Centottanta schegge d’oro tratte dal più lungo libro dell’Antico Testamento sono il prezioso tesoro che il noto biblista, già Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, offre alla meditazione dei propri lettori. Sono pepite tratte dal libro del profeta Geremia, schegge di dolore e di speranza, di sconforto e di fede profonda nell’amore fedele e perenne di YHWH per il suo popolo.
Il giovane Geremia, nato in una famiglia sacerdotale ad Anatot, a pochi chilometri a nord di Gerusalemme, è chiamato predicare nella città santa nel periodo più burrascoso e tragico della storia del regno di Giuda. Il profeta vede avvicinarsi la tragedia dell’invasione e della conquista della città santa da parte dei babilonesi, che avverrà con Nabucodonosor nel 586 a.C.
Seguiamo da vicino lo snodarsi del libro di Geremia.
Muraglia di bronzo
Geremia è un giovane uomo dalla natura molto sensibile, incline alla riflessione e al silenzio interiore, timido e introverso. Parte della vocazione che gli viene annunciata è quella di dedicarsi totalmente all’annuncio della parola di Dio, non sposandosi come invece era nella norma della vita di Israele.
Geremia si sente amato e conosciuto da Dio ancora prima di venire alla luce: Cogitor ergo sum, commenta Ravasi, modificando il detto di Cartesio. Egli avverte il gravoso compito di abbattere e demolire, ma anche di costruire e di edificare. Si troverà, infatti, a dover affrontare la vita mediocre e peccaminosa del suo popolo, a partire dalla gente fino a salire alle gerarchie religiose, sociali e politiche comprendenti sacerdoti, profeti, possidenti terrieri e il re Joaqim in persona (cf. 1,18).
Geremia non si sente all’altezza della vocazione, ma il Signore lo incoraggia e gli promette di essere sempre al suo fianco, ponendo il fuoco purificatore sulle sue labbra. Geremia sarà come una piazzaforte, una colonna e una muraglia di bronzo nel paese, tanto il Signore è capace di trasformare anche le creature deboli.
YHWH «veglia» sul popolo come il mandorlo veglia sulla primavera. Il peccato principale di Israele è quello di aver dimenticato l’amore primigenio della giovinezza, andando dietro a nullità che renderanno esso stesso una nullità.
Il peccato delle quattro classi accusate da Geremia è quello della ribellione e di parlare in nome degli idoli, cambiando inopinatamente e contro natura il Dio glorioso con delle nullità.
I versetti di Geremia citati da Ravasi contengono spesso immagini folgoranti, caustiche, avvincenti, dolorose e appuntite. Non disdegnano il linguaggio duro, sferzante, irriguardoso, al limite del blasfemo e della volgarità. D’altronde, abbandonare l’unico amore vero coincide con il prostituirsi come le donne di strada su ogni colle elevato e ogni albero fondo. Asina selvaggia e cammella vagabonda sempre in calore, il popolo cerca un amore qualsiasi, sfrenato, inappagante.
La vita del popolo si è allontanata da YHWH, sorgente di acqua viva, per scavarsi cisterne fangose e screpolate che non danno vita. Sarà un’esperienza amara quella di abbandonare il Signore.
Sclerosi spirituale
Geremia fa presente al popolo che solo il perdono di Dio è decisivo. Folgorante la citazione di Blaise Pascal (un dialogo tra Dio e l’uomo) citata da Ravasi a proposito di Ger 2,22: «Se tu conoscessi i tuoi peccati ti perderesti d’animo? – Signore, mi perderò certamente d’animo. – Non ti perderai d’animo, perché i tuoi peccati ti saranno rivelati nel momento stesso in cui ti saranno perdonati!».
Ravasi integra tutti i suoi brevi commenti con una citazione tratta dagli autori più disparati, come è il suo stile ben conosciuto dai lettori: cantanti, poeti, tragici, pensatori credenti e atei, saggisti e scrittori, saggi indiani e mistici musulmani, pensatori della tradizione giudaica e teologi cattolici e protestanti – con Bonhoeffer in prima fila – ecc.
I peccati di Israele prendono i tratti del ridicolo tragico, come quello di invocare un pezzo di legno chiamandolo padre e una pietra chiamandola madre. Una coppia mostruosa – chiosa Ravasi –. Egli non disdegna di rivolgersi direttamente ai lettori invitando tutti alla conversione, a guardare Dio in faccia, a tornare sui sentieri dell’umanità e dell’onestà personale e sociale.
Geremia rinfaccia al popolo le proprie iniquità, infrangendo le ipocrisie e le illusioni. Una vera e propria sclerosi spirituale. Occorre una circoncisione del cuore, come chiedeva Dt 10,16. È necessario, cioè, incidere in profondità la coscienza, perché il culto e la vita tornino a combaciare, abbracciando l’intera esistenza.
Le pareti del cuore di Geremia tremano al profilarsi dell’invasione babilonese. Il profeta ha un dolore lancinante, mentre il popolo vive invece distratto e illuso. «Non ci accadrà nulla di male – afferma la gente – non vedremo né spada né fame». Davvero i profeti (falsi) sono come un soffio di vento, commenta Geremia (cf. 5,12-13).
L’invasione babilonese renderà il paese una landa desolata, una devastazione ambientale desertificante, mentre il paese si trucca gli occhi con il bistro che non tratterrà i nemici dall’eliminarlo. Giuda si sfascerà come una tenda beduina con le corde strappate.
Le spalle voltate e le lacrime versate
Nel c. 7 del libro, Geremia pronuncia nel tempio un discorso di fuoco contro il popolo e le sue guide che vivono il culto con una certezza matematica del soccorso divino, ripetendo come un mantra il nome di YHWH, ma senza alcun moto di conversione interiore che eviti adulteri, omicidi, spergiuri, idolatrie. Tutta la società vi è coinvolta, come una famiglia che cuoce le focacce alla regina del cielo. Una vera apostasia, un’offesa personale, un volger le spalle a Dio, un non mostragli più il proprio volto. Un peccato che coinvolge tutta la persona. Si è arrivati a sacrificare i figli al dio Molok nel fuoco maleodorante della Geenna, luogo dei rifiuti urbani. Gli animali conoscono i tempi e le date giuste, il popolo invece ignora la parola del Signore. È una vigna da cui non si potrebbe raccogliere nulla. Ma lo spiraglio sulla misericordia paziente di Dio è sempre presente, anticipando la parabola lucana (cf. Lc 13,8).
Il volto del profeta è rigato dalle lacrime, che sgorgano dalla fonte degli occhi. Ma YHWH può raccogliere le lacrime del profeta, dei poveri e degli oppressi. Lo mostrerà in pienezza nella Pasqua di Cristo. «Sperare è difficile. Disperare è facile ed è la grande tentazione da vincere», scriveva Charles Péguy. Tragico resta il fatto del disfacimento dei legami sociali e familiari, con menzogne, inganni e depravazioni.
Geremia intravede come la morte passerà per le finestre, abbatterà i ragazzi per strada e lascerà nei campi cadaveri come letame. Sembra di vedere scene dei nostri giorni in Ucraina.
Circa la morte, Ravasi si augura avvenga come per Abramo, l’amico di Dio: «Quando egli vide venire l’angelo della morte, disse: Hai mai visto un amico desiderare la morte dell’amico? Il Signore allora gli rivelò: Hai mai visto l’amante rifiutare l’incontro con l’amato? Allora Abramo disse: Angelo della morte, prendimi!».
Confessioni di un agnello mansueto, tradito e rigettato
L’idolo è un segno tagliato nel bosco, uno spaventapasseri posto in un cocomeraio, mentre YHWH è il creatore delle opere cosmiche, dispiegate con la sua intelligenza. A lui Geremia si rivolge così: «Lo so, Signore, che l’uomo non è padrone della sua via, nessuno può decidere il percorso della sua vita. Correggimi, Signore, ma con misura, non con ira perché non vacilli» (10,23-24). Su questa umiltà sincera Dio si curva con tenerezza.
Ma sferzante arriva anche il comando del Signore: «Non intercedere per questo popolo, non supplicare e implorare per esso! Io non li ascolterò quando mi invocheranno nel momento della sciagura» (11,14). Un divieto già comparso in 7,16 e che ritornerà in 14,11. Infelice il popolo che non ha più santi in mezzo ad esso, che possano intercedere presso Dio, chiosa Ravasi.
E Geremia si sentirà un profeta rifiutato, rigettato dai nemici altolocati ma anche dai propri parenti. Nelle famose “confessioni” si presenterà come un agnello mansueto condotto al macello, preso dalle trame dei nemici, senza aver mai offeso o danneggiato alcuno. Arriverà a maledire il giorno della sua nascita, accuserà Dio di averlo violentato per farlo diventare suo profeta. Ma riconoscerà che, nelle sue ossa, arde come un fuoco la parola di Dio, che non riesce a contenere. Gioia e allegria abitarono il suo cuore, perché portava in sé il nome del Signore.
Il silenzio di Dio, wadi infido
Ma ora YHWH è diventato un torrente infido, un wadi dalle acque incostanti e ingannatrici. «C’è, quindi, un silenzio misterioso e “scandaloso” di Dio che talora dobbiamo attraversare tenendo alta la fiaccola dell’attesa fiduciosa», commenta Ravasi.
Geremia si domanda perché prosperano i malvagi e i traditori vivono in pace (cf. 12,1). Il problema perenne del dolore innocente. Dio spezzi il suo silenzio e appaia finalmente come Dio di giustizia!
Certo il profeta sente che Dio prova che il cuore del suo servo è con lui. Lo Spirito di Dio invade lo spirito del fedele. Ci sono paure sepolte e paure che affiorano. Ma ricorda Luigi Santucci: «La paura bussò alla porta. La fede andò ad aprire. Non c’era nessuno». C’è paura davanti alle sorprese della storia, ma anche un’inquietudine sana, segno di ricerca e di rispetto per il mistero che ci avvolge.
Il paese conosce invasioni straniere, egoismi nazionalistici, devastazione e corruzione. Dio arriva a prendere in odio il suo popolo. E questo è l’inferno. Scriveva Fëdor Dostoevskij: «Padri e maestri, io mi chiedo: Che cos’è l’inferno? È il tormento di non essere capaci di amare e di essere amati!».
E allora il profeta è chiamato a compiere delle azioni simboliche che prefigurano la tragedia futura del paese: esso diventerà come una brocca spezzata, come una cintura che non aderirà più al Signore, ma marcirà come quando è nascosta nell’acqua di un fiume.
Gerusalemme deve convertirsi, altrimenti YHWH le alzerà le vesti e mostrerà la sua nudità ai nemici. Immagine cruda e brutale, ma efficace. Sarà svelato il verminare sotterraneo dei vizi.
Geremia non può trattenersi dall’intercedere: «Signore, confessiamo la nostra colpa e quella dei padri. Abbiamo peccato contro di te. Ma per il tuo nome non abbandonarci, non gettare nella polvere il tuo trono glorioso» (14,21). Altrimenti Gerusalemme sarà come la madre di sette figli che esala l’ultimo respiro. Per lei il sole tramonta, anche se è giorno pieno. Grandi e piccoli moriranno, senza sepoltura e senza funerali. Saranno pescati e cacciati da pescatori e da cacciatori senza pietà.
Sofferenza, fiducia e speranza
La sofferenza si intreccia nel libro di Geremia con la fiducia e la speranza. Una preghiera serena sgorga infine dal profeta verso il Signore, unico punto fermo della sua esistenza: «Il Signore è la mia forza e mia roccaforte, mio rifugio nel giorno del pericolo. Dall’estremità della terra verranno tutti i popoli implorandolo» (16,19).
Dobbiamo fidarci di Dio solo, perché maledetto è chi confida solo nell’uomo e si appoggia solo sulla carne e ha il cuore lontano dal Signore (cf. 17,5). Il Corano afferma: «Chi prende per sé un altro protettore invece di Dio è come un ragno e la sua casa. Chi non sa che la ragnatela è la cosa più fragile della terra?» (29,41).
Chi non confida nel Signore è come un tamerisco nella steppa desolata, non vede la pioggia. Chi confida nel Signore invece è come un albero piantato vicino all’acqua. Non soffre la calura, le foglie restano verdi, i frutti non vengono mai a mancare.
Certo, nulla è più ingannevole del cuore, ma il Signore lo penetra e può guarirlo (cf. 17,9-10). Il Corano afferma che Dio è «più vicino a noi della nostra stessa aorta» (50,16).
Il peccato è tradire, allontanarsi e abbandonare il Signore, sorgente d’acqua viva. Ma lui resta la speranza di Israele (cf. 17,13). Il nome dell’ingiusto è scritto nella polvere, quello del giusto è inciso nel libro di Dio, più solido della roccia (cf. Es 32,32; Sal 56,9).
La speranza è viva in Geremia. Egli afferma: «Guariscimi Signore, e io guarirò; salvami e sarò salvato: tu solo sei il mio orgoglio!» (17,14). La voce rauca del profeta si apre ora alla prima luce della speranza, commenta Ravasi.
La vita però prosegue incontro all’afoso vento d’Oriente che disperderà il popolo. Esso è malguidato dai nemici del profeta, che sono sicuri che non verrà mai meno l’appoggio dei sapienti, dei sacerdoti e dei falsi profeti. «Lo colpiremo per la sua lingua e non baderemo alle sue parole» (18,18b). Eppure, Geremia ricorda la sua intercessione nei riguardi del popolo (18,20). Questo non evitava le accuse precise, ad esempio costruire case con l’ingiustizia, senza pagare gli operai. È denunciata l’arroganza e lo sfarzo del re Joaqim in persona. Il profeta non ha paura dei potenti…
Dio è disgustato del peccato delle guide del popolo e diventerà lui stesso il pastore che radunerà le pecore del gregge dai paesi dove sono andati in esilio e li farà tornare ai loro pascoli dove crescere e moltiplicarsi.
C’è speranza per Israele (con capitale Samaria) per Giuda (con capitale Gerusalemme). YHWH promette un germoglio legittimo per la casa di Davide. Reggerà da vero re e amministrerà la giustizia e il diritto con sapienza per tutti (23,5). Il suo nome sarà: «YHWH-nostra-giustizia», nome che allude a quello del re fantoccio Sedecia, «YHWH-giustizia».
È tempo di far cessare gli adulteri, di non badare alle parole dei falsi profeti. Dio è tale anche da lontano, e non solo da vicino! (cf. 23-23-24). La sua parola è fuoco bruciante, martello che frantuma la roccia.
Geremia vede il canestro dei fichi gustosi degli esiliati, e anche quello dei fichi marci dei perversi che sono riusciti ancora a cavarsela. Ricompare lo scandalo del dolore innocente. Dio farà ubriacare il popolo col vino ardente e drogato, simbolo della morte. Per simboleggiare l’esilio, Geremia indosserà corde e giogo, anche se il falso profeta Anania glieli strapperà di dosso.
Il libro della consolazione
La speranza è ben espressa nel libro di Geremia nel c. 29, la lettera inviata agli esiliati in cui il profeta esorta a continuare ad avere fede, a inserirsi bene nel paese in cui sono stati deportati, a sposarsi e ad avere figli, perché il loro benessere dipenderà da quello del paese dove si trovano. Gli esiliati cercheranno Dio con tutto il cuore, ed egli li ascolterà, li radunerà e cambierà la loro sorte riportandoli a casa (cf. 29,12-14).
La speranza sarà, tuttavia, il tema centrale del «libro della consolazione» (Ger 30–31). Gli esiliati non saranno più schiavi di stranieri, serviranno solo il Signore e Davide, il re che YHWH sceglierà (cf. 30,8-9). YHWH li libererà dal paese remoto. Giacobbe tornerà e vivrà in pace.
Geremia annuncia ai due regni di Israele e di Giuda il ritorno dall’esilio e un’esistenza pacificata dopo la purificazione. Con Dio vicino si sciolgono gli allarmi, gli incubi e le incertezze. «È con la fede che si può sperare», afferma Ravasi, che poi cita J. Simon: «Non è il miracolo che prova la fede. Ma è la fede che fa accettare il miracolo».
Solo YHWH ha la medicina adatta per cicatrizzare la piaga sofferta dal suo popolo. «Noi spesso crediamo che Dio non ascolti le nostre domande. In realtà, siamo noi che non ascoltiamo le sue risposte» (F. Mauriac).
La tenda di Giacobbe sarà ricostruita, risuoneranno inni e grida di festa. Anche nei tempi oscuri «bisogna saper scoprire il sapore della gioia e del canto. Una scoperta difficile perché numerose sono le contraffazioni della felicità», commenta Ravasi.
Grazia per i deboli, giudizio per gli oppressori
La consolazione per il popolo introduce anche il giudizio degli oppressori. Il popolo ha trovato grazia nel deserto. La consolazione giunge con una dolcissima dichiarazione d’amore: «Ti ho amato di un amore eterno» (31,3). «Di tutte le cose umane l’amore è la sola che non voglia spiegazioni. Gli amanti che “si spiegano” sono quelli che stanno per lasciarsi», commenta A. Frossard. Israele deve abbandonarsi al Dio che prima l’ha giudicato e adesso lo salva. Samaria pianterà di nuove vigne sulle sue colline. Nella sua risurrezione Geremia vede già quella di Gerusalemme dopo la devastazione della conquista babilonese e dell’esilio.
Il Signore ha salvato il suo popolo, Israele, un resto che diventerà il primo dei popoli (cf. 31,6-7). Una salvezza per grazia, non per potenza. Il popolo dei salvati tornerà a casa con al centro i deboli: ciechi, zoppi, donne incinte e partorienti. L’occhio affettuoso di Dio si poserà su di loro e non sui potenti.
Il dolore sarà fecondo, come quello di una madre. E l’amore di Dio, che purifica ed educa, è come quello di un padre che riconduce a casa il suo figlio tra le consolazioni (cf. 31,9; cf. Os 11,4), quello di un pastore che raduna il suo gregge dopo averlo riscattato con mano molto forte.
«Ogni schiavitù coinvolge Dio e deve coinvolgere anche noi», commenta Ravasi, che cita E. Emingway (che cita J. Donne): «Ogni morte d’uomo mi diminuisce. Non chiedere mai per chi suona la campana: è anche per te che essa suona». Ogni fedele deve partecipare alla sofferenza del prossimo e sostenerlo nella liberazione, conclude Ravasi.
Il ritorno sarà gioioso verso colline colme di ogni prodotto: grano, vino, olio, greggi, armenti. I doni di Dio toccano lo spirito, ma anche tutto l’essere (cf. 31,12): «Che cosa bisbigliò il Signore all’orecchio dell’uomo per renderlo felice? Amore» (Rumî). Dal lutto si passerà all’allegria dei giovani e degli anziani. Martin Lutero cantava così la meta ultima della storia: «L’uomo giocherà col cielo e con le creature. Tutti proveranno piacere, amore, gioia lirica. E rideranno con te, Signore, e tu a tua volta riderai con loro».
Ritorno, conversione e tenerezza
Rachele piange perché vede i suoi figli andare in esilio (cf. 31,15), un lamento per tutte le vittime innocenti. Ma Geremia ricorda anche il lamento di Israele: «Fammi ritornare e io ritornerò a te che sei il Signore mio Dio».
Il ritorno dall’esilio è il segno del ritorno-conversione del giovenco ribelle. S’era smarrito e ora si è pentito. La vergine di Israele torna a casa, guidata dai cippi che hanno segnato esilio, e ci sarà la sorpresa della donna che cingerà l’uomo: Israele abbraccerà il suo Signore (cf. 31,22).
Ravasi cita quello che – secondo lui – è forse il più bel soliloquio di Dio che si legga nella Bibbia: «O Israele, tu sei per me un figlio carissimo, il mio bambino prediletto! Ogni volta che lo rimprovero, lo ricordo più intensamente. Si commuovono le mie viscere e provo una sconfinata tenerezza» (31,20).
«Tutto il problema della vita è questo – afferma C. Pavese –: come rompere la propria solitudine, come camminare con un altro». Dio vigilerà per edificare e piantare, ma ognuno dovrà ricordarsi della responsabilità personale per le colpe e le loro conseguenze e impegnarsi nel bene: «Non è perché le cose sono difficili che noi non osiamo, è perché non osiamo che sono difficili», ricorda Seneca.
La nuova alleanza
La vera consolazione, la gioia dopo la sofferenza, giungerà in definitiva, però, con la realizzazione della nuova alleanza annunciata da Geremia. La volontà di Dio – la legge – sarà scritta nel cuore, nell’intimo della coscienza (cf. 31,31.33). Un cuore di carne, l’adesione d’amore, il perdono, la comunione, la grazia, l’intimità. Religione del cuore e della vita. L’uomo “riconoscerà” Dio nella fede e con tutto sé stesso, senza ricorso a strutture esterne.
Una fede ben radicata nella storia. È quello che attuerà Geremia, comprando un campo nel bel mezzo del mondo che crolla per l’arrivo dei babilonesi. Ancora si compreranno campi nel futuro. Gli smarrimenti del credente, pur abissali, non sono mai disperati e definitivi. «Il filo della speranza deve essere sempre tessuto sulla stoffa dei giorni e delle opere», commenta Ravasi (p. 173 su Ger 32,9-10).
Dio castiga sì le colpe dei padri nei figli, ma la sua misericordia si allunga per mille generazioni. L’amore ingloba anche il castigo, cancellando ogni passato oscurato dal peccato. Dio non è indifferente alle opere morali dell’uomo, ma tutto avvolge con la sua presenza d’amore creatore.
La speranza fiorisce: risuoneranno ancora le voci dello sposo e della sposa e il canto dei fedeli diretti al tempio per offrire sacrifici. A Davide non mancherà mai un successore e ai sacerdoti e ai leviti chi offra olocausti.
Il dolore va portato con dignità, perché l’esilio dev’essere aperto all’attesa e alla speranza (cf. 33,17-18). La fiducia nel futuro è incrollabile: i discendenti di Davide saranno numerosi come le stelle del cielo (cf. 33,22). «Dio, pur attraverso i meandri della storia e il lavacro di sangue nelle prove, mantiene le sue promesse», ricorda Ravasi. Non si comporta come i potenti che si rimangiano la liberazione degli schiavi attuata in occasione del giubileo… (cf. 34,10-11).
Geremia ricorda l’arroganza del re Joaqim che straccia il rotolo delle profezie di Geremia, gettandole nel fuoco. Ma il segretario Baruch le riscriverà, perché la parola di Dio sopravvive agli incendi e a ogni attacco umano.
Dolore e speranza
Geremia sperimenterà l’angoscia della prigionia in un’oscura cisterna fangosa (cf. 38,6). Sarà salvato da un etiope, uno straniero… Dio salva i suoi servi, come tanti profughi anche ai nostri giorni, ricorda Ravasi.
Il re fantoccio Sedecia sarà accecato ed esiliato, dopo aver visto uccidere i propri figli. Dolore ed esilio per il ribelle, fiducia e vita per il fido segretario Baruch. A lui Geremia assicura un futuro di vita, come un bottino di guerra, in ogni paese in cui andrà.
Dio è come un leone che spunta dalla boscaglia del Giordano. Nessuno può resistergli. È lui la speranza per le vittime e gli oppressi della storia (cf. 49,19).
Babilonia è un martello in mano al Signore, ma il castigo non è l’ultima parola di Dio. Il peccato di Giuda sarà dissolto. Gli israeliti cammineranno piangendo e cercando il Signore. «Coi volti fissi a Sion diranno: Uniamoci al Signore con un’alleanza eterna e irrevocabile» (cf. 50,5).
La speranza domina le ultime parole di Geremia: «Un grido da Babilonia! È il Signore che la devasta e fa tacere i suoi comandi possenti. Dio ricompensa con giustizia, ricompensa con precisione» (cf. 51,54-56).
Geremia sarà condotto in Egitto e là finirà i suoi giorni, ma questa può ben essere l’ultima parola del profeta – conclude Ravasi –: la speranza nel Signore.
Gianfranco Ravasi, Il silenzio di Dio. Meditazioni sul mistero del male e il coraggio della speranza, Edizioni Terra Santa, Milano 2022, pp. 208, € 16,00, ISBN 9791254710821.