Per una vita che nasce, per un Figlio che chiede ospitalità nella nostra umana natura, non servono grandi cose, solo presenze discrete ma vere, che con il poco che hanno danno il tutto di sé.
Vorrei proporre qualche semplice riflessione sul Natale che ci apprestiamo a celebrare in condizioni inedite e drammatiche avendo sullo sfondo la narrazione della nascita di Gesù nel vangelo di Luca (2, 1-20).
Una manifestazione inevidente
La manifestazione di Gesù, la sua presenza, il suo venire nella storia e nella vita degli uomini, ha uno stile e un tratto che potremmo caratterizzare così: inevidente e paradossale. Non è subito evidente la sua presenza tra noi: mentre si manifesta in qualche modo si nasconde. Egli non si mostra dove e come ce lo aspettiamo, ci sorprende e si cela.
I segni stessi che lo indicano sono paradossali: si manifesta sub contrario, non nella potenza, ma nella fragilità, non nel miracoloso ma nell’umano comune; un bimbo che nasce e un uomo che muore, l’incarnazione e la passione, sono i luoghi privilegiati dove Dio si manifesta e si nasconde.
Si fa presente fin dall’inizio cercando un riparo, una protezione, un rifugio, una grotta, o una “gronda” nella nostra fragile umanità. Come ben dice il poeta:
Non startene nascosto
nella tua onnipresenza. Mostrati,
vorrebbero dirgli, ma non osano.
Il roveto in fiamme lo rivela,
però è anche il suo
impenetrabile nascondiglio.
E poi l’incarnazione – si ripara
dalla sua eternità sotto una gronda
umana, scende
nel più tenero grembo
verso l’uomo, nell’uomo… sì,
ma il figlio dell’uomo in cui deflagra
lo manifesta e lo cela…
Così avanzano nella loro storia.
(Mario Luzi)
Questo carattere inevidente e paradossale della sua presenza è forse possibile coglierlo anche meglio nella situazione particolare nella quale viviamo in questi giorni il Natale. Un Natale strano, dove sembrano inopportuni i tratti convenzionali di festa e di gioia, che hanno spesso un sapore artificiale, commerciale e finto: sono come gli abbellimenti con cui orniamo per un attimo il nostro albero di Natale, ma che nascondono per un attimo la durezza della vita.
Il Natale non è una lucina da accendere nelle nostre case per non vedere l’oscurità che ci circonda. Ora tutto questo ci sembra inopportuno, spazzato via dalla pandemia che ci riporta alla serietà drammatica della vita esposta alla morte. Ora, possiamo meglio cogliere la “severità del Natale” (Balducci). Il mondo in cui viviamo non sembra per nulla luogo della sua presenza, piuttosto un mondo segnato dalla sua assenza.
In realtà fin dalla prima apparizione di Gesù, la sua presenza è sotto il segno della inevidenza e del paradosso. Si è manifestato così, nascondendosi sotto la “gronda” della nostra umanità. Da qui dobbiamo ripartire per imparare a leggere i segni della sua vista che non cessa di bussare alla nostra porta.
Quando
Luca ci tiene a precisare la cornice storica degli avvenimenti. Descrive per primi i protagonisti della storia imperiale, cita i nomi dei potenti del tempo: Cesare Augusto, Quirinio. Sembra quasi descrivere l’impero come una scena di globalizzazione ante litteram, un potere che vuole governare la vita di tutti, controllare – questo il senso del censimento – i suoi sudditi che non possono che assoggettarsi alle sue leggi.
Gesù appare ai margini di questa storia imperiale. Egli entra in scena “fuori dai riflettori”, sconosciuto alla cronaca ufficiale, non menzionato dai libri che narrano sempre la storia dei potenti e dei vincitori. Il suo è un tempo marginale, periferico. Nessuno se ne accorge, non ne rimarrà traccia nei libri di storia del tempo, si fa presente e si nasconde.
Noi dovremmo imparare a leggere i tempi marginali, a non essere abbagliati dalla cronaca, dalla storia dei potenti. Non troveremo facilmente i segni della sua presenza nelle prime pagine dei giornali, nei racconti dei social media. Egli preferisce le narrazioni nascoste e ordinarie, quelle che non fanno clamore, quelle lontani dai riflettori.
Papa Francesco spesso parla delle “periferie della storia”, delle storie che vedono come protagonisti gli “scarti”; ecco, dovremmo essere attenti ai tempi scartati, periferici e nascosti, ordinari e comuni: sono questi i tempi di Dio, dove si manifesta e si nasconde.
Dove
Anche il “dove” è periferico. Non a Gerusalemme, nella città santa, nel centro della vicenda del popolo di Israele; non nel tempio, non nei luoghi sacri me in quelli profani. “Non c’era posto per lui”: il Signore abita dove non c’è posto.
Abita un rifugio provvisorio, che sia una stalla, una stamberga, una grotta, una “gronda”, non importa; è il non-luogo di chi non trova posto, e sarà sempre così: il Figlio non avrà dove posare il capo. Eppure, ogni luogo diventa possibile nella misura in cui qualcuno fa spazio, offre rifugio, crea spazi di ospitalità. Dove cercare il nascondiglio di Dio?
Negli spazi ordinari e profani, nei luoghi che si aprono all’ospitalità povera e provvisoria. Un “ospedale da campo” – direbbe papa Francesco – nel senso letterale del termine: là dove ogni pellegrino è accolto, ogni straniero può trovare una patria, dove le ferite trovano una cura, con mezzi poveri e insufficienti ma con dedizione generosa e gratuita.
Con chi
Infine, è paradossale e inevidente anche la compagnia che diventa casa per il Signore. Di cosa ha bisogno Dio per “mettere la sua tenda” tra di noi? Con chi condivide la propria presenza nascosta?
Direi così: una intimità aperta a degli estranei. Gli basta questo: una donna che offre il suo corpo come grembo per Dio; un uomo e una donna, che si prendono cura di un figlio; dei legami umani, degli affetti, che fanno casa per il Dio che si nasconde. Dunque, uno spazio di intimità. L’intimità è quel segreto nel quale la vita può essere custodita nel suo mistero.
Senza intimità non si può vivere, senza delle relazioni che proteggono e accolgono, che sono generative perché gratuite e capaci di dono, ogni vita – anche quella di Dio – non trova casa. La presenza nascosta di Dio abita proprio le nostre intimità. Ma non è una intimità chiusa, non è una città chiusa e una casa inaccessibile, non è uno spazio escludente.
Infatti, qualcuno – ma chi? – lo visita, diventa addirittura ospite prescelto, vista gradita. Sono i pastori, uomini anch’essi marginali, personaggi del tutto improbabili, poveri esclusi, che vivevano ai margini della città che vegliavano nella notte.
Mi sembra che questa sia una chiamata, una vocazione che riguarda le nostre comunità: “isole di fraternità”, luoghi dove si generano relazioni di intimità non escludente, spazi di comunione che, mentre ricevono il dono del Dio nascosto, accolgono la vista dei poveri e degli esclusi come gli eletti ad essere i primi annunciatori del Vangelo.
Non fraternità elettive ed esclusive, non gruppi omologati di privilegiati, ma isole di fraternità ospitale: per Dio e per gli esclusi. Uno non senza l’altro.
Forse in questo Natale non faremo celebrazioni oceaniche che ci rassicurino di essere ancora fattori determinanti della vita pubblica. Non abbiamo bisogno di pretendere dei diritti, perché il Natale è solo un dono, non un diritto.
Ci basta poco per allestire un rifugio per il Signore, che si nasconde tra noi. Ma deve essere un luogo di intimità, deve avere il calore di una famiglia, e deve tenere sempre la porta aperta per chi forse si sente, come i pastori, escluso e indegno: è per loro che teniamo il fuoco acceso, è per loro che celebriamo – fossimo anche un numero risibile – il mistero del Natale.
Forse quest’anno non potremo fare grandi cenoni natalizi dove allestire la commedia delle famiglie felici, dove scambiarci doni superflui con logiche consumistiche. Ma il segreto di ogni casa, ogni affetto fragile, a volte ferito, può diventare il luogo dove il Signore pone la sua tenda.
Il dono è lui, lui il pane che nutre le nostre vite, il sorriso che tiene viva la gioia. Per una vita che nasce, per un Figlio che chiede ospitalità nella nostra umana natura, non servono grandi cose, solo presenze discrete ma vere, che con il poco che hanno danno il tutto di sé.
E sarà Natale, forse come non mai.