci porta al cuore di molti dibattiti attuali (e di non poche lacerazioni).

Una lettura biblica alla ricerca del fondamento e del senso della laicità è particolarmente delicata. Anzitutto non può pretendere di essere un discorso concluso: deve necessariamente rimanere aperto della tradizione della Chiesa e alla riflessione teologica. E poi si deve riconoscere che la Bibbia non fa in proposito un discorso completamente omogeneo. Vi si scorgono tendenze differenti, per esempio un alternarsi di tendenze secolarizzanti e sacralizzante. La Bibbia è testimone di una storia di salvezza e di peccato, è progetto di Dio e condizionamento culturale. Come allora leggerla?

Due sono i pericoli da evitare: quello di unificare la frammentarietà e la non omogeneità dei dati biblici in una sintesi preconcetta, e quello di leggerli alla luce di tradizioni successive e consolidate. E tuttavia – a meno di ridurre a una mera rilevazione di dati – valutazione e sintesi si impongono. Non si può sottrarre, in altre parole, allo sforzo di valutare il discorso biblico dall’interno, scoprire le radici e le tendenze prevalenti, distinguerne i germi in via di estinzione e quelli ricchi di futuro. È quanto vogliamo fare, ma non è senza rischio.

È chiaro che non ci poniamo sul piano dell’analisi esegetica (è però supposta), ma sul piano della teologia biblica: non prevale l’analisi, ma la sintesi, la valutazione globale, e si suppone l’unità della intera Bibbia.

Domande e perplessità

Parlare di laicità significa, anzitutto, interrogare sul ruolo e sulla responsabilità di tutti (e non solo dei sacerdoti) nella vita e nella gestione della comunità. Ma significa anche interrogarsi sul senso del mondo, della storia, della convivenza, della politica, del lavoro.

Il laico pone il problema del senso del mondo in ordine alla salvezza. Questo nostro tentativo di descrivere il laico secondo due direzioni – una rivolta alla comunità e l’altra rivolta al mondo – non è un semplice espediente didattico: è partire, dal fondo, da quel modulo semplice ed elementare che definisce la Chiesa: una comunità inviata al mondo.

In concreto – premesso che lo studio semantico del vocabolo «laico» non dà molto frutto – poniamo alla Bibbia tre domande: sulla concezione del sacerdozio, sul sacro e il profano, sul senso della mondanità. A noi sembrano domande pertinenti, sia nei confronti della Bibbia che del nostro tema, e capaci di condurci progressivamente a quella intuizione – per altro assai semplice – nella quale la Bibbia pone il fondamento della laicità.

Abbiamo detto che intendiamo porre alla Bibbia delle domande pertinenti. Ma non ci nascondiamo una perplessità. Interroghiamo la Bibbia sull’autonomia delle realtà profane, sulla consistenza propria e sul valore specifico della creazione, sulla concreta relazione tra la storia profana e la storia di salvezza.

Ma si tratta davvero di domande pertinenti? O non piuttosto di una preoccupazione moderna, non biblica? Si pensi, ad esempio, alla ripetuta affermazione biblica del primato di Dio e della sua signoria a cui nulla è sottratto, alla tensione escatologica che invita a superare il piano della storia e della condizione presente, alla rinuncia per la sequela, al radicalismo evangelico e così via.

Sono senza dubbio filoni da prendere molto sul serio, non sono periferici. Ed è proprio a partire da questi filoni che una certa lettura della Bibbia – favorita da precisi contesti culturali e spirituali – ha condotto a una sorta di «imperialismo religioso», che esige il massimo per Dio e il minimo per l’uomo, fino a ridurre quest’ultimo alla minima dimensione possibile. Ma a questo si è giunti non in forza di una corretta lettura, bensì in forza di una interpretazione del primato di Dio estranea allo spirito biblico. È quanto vogliamo mostrare.

Nessuna meraviglia poi se alcuni passi biblici soltanto ora (in un tempo cioè in cui determinati interessi si impongono con urgenza) sembrano svelare tutto il significato di cui sono imbevuti, significato che prima rimaneva come nascosto e inutilizzato. La comprensione della Bibbia nella Chiesa è soggetta a un continuo processo di crescita.

Un sacerdozio nuovo

Parlare di laicità significa, come abbiamo già detto, definire il ruolo e la responsabilità dei laici nella gestione della comunità cristiana e nella partecipazione alla missione.

Il problema è oggi affrontato soprattutto nel dibattito intorno ai ministeri. Il Nuovo Testamento rivela una sorprendente varietà di ministeri: varietà di vocabolario, di forme, di contenuti e di regolamentazione. I ministeri si presentano come una realtà aperta: la loro evoluzione e le loro concrete modalità sono legate – in gran parte – alle condizioni storiche, alle esigenze delle comunità e dell’ambiente in cui operavano. All’interno delle varietà sopra accennate si nota però una evidente concentrazione dei ministeri intorno alla Parola e alla fraternità. Molto scarsi i servizi esplicitamente riferiti al culto.

Ma non vogliamo ora entrare nella complessa problematica biblica dei ministeri: ci porterebbe troppo lontano. Possono bastarci alcuni rilievi. Il primo è che – stando alla comprensione che le comunità del Nuovo Testamento avevano di se stesse – la diversità dei ruoli (compreso il sacerdozio) nasce sulla base di una fondamentale uguaglianza e di una comune corresponsabilità. Le diverse articolazioni esprimono la comune appartenenza al Regno e la comune corresponsabilità nella missione, e ne sono al servizio.

Due sono le immagini ecclesiologiche che il Nuovo Testamento predilige: popolo di Dio e corpo di Cristo. La prima abolisce le differenze (l’appartenenza al Regno si misura sulla fede, non su altro), la seconda le fa riemergere, ma non più come differenze «carnali» bensì «spirituali» (diversità di funzioni, non di appartenenza o di dignità). Potremmo prendere come punti di riferimento Gal 3,28 e 1 Cor 12; 14-30.

In sostanza il Nuovo Testamento rivela una mentalità molto diversa da quella oggi prevalente: servizi e ruoli non erano visti a partire dal ministero sacerdotale e quasi come suo prolungamento, chiedendosi quali spazi esso lasci liberi. Nulla di tutto questo. Si partiva invece dalla comunità, dalla comune corresponsabilità, dalla comune partecipazione alla missione, e dalle esigenze storiche concrete.

Ecco perché, alle volte, la realizzazione dei servizi è affidata all’intera comunità e nel contempo a persone particolari.

Una prospettiva diversa

Ed eccoci al secondo rilievo: il sacerdozio del Nuovo Testamento (che non è anzitutto riferito ai ministri ordinati, ma al Cristo e all’intero popolo di Dio) non è nella linea della separazione, della sottrazione al profano, ma nella linea della incarnazione, della assunzione delle realtà, della santificazione della vita intera.

Leggendo il Nuovo Testamento si ha una sorpresa: il vocabolario sacerdotale è quasi completamente assente. La parola sacerdote – ad esempio, è usata per indicare i sacerdoti dell’Antico Testamento e, una volta (At 14,13), i sacerdoti pagani. Applicata a realtà cristiane è usata per il sacerdozio di Gesù (lettera agli Ebrei) e per il sacerdozio della Chiesa (1 Pt 2,1-9): mai per indicare il sacerdozio dei ministri.

Questa assenza di vocabolario sacerdotale è troppo costante per non essere intenzionale. La Chiesa primitiva capì molto bene che il vocabolario sacerdotale non poteva essere applicato senza equi voci alle realtà cristiane, perché il sacerdozio cristiano si colloca in una prospettiva nuova.

È qui che interviene coraggiosamente l’autore della lettera agli Ebrei. Egli usa il vocabolario sacerdotale, purificandolo dal suo contenuto rituale. La storia di Gesù è letta per la prima volta in chiave sacerdotale. Ma non è la vicenda di Gesù che è capita partendo dalle categorie sacerdotali giudaiche: è invece il concetto di sacerdozio che viene modificato partendo da Gesù.

«Assimilato in tutto ai fratelli»

La prima e fondamentale originalità – in contrapposizione al sacerdozio dell’Antico Testamento (e ancor più rispetto al sacerdozio pagano) – deriva dal mistero della persona di Gesù, dalla posizione unica e originale in cui Cristo viene a trovarsi in rapporto al Padre e in rapporto agli uomini.

Tra Gesù e gli altri uomini suoi fratelli vi è un legame ben più profondo di quello che permetteva agli antichi sacerdoti giudei di esercitare la loro mediazione cultuale. Tra Gesù e il Padre c’è un rapporto ben più intimo di quello che potevano avere gli antichi depositari della funzione sacerdotale. In Gesù si è manifestata una presenza di Dio che non vanifica la solidarietà con gli uomini. Anzi, proprio perché figlio di Dio Gesù è anche figlio dell’uomo, nostro fratello.

È da questa precisazione che deriva la novità più rivoluzionaria del sacerdozio di Cristo (e della Chiesa). Il sacerdozio non si vive nella linea della separazione – a meno che con questo non si intenda la separazione dal peccato e una maggiore disponibilità al servizio – bensì nella linea della solidarietà. La mediazione fra Dio e l’uomo avviene nella linea della incarnazione e della condivisione.

Un passo della lettera agli Ebrei (2,17-19) è in proposito molto chiaro: «Gesù doveva essere assimilato in tutto ai fratelli, per divenire sommo sacerdote misericordioso e fedele nelle cose riguardanti Dio, allo scopo di espiare i peccati del popolo. Appunto perché egli stesso ha patito nel venir sottoposto alla tentazione, è in grado di soccorrere coloro che vengono provati».

Ministeri

Oltre le due annotazioni che abbiamo fatto, si possono facilmente ricavare dal Nuovo Testamento altre osservazioni, tutte di qualche utilità per il nostro discorso, persino provocatorie se si fa un confronto fra le situazioni delle comunità neotestamentale e la nostra situazione ecclesiale.

È chiara nel Nuovo Testamento la coscienza che i servizi sono fra loro complementari: nessuno è esaustivo e totalizzante, neppure quello apostolico. Il pensiero è particolarmente caro a Paolo (1Cor 12). La varietà dei ministeri (e quindi anche i ministeri laicali) e la loro corretta valutazione sono possibili soltanto in una Chiesa aperta su tutto l’arco della evangelizzazione: dal momento liturgico all’annuncio, alla fraternità, all’impegno nel mondo.

Doni e servizi sono molti, ma rientrano tutti nella categoria del «servizio». È una categoria ampia, aperta a differenti modalità concrete. Non è però generica, perché fa sempre riferimento al servizio di Gesù di Nazaret, da cui mutua il suo preciso contenuto. Solo in una comunità che si concepisce a servizio – a servizio del mondo (e non a parole, ma in concreto) – a imitazione di Gesù Cristo, c’è posto per la varietà dei servizi, per la reciproca e gioiosa accoglienza ·e per la comune corresponsabilità: altrimenti, c’è posto soltanto per la difesa gelosa del proprio spazio.

Dio è nel quotidiano

Ma la laicità non può ridursi al fatto che i laici partecipano al sacerdozio della Chiesa e hanno voce e corresponsabilità nella gestione della comunità. Tanto meno avrebbe senso privilegiare eccessivamente (non così nel Nuovo Testamento!) i ministeri cultuali, credendo che in questi consista anzitutto la promozione del laicato. Il laico si definisce per la sua indole secolare, per la sua piena assunzione della realtà mondana. È il valore della realtà mondana che dunque deve essere compreso, e una prima indicazione e può venire dal modo con cui la Bibbia intende il «sacro».

Il sacro nasce dal fatto che la nostra esperienza del divino è mediata, costretta cioè a passare attraverso qualcosa che non è Dio (e questo qualcosa – perciò – diventa evocatore del divino, diventa – appunto – sacro, separato, diverso).

Tale realtà – proprio perché evoca il divino, il santo – viene rivestita di alcune di quelle qualità che l’uomo attribuisce al divino; inoltre l’uomo si pone – di fronte ad essa – con quegli atteggiamenti che ritiene doverosi verso Dio: rispetto, venerazione, timore, interdizione per l’uso profano.

È significativo – a questo proposito – il racconto del sogno di Giacobbe a Betel (Gen 28,10-19): l’episodio vuoi certo significare che il Dio della salvezza non è prigioniero di un luogo sacro specifico e può incontrare l’uomo dovunque. Però il medesimo racconto spiega anche perché un luogo diventa sacro: l’uomo considera sacro il luogo dove avvenne la sua esperienza del divino: «Certo il Signore è in questo luogo e io non lo sapevo!». E preso dal timore, Giacobbe aggiunse: «Quanto è degno di venerazione questo luogo. È la casa di Dio e la porta del cielo».

Il sacro “superato”

Il sacro è, dunque, un per intanto (in attesa dell’esperienza diretta di Dio), una mediazione che evoca il divino, ma che non deve assolutamente sostituirsi ad esso e oscurarlo. È importante perciò – e la Bibbia l’ha capito molto bene – che il sacro sia ridotto all’essenziale (occorre una costante attenzione a semplificare il sacro: luoghi, tempi, riti) e che rimanga sempre in posizione di mezzo, al suo posto (‘occorre una costante vigilanza a relativizzare il sacro).

Il pericolo che il sacro si sostituisca a Dio è tutt’altro che irreale. La Bibbia assicura che una simile tentazione accompagnò tutta l’esperienza religiosa di Israele. Di fronte a questa tentazione i profeti prima e Gesù poi (ma non solo) hanno proclamato che il sacro è a servizio dell’incontro con Dio che ha creato il profano e ama l’uomo e il mondo.

Per questo i profeti non si accontentano di ricordare che il culto non deve mai oscurare il volto del vero Dio: ricordano anche – e con altrettanta forza – che il culto non deve oscurare il volto dell’uomo. I profeti hanno sempre costretto il pio ebreo a ricordarsi che nel Tempio abita un Dio molto interessato a ciò che succede fuori: egli esige la realizzazione incondizionata del diritto e della giustizia (Am 5,21 ss.; Is 1,10ss.; Ger 7,1ss.).

Sebbene nella Bibbia si noti un alternarsi di tendenze secolarizzanti e sacralizzanti (e questo ha il merito di ricordare che il pericolo viene da due parti: non solo la sacralizzazione ma anche il secolarismo), è innegabile che la tendenza di fondo – in linea per altro con il nucleo più originale dell’esperienza religiosa biblica – è quella di superare il sacro (tempi, luoghi e culto) come zona separata, sottratta al profano.

Il dinamismo di fondo che ha spinto Israele – man mano che ne prendeva coscienza – a rompere l’involucro del sacro è la fede in Jahvé come Dio della storia. La signoria di Dio abbraccia tutto l’uomo e la vita. Non c’è sacro come luogo separato ed esclusivo del divino, e non esiste profano come luogo in cui Dio è assente e al quale è disinteressato. Tempio, sabato e culto rimangono, ma sono indirizzati alla vita: sono segnali che ricordano il senso profondo che la vita e la storia racchiudono (e che l’uomo rischia sempre di dimenticare).

Riflessione (biblica) sapienziale

Queste nostre brevi riflessioni intorno al sacerdozio neotestamentario e intorno al modo con cui la Bibbia concepisce il sacro ci orientano verso un atteggiamento di accettazione della realtà mondana. Ma questo non ci ha ancora condotto al cuore del problema. Un aiuto ci viene dal filone sapienziale, che accompagna tutta l’esperienza religiosa di Israele e testimonia una prassi di coraggiosa e sana laicità.

È molto interessante osservare che la Bibbia – accanto all’ascolto esplicito della Parola – conosce l’ascolto delle cose, dell’uomo, della storia, dell’esperienza e della ragione. Tutto questo appare con particolare intensità, appunto, nella riflessione sapienziale. I sapienti sono laici e la loro ricerca è secolare. Procedono nel mondo dell’esperienza e della storia, ma sono anche profondi conoscitori del cammino della fede. La sapienza non riflette (ed è la sua prima caratteristica) sulla «storia di Jahvé con Israele», ma su temi che oggi diremmo profani, come la professione, la convivenza, la società e la politica: «sono rivolti alla conoscenza di ciò che è vicino, ben noto, quotidiano che tutti conoscono e che nessuno approfondisce».

La sapienza si muove dichiaratamente dentro l’orizzonte della creazione e la sua teologia è una teologia della creazione. Inutile dire che la sapienza non è però una ricerca «profana», se con questo si intende una ricerca sciolta da ogni legame con Dio. Al contrario c’è in essa una profonda visione religiosa. Ma lo scopo della sapienza è la conquista del mondo per l’uomo: non solo conoscenza del mondo, non solo ricerca di competenza professionale (l’ideale dei saggi è fare le cose con competenza e successo!), ma anche (e soprattutto) dimensione politica e visione etica.

Presupposto della sapienza è, ovviamente, che l’uomo ha una sfera di autonomia nell’ambito della creazione. Nel loro sforzo di conoscenza e di appropriazione del mondo, i sapienti non si affidano direttamente alla rivelazione (anche se, lo ripetiamo, sono convinti credenti), ma alla ragione, all’esperienza e al dialogo.

Il loro metodo è diverso da quello dei profeti: non discendono dalla Parola alla vita, riflettendo cioè sui gesti compiuti da Jahvé in seno ad Israele. Si sforzano piuttosto di leggere il mondo, la storia e l’esperienza. È un procedimento laico. La sapienza considera il mondo come una realtà profana, senza veli mitici: ci si può impadronire dei suoi misteri in maniera razionale e scientifica.

La religione dei sapienti

Due sono gli elementi che caratterizzano la struttura sapienziale: considerare l’uomo, anzitutto, non come figlio di Israele, ma come «uomo» (nell’ordine della creazione) e considerarlo come un uomo che deve dirigere la sua vita con l’osservazione e l’esperienza (non sempre immediatamente e unicamente appellandosi alla rivelazione).

Oltre all’ambito e al metodo, possiamo definire laica anche l’intenzione di «universalità» dei sapienti, il loro sforzo di costruire una piattaforma comune di «sapienzialità» intorno alla quale tutti gli uomini di buona volontà possono convenire. I sapienti tendono a un dialogo che va oltre i confini di Israele. E per lo più essi non si impongono con il comando autoritativo, con imperativi apodittici, ma piuttosto col convincimento, il consiglio, la motivazione: la sapienza ricerca il consenso.

I sapienti si preoccupano di come l’uomo debba usare la ragione con i suoi simili e nelle circostanze della vita, e questo è senza dubbio una preoccupazione laica e secolare. Ma anche profondamente religiosa, come appare da molteplici aspetti. La sapienza non deduce da una fede, però la trasmette come un patrimonio di esperienza e sa che la religione è una delle realtà più essenziali per l’uomo. E poi l’indagine dei sapienti non pretende raggiungere tutto, e non vuole sostituire (o annullare) la rivelazione. Si imbatte nel mistero e lo riconosce (pensiamo, ad esempio, a Proverbi 30,1-6). Si direbbe, anzi, che uno dei loro compiti sia proprio quello di demolire le false sicurezze, non importa se fondate su pretese teologiche o razionali.

Accettando con lucidità e realismo la storia e l’esperienza – e lasciandosi da essa mettere in questione – essi giungono a demolire vecchie costruzioni teologiche e false immagini di Dio (Giobbe e Qohelet), ma anche questa operazione – senza dubbio secolare e demitizzante – non sfocia nella negazione, bensì in una fede più autentica.

Questi sapienti non considerano la loro ricerca come una «prova di forza», ma come un’autentica interpretazione, un ascolto, alla scoperta di un ordine che è da decifrare e che si ritiene salvifico. È dunque un atteggiamento laico e religioso, ed è in gioco l’apertura del cuore e la libertà dello spirito, non solo l’intelligenza: è in gioco il rigore morale. Come si vede, la religiosità dei sapienti suppone il superamento dell’idea che Dio si manifesti nel mondo soltanto attraverso prodigi e la storia di salvezza. Non solo nella rivelazione, ma anche nella creazione è seminata la sapienza di Dio.

La religione dei sapienti si muove in un’intima tensione: procede nella convinzione che il mondo resta in tutto subordinato a Dio, ma questa subordinazione non impedisce la ricerca. L’ordine del mondo viene da Dio, e l’intelligenza e l’esperienza sono luce di Dio. Per tutto questo la riflessione sapienziale ha sollecitato il ricupero (accanto alla rivelazione come norma di vita e di lettura del mondo) della ragione e dell’esperienza (condizione indispensabile per un’autentica laicità come oggi noi la intendiamo).

Creazione e mondanità

L’analisi della esperienza sapienziale è stata senza dubbio illuminante. Ma non possiamo arrestarci a essa. Il discorso può dirsi completo unicamente se prende in considerazione l’importante riflessione intorno alla creazione contenuta in Gen 1,1-2,4a. E infatti è proprio in questa riflessione che l’esperienza sapienziale trova la sua legittimità.

Probabilmente la piena accoglienza della ricerca sapienziale all’interno della Bibbia non avvenne senza qualche perplessità. Genesi dissipa ogni dubbio, rispondendo affermativamente alla questione sulla legittimità dell’iniziativa dell’uomo per dominare il mondo: vi si afferma che essa non ha nulla di empio: al contrario, risponde a un comando dli Dio e viene accompagnata da una benedizione.

È noto che Gen 1,1-2,4a viene comunemente fatta risalire all’epoca dell’esilio di Babilonia, probabilmente verso la fine. La prospettiva dominante del racconto non è l’origine delle cose, ma l’affermazione di un Dio ordinatore, che è all’origine di tutte le creature, le sostiene e dà loro un senso. Tutto ciò che esiste è sotto la signoria di Dio: è questa l’affermazione fondamentale del racconto, alla luce della quale si devono intendere le altre affermazioni.

Dal punto di vista letterario si può facilmente osservare che nel racconto ritornano le medesime espressione e i medesimi schemi. Ognuna delle opere della creazione è raccontata secondo un formulario fisso, che mette in rilievo la corrispondenza fra gli ordini divini e il loro compimento. L’autore vuole insegnare che la salvezza dell’uomo e del popolo sta nella corretta esecuzione degli ordini di vini, e per questo mostra che l’obbedienza è già ancorata nel cosmo: è una legge del mondo, non solo dell’uomo. La prospettiva è dunque ampiamente teocentrica.

Il mondo: realtà ordinata e buona

Ma proprio all’interno di questo quadro teocentrico (e ciò è molto significativo) è affermato che il mondo dell’uomo è amato da Dio. La narrazione insiste particolarmente sulla bontà della creazione, quasi come un ritornello. Non si accontenta di affermare che le cose vengono da Dio, ma precisa ripetutamente: «Il Signore vide che ciò era buono».

L’aggettivo buono (tob) ha un ampio significato: buono, bello, ragionevole, atto allo scopo. In effetti l’opera di Dio che crea è descritta non come un chiamate all’essere dal nulla, ma come ordinamento, distinzione, introduzione di razionalità. Dunque la crea zione, tutta la creazione, è buona, ha un senso.

Ovviamente, una bontà e un senso che la creazione non ha in se stessa, come realtà chiusa, senza riferimento a Dio, ma come realtà creaturale, aperta da ogni lato su Dio. Il fatto che l’affermazione della mondanità sia all’interno di un quadro altamente teocentrico non lascia dubbi in proposito.

L’insistenza del racconto sulla bontà della creazione è probabilmente un tratto polemico nei confronti delle concezioni allora dominanti. Intende colpire alla radice ogni dualismo che pretende relegare certe sfere del mondo e dell’uomo al di fuori della storia di salvezza, quasi fossero esattamente alla signoria di Dio, quasi fossero realtà da cui l’uomo debba liberarsi.

Invece – sottolinea la Bibbia- il mondo è amato da Dio, chiamato dalla sua parola: ha una consistenza e un senso. In termini estranei alla Bibbia (ma che ne traducono il significato) possiamo dire che la creazione rimane al suo luogo, terrena, quotidiana, ma proprio perché tale è amata da Dio e sostenuta dalla sua Parola. Il male non sta nelle cose, né le cose sono la ragione del male: la radice del male è altrove.

La signoria dell’uomo

Accanto alla signoria di Dio e alla bontà della creazione, una terza grande affermazione: il primato dell’uomo. Anche letterariamente le parole che descrivono la creazione dell’uomo si staccano dalle formule precedenti utilizzate per la creazione degli altri esseri.

L’uomo è creato per ultimo, a conclusione. Solo per lui è necessaria una decisione di Dio: «Facciamo…». E solo dell’uomo è detto che fu creato a immagine e somiglianza di Dio. Immagine indica statua, copia, riproduzione plastica. Conformemente a tutta l’antropologia biblica, si deve affermare che l’uomo nella sua totalità e immagine, non soltanto nelle sue qualità spirituali.

I vocaboli antropologici della Bibbia – anima e corpo, spirito e carne – non sono mai dualistici, ma unitari e morali. Leggere diversamente significherebbe leggerli entro un quadro culturale loro profondamente estraneo. Ma si osservi come il testo si sofferma meno sulla natura di questa somiglianza con Dio insita nell’uomo che sul fine per cui fu donata. Essa è data per un compito: il dominio sul mondo. Secondo i miti l’uomo è creato per il servizio degli dei: lo scopo dell’uomo è altrove. Secondo il Genesi, invece, lo scopo dell’uomo non è verso il mondo degli dei, ma verso il mondo degli uomini: per dominare la terra.

Il mondo è così pienamente demitizzato. Non esistono sfere invalicabili per l’uomo. Proprio perché convinto che Jahvé è un Dio unico e trascendente, Israele ha ridotto il mondo a semplici creature, dominabile. Il mondo è la cava da cui l’uomo può trarre le pietre per le proprie costruzioni. Ma con una importante precisazione: il dominio dell’uomo sul mondo è nell’ordine dell’obbedienza (l’uomo è immagine di Dio, non Dio), cioè all’interno di quel senso e di quell’intenzione che Dio vi ha posto. Senso e intenzione che la Bibbia indica (ci sembra) proprio ricorrendo alla categoria dell’uomo immagine.

I sovrani orientali facevano erigere un loro simulacro nelle lontane province dell’impero, quale contrassegno della loro sovranità. L’uomo, ogni uomo, è sulla terra il segno della sovranità di Dio. L’uomo non deve creare altre immagini di Dio: ne esiste già una.

Tutto deve dunque sottomettersi all’uomo (il rappresentante di Dio) e l’uomo deve sottomettersi a Dio (e a nessun altro). La signoria dell’unico Signore (il primo comandamento: Es 20,2-3; Dt 5,6-7; Mc 12,29) è contemporaneamente affermazione di libertà e di dipendenza. Nessun signore all’infuori dell’unico Dio, questa è libertà. Ma un signore esiste e va riconosciuto, questa è dipendenza. L’intenzione di Dio posta nelle cose è la loro finalizzazione per l’uomo, ogni uomo. È qui che trova posto la vigilanza del credente.

Seduzioni dal mondo

Ma l’impresa dell’uomo nel mondo non è senza tentazione, e la Bibbia lo sa molto bene. Nel dominio dell’uomo sul mondo (che non è solo un diritto, ma un imperativo: «dominate …») c’è il rischio dell’idolatria, che si rivela (come appunto la Categoria dell’uomo immagine ci ha fatto comprendere) con due volti: la dimenticanza di Dio e il dominio dell’uomo sull’uomo o la sottomissione dell’uomo alle cose.

La Bibbia conosce molto bene la tentazione di voler fare da sé (Gen 3), e la tentazione della dimenticanza di Dio: «La mia forza e il mio lavoro mi hanno procurato questa ricchezza» (Dt 8,17). La Bibbia è convinta che questa falsa pretesa di autonomia («essere mondo senza Dio») sia proprio la negazione dell’autentica autonomia. Se non accetto la creaturalità, divinizzo il mondo e mi sottometto a esso: l’uomo si sottomette alle cose e nasce il dominio dell’uomo sull’uomo.

L’uomo che vuole fare da sé e agire da Dio diventa il faraone che genera oppressione, divisione e alienazione (cf. Ez 28). Nella signoria di Dio la laicità trova il suo fondamento, non il suo ostacolo. Quanto abbiamo intravisto nel racconto di Gen 1 può essere ampiamente documentato, e senza difficoltà, anche attraverso gli scritti del Nuovo Testamento, soprattutto quei passi che riflettono sulla salvezza dell’uomo, sull’incarnazione e sulla signoria universale di Cristo. La salvezza dell’uomo è sempre presentata in termini di risurrezione, cioè come una salvezza che afferra l’uomo in tutta la sua realtà (cf. 1Cor 15), addirittura come una salvezza che si estende all’intera creazione (Rom 8,19-22): il mondo non è solo il teatro o il mezzo della salvezza, è oggetto di salvezza.

L’evangelista Giovanni (1,14) esprime l’Incarnazione con termini per noi molto significativi: «Il logos si è fatto carne», dove «carne» significa non solo piena umanità, ma completa solidarietà con tutta la condizione dell’uomo (fragilità, debolezza, dipendenza, solidarietà con gli altri esseri). E la signoria di Cristo assume tutte le realtà della creazione e della storia, ricapitolandole (Col 1,15-20; Ef 1,10). Nulla di competitivo in questa signoria di Cristo: non svuota la creazione del suo significato, ma lo garantisce.

Lettura positiva, lettura unilaterale?

Ci si può obiettare, a questo punto, che abbiamo completamente trascurato i molti passi neotestamentari in cui sembra apparire una visione negativa del mondo (ad esempio, Gv 15,18-19; 17,9.14; 1Gv 2,15- 17) o in cui risuona l’appello alla vigilanza escatologica e alla rinuncia al mondo.

Si tratta, senza alcun dubbio, di passi importanti, irrinunciabili, che hanno il merito di ricordarci il senso della trascendenza, l’amore preferenziale per Dio, la forza del peccato, il dovere della vigilanza. La loro importanza spiega non solo l’insistenza con cui ricorrono, ma anche la forte accentuazione, in apparente conflitto con altri valori (quelli, appunto, da noi evidenziati), che alle volte assumono. Del resto, l’inserzione del cristiano nella storia e, insieme, il suo essere al di là di essa creano una tensione in cui non è facile (neppure per la Bibbia) disporre giustamente gli accenti.

Ad ogni modo, una lettura attenta di tutti questi passi ha portato alla convinzione che essi non intaccano il nostro discorso, ma lo precisano. La tensione escatologica non annulla la positività del mondo, ma la salva. L’avere una pienezza da attendere impedisce alla Chiesa di porsi come termine ultimo del mondo. Essa vive, quindi, nel mondo, ma non per ridurre il mondo a se stessa. Senza dire poi che la speranza escatologica fa scorgere nelle cose un valore di eternità che l’uomo non avrebbe osato sperare (Rom 8,19-23).

Nella sua accezione negativa, «mondo» è un’entità teologica e morale, non altro. Nei passi giovannei in cui assume senso negativo rappresenta l’insieme delle forze ostili che cercano di impedire il regno di Dio. È in questo senso che il discepolo non è «dal mondo», ma solo «nel mondo». Il discepolo ha un’altra origine, vive un’altra logica. Non separazione di settori, ma diversità di origine (in senso giovanneo), di logica.

All’interno di un mondo spirituale che amava predicare la separazione, Paolo moltiplica invece gli avvertimenti a rimanere (cf. 1Cor 7,17.20.24). La conversione comporta una rottura con i costumi pagani, ma non una separazione da alcuni settori della vita. Certamente il cristiano deve «possedere come se non possedesse, piangere come se non piangesse…, perché il tempo ormai si è fatto breve» (1Cor 7,29 ss.); ma tutto questo deve essere inteso alla stregua di altri passi, come ad esempio Col 3,1 ss. dove la ricerca delle cose dall’alto significa la rinuncia ai valori illusori, distruttori, come l’ansia di possedere sempre di più, radice di ogni alienazione (tale è, appunto, il senso di pleonexia, che Paolo definisce idolatria).

La conclusione si impone: il credente deve inserirsi nel mondo, ma il suo inserimento non è senza vigilanza. «C’è quindi una ecclesialità dell’essere cristiano all’interno della Chiesa e dell’essere cristiano nel mondo, e qui, a sua volta, c’è una ecclesialità dell’essere del mondo nella massima integrazione col mondo e c’è una ecclesialità nell’essere del mondo nello scontro con il mondo »

«A Cesare quello che è di Cesare»

Concludiamo con un esempio, che riteniamo di particolare attualità. La vicenda politica dell’Antico Testamento sembra rivestita sin dagli inizi di caratteristiche sacrali. La struttura politica è teocratica. Qualche spunto differente non manca neppure nell’Antico Testamento (la politica del re, ad esempio, non è considerata buona in sé e per sé, esige verifica sulla base della Parola di Dio), ma la sostanza è indubbiamente teocratica.

Completamente diverso, invece, il Nuovo Testamento. Un primo passo molto significativo è offerto da Paolo: Rm 13,1-7. Il passo indica uno dei possibili atteggiamenti concreti del cristiano verso lo stato, e precisamente verso lo stato non cristiano. Il giudizio di Paolo è positivo: egli accetta lo stato. La motivazione è sorprendente: l’autorità viene da Dio. Non è una sacralizzazione dell’autorità né una sua giustificazione comunque (quasi che l’autorità sia sempre da obbedire). È piuttosto un modo giudaico di esprimersi, che significa: l’autorità come tale (a prescindere dal suo essere cristiana o no) è voluta da Dio, è esigenza di creazione: ha dunque una sua consistenza e una sua autonomia, una giustificazione in sé.

Ci troviamo dunque di fronte a un esempio di riconoscimento dell’autonomia delle realtà terrestri: hanno un senso a cui il cristiano è in coscienza tenuto. Si deve certamente pensare che Paolo parli in un momento favorevole, in un momento cioè in cui lo stato non ostacola il cristiano, ma comunque l’affermazione rimane in tutto il suo peso.

Un altro passo del Nuovo Testamento (Ap 13) offre una visione completamente differente: l’autorità imperiale è considerata l’incarnazione delle forze del male. Ma la vera novità cristiana – in grado di dar ragione e del giudizio di Paolo e del giudizio di Giovanni – è racchiusa nella frase di Gesù: «Date a Cesare quello che è di Cesare, ma a Dio quello che è di Dio» (Mc 12,17).

È una frase che «rappresenta addirittura l’atto di nascita del problema Chiesa e Stato. Prima di Cristo non esisteva nessuna cultura o società un problema del genere, in quanto ogni struttura politica (la polis greca, la monarchia orientale, l’impero romano, così come la teocrazia ebraica), per il suo carattere sacrale, era, al tempo stesso, struttura religiosa. Una di quelle novità evangeliche che fanno fare un enorme passo avanti alla coscienza spirituale dell’umanità».

Con le parole «date a Cesare quello che è di Cesare» Gesù afferma l’autonomia dello stato, la distinzione fra stato e religione: fine della teocrazia. E con le parole «ma a Dio quello che è di Dio», Gesù afferma che lo stato non è tutto: fine della idolatria politica.

Così Gesù libera l’uomo dalla soggezione allo stato, e costringe nel contempo lo stato a uscire dalla sua pretesa assolutezza. Ci sono valori superiori in base ai quali il cristiano deve obbedire o disobbedire allo stato (Rm 13 e Ap 13 possono essere considerati appunto due esempi concreti di obbedienza il primo e di disobbedienza il secondo), e questi valori non sono nello stato stesso (la ragion di stato), ma altrove (il regno di Dio).

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