Lorenzo Gasparro, esegeta della Pontificia Facoltà Teologica dell’Italia Meridionale, Sezione San Luigi, a Napoli, fa notare come il tema del rapporto tra il Gesù storico e la creazione così come è presente nei Vangeli sinottici sia stato finora studiato poco a livello biblico, esclusi alcuni lavori di cristologia.
Nel c. I del suo volume (pp. 11-22) lo studioso ricorda che, se nei Vangeli manca il vocabolario tecnico, è presente invece il campo semantico costituito da una costellazione di metafore e di immagini che si riferiscono alla creazione. I Vangeli sono in sostanziale continuità con il Gesù storico, seppure nella distinzione e con una cura redazionale costatabile con chiarezza.
Gasparro annota alcune riflessioni di narratologia e di ermeneutica filosofica, ricordando come la narrazione del testo biblico abbia un impatto etico sul lettore, modellando e modificando le sue disposizioni. Va tenuto presente anche che il Mediterraneo costituisce il quadro caratteristico entro cui porre le parole e gli atteggiamenti di Gesù.
Il creato per parlare di Dio
Nel c. II del suo volume (pp. 23-46) Gasparro ricorda che nella Scrittura si nota come il creato costituisca la metafora principe per parlare della vita umana, delle sue tappe e dei suoi vari aspetti. La natura e le piante rivestono un’ampia gamma di significati antropologici: la fedeltà o l’infedeltà, la prosperità o la sterilità, il rigoglio fiorente o il disseccamento ecc. La natura rispecchia il dinamismo ciclico della vicenda umana ma anche la sua fondamentale finalizzazione verso un compimento escatologico.
Il vocabolario biblico della creazione è ben presente nell’AT e nel NT. Anche se mancano i termini “cosmo”, “natura”, “ambiente”, è chiara la testimonianza circa il Dio creatore del cosmo, inteso come insieme di tutti gli esseri e le cose, spesso espresso con “cielo e terra”, “tutte le cose”.
Nel NT “cosmo” assume il significato di ornamento, universo, terra, umanità. La Scrittura si interessa del cosmo sempre come opera di Dio e l’universo di cui l’uomo è parte integrante. Nel NT la creazione è compresa e riletta in chiave cristologica, con riferimenti sia protologici sia escatologici.
Il Figlio di Dio è il mediatore dell’opera creativa e il fondamento dell’esistenza dell’intero creato. È il principio e ne annuncia il destino finale.
La creazione è sempre descritta in modo molto concreto, è messa in rapporto a Dio che la crea e all’uomo che ne usufruisce; è un’opera creata che non può essere divinizzata o di cui avere paura.
Nei Vangeli il kosmos indica il mondo e l’umanità, talvolta ostile a Dio, ma mai l’“ambiente” o il “creato” in senso naturale o biologico come è inteso oggi. Il testo biblico non spiega le varie realtà, ma mostra ed espone narrativamente, con una teologia narrativa.
Coordinate fondamentali
L’autore ricorda alcune coordinate fondamentali circa la creazione biblica. La creazione è percepita come fondamentalmente buona e destinataria della benedizione di Dio. Essa è inoltre motivo di lode e scuola di umiltà, in quanto ricorda all’uomo la sua origine dall’argilla e il suo continuo bisogno della misericordia divina.
La creazione è un dono prezioso destinato all’uomo, da cui nasce l’impegno ineludibile della sua custodia e protezione. Compito dell’uomo è dominare con sapienza il creato, come il re che cerca il bene dei suoi sudditi, ma soprattutto quello di “coltivare” e di “custodire” il dono ricevuto da Dio e di cui non è padrone. Il dono di Dio non può che suscitare nell’uomo stupore e gratitudine.
Di fronte al creato, Gesù assume un atteggiamento di pieno inserimento in esso, che diventa parte integrante del suo insegnamento parabolico. Gesù mostra una innegabile familiarità con il mondo della natura, tipico del mondo contadino e della pastorizia. Egli manifesta una specifica e personale predilezione per questo ambito, per esprimere i concetti a lui più cari, in modo speciale quello del regno di Dio.
Gesù mostra uno sguardo attento e contemplativo sulla natura, le piante, gli animali, il lavoro dell’uomo e della donna che coinvolge il creato. Le sue descrizioni fanno trasparire interesse, stupore e profondo rispetto per il mondo, percepito come fondamentalmente buono e benevolo verso l’uomo (cf. l’amore di Dio per l’uomo espresso con l’esempio della sua cura per i passeri).
Alcune esagerazioni o stranezze presenti nelle parabole sono solo iperboli o paradossi che intendono rimandare alla realtà profonda del Regno e della sua logica. Gesù non ha una concezione dialettica e oggettivistica della natura così come la si ha oggi, ma una visione simbolico-olistica tipica delle civiltà antiche.
La Bibbia non vuole spiegare la natura e il suo funzionamento, quanto comprendere in essa il senso dell’esistenza dell’uomo e del mondo, cercandovi la “struttura archetipa” o una specie di programma di ciò che ambedue sono e devono essere.
Narratologia biblica
Nella Bibbia il creato è più contemplato che spiegato. Gasparro ricorda alcune categorie e intuizioni fondamentali della narratologia biblica.
La narrazione biblica delinea o costruisce un lettore implicito o modello e dà per scontato il fatto che egli conosca alcune prerogative e conoscenze essenziali, in modo che il destinatario possa cogliere i significati intesi e decisivi della storia raccontata. Ogni racconto delinea inoltre un mondo che offre al lettore perché se ne appropri. Il mondo del testo è inteso dall’autore in modo tale che raggiunga il lettore e riconfiguri il suo mondo attraverso il progetto narrativo dell’autore. Il mondo di vita del lettore completa e compie il significato dell’opera stessa.
L’arte del raccontare è sempre una mediazione tra il “descrivere” e il “prescrivere”. I racconti biblici prescrivono narrando, attraverso modelli negativi o positivi. Il racconto non ha solo un effetto “specchio” ma intende configurare e rifigurare il lettore/ascoltatore assimilandolo a sé. Il testo apre il lettore a una comprensione nuova di sé stesso e della realtà. L’autore ha presente il lettore implicito come suo destinatario, un destinatario che esso tenta di plasmare attraverso l’atto narrativo.
«La narrazione biblica ed evangelica rappresenta e propone così una “realtà convertita” in cui il lettore è chiamato a entrare o a cui deve acconsentire per diventare a sua volta una persona diversa o convertita”» (pp. 44-45).
Continua Gasparro: «Letto così, il racconto biblico non soltanto descrive idealmente quella che dovrebbe essere la corretta relazione uomo-natura, ma proprio attraverso la narrazione opera per costruirla concretamente agendo sulla consapevolezza, la progettualità, la percezione dei valori e la creazione di una nuova identità del lettore. Il creato che gli autori biblici mettono in scena non è dunque soltanto quello che hanno conosciuto e in cui hanno vissuto ma – più profondamente – quello che il testo vuole rendere realtà perché corrispondente al progetto creativo del Padre e il solo in cui l’uomo può prosperare, realizzando pienamente la sua vocazione di figlio di Dio» (pp. 45-46).
Il creato nei Vangeli
Dopo i capitoli introduttivi di carattere generale, nel c. III (pp. 47-90) Gasparro esamina il tema del creato nei Vangeli.
Sono moltissimi i brani che hanno per protagonista diretta o indiretta la natura. L’obiettivo è di cogliere i tratti precipui della relazione Gesù-creazione. L’autore non intende leggere a livello esegetico i brani o “quadretti” presi in esame, quanto di trarre alcune note utili a illuminare il tema indagato.
Nel concreto, lo studioso esamina sei parabole o similitudini presenti nei Vangeli sinottici e l’immagine della vite e dei tralci raccontata nel Vangelo di Giovanni.
La parabola del fico è una storia ambientata nel quadro agricolo palestinese, ma mostra un mondo verosimile e stravagante allo stesso tempo (triennale improduttività, non necessità di particolare cure come zappatura e spargimento di letame ecc.). Gesù allude al regno di Dio e alla pazienza del Padre, ma nella narrazione di Gesù è presente una normatività e una dimensione ecologica. L’uomo deve esprimere cura, custodia e salvaguardia del creato. Solo se l’uomo corrisponde al progetto creativo in una custodia reciproca con il creato, potrà prosperare e realizzare la sua vocazione di figlio di Dio.
I detti sugli uccelli del cielo e i gigli del campo riflettono la cura di Dio per il creato, che sarà molto maggiore per l’uomo che può confidare in Dio e non affannarsi in modo ossessivo della propria vita.
Nei detti sono presenti una prospettiva olistica e uno sguardo attento alla creazione, a cui Gesù invita gli ascoltatori. Il suo è uno sguardo contemplativo e sapienziale e i detti di Gesù intendono sottolineare una fondamentale coerenza tra creato e agire storico di Dio. Tra la logica del Regno e quella della natura ci sono evidentemente delle discontinuità, espresse col paradosso. Nella mente di Gesù, però, il creato è e resta l’ambito più adeguato a illustrare la signoria di Dio sulla storia e sul mondo.
Zizzania, senape e passeri
La parabola della zizzania, presente solo in Matteo, evidenzia la conoscenza dell’ambiente contadino da parte di Gesù. Si evidenzia la compresenza del bene e del male nel campo del mondo e della storia. La somiglianza fra la pianta del grano e quello della zizzania invita a pazientare nel voler estirpare il male prima della fine, col pericolo di sradicare anche ciò che è buono. Tratti stravaganti sono la disponibilità del seme di zizzania in possesso del nemico e la mietitura finale da parte dei mietitori e non dei servi. La raccolta della zizzania prima del grano è una prassi insolita e nell’escatologia giudaica richiama l’annientamento previo dei malvagi, opposto al perdurare dei giusti.
La creazione appare descritta in modo realistico: una creazione problematica ma buona. “Pazientare” è un verbo che rimanda al quello del “rispettare”, alla rinuncia alle scelte frettolose che rischiano di compromettere un bene prezioso. Nel mondo occorre intervenire in modo il meno invasivo possibile e valorizzare e tutelare al massimo la natura e l’uomo stesso.
La natura è per l’uomo una scuola permanente di “interiorità” e di “ulteriorità”. La natura rimanda alla presenza di Dio e del trascendente, a un senso nascosto e profondo del mondo e delle cose. La natura insegna a distinguere e ad apprendere la “sapienza” divina e a rispondere adeguatamente alla dimensione “ulteriore” presente nella vita e nella storia.
La parabola del granello di senape, seme piccolissimo che diventa la più grande delle piante dell’orto, tradisce la conoscenza dell’ambito agricolo palestinese, ma è impiegata da Gesù come immagine adeguata del Regno. Iniziato con dimensioni piccolissime e umili dalla predicazione e dall’opera di Gesù, avrà un esito di dimensioni vastissime, che offrirà riparo a tutte le nazioni. Un esempio iperbolico, ma non inverosimile, fondato sul fatto che la pianta, a causa dei suoi semi saporiti e del suo ricco fogliame, attira spesso frotte di uccelli di vario tipo.
Per i rabbini la pianta di senape ha una robustezza proverbiale e ha un legno adatto a costruire delle capanne. Presentando elementi realistici uniti a tratti iperbolici, la parabola illustra in maniera sintetica la missione di Gesù, che dagli inizi modesti è destinata a diventare un grande albero di salvezza per tutti gli uomini. Il seme che “cade per terra” assume inoltre un significato cristologico (cf. Gv 12,24). «Sarà sulla croce, e più specificamente nel corpo/sangue di Gesù “caduto a terra”, che il Regno sarà definitivamente “seminato” come messe di salvezza sul campo dell’umanità» (p. 71). La parabola e l’immagine del seme, applicate al mistero del Regno e alla persona di Gesù, esprimono continuità ma anche discontinuità, che nell’ambito evangelico e cristologico contempla anche una rottura e la morte.
Gasparro sottolinea come, per l’interpretazione dei testi, non sia sufficiente l’analisi storico-critica, ma anche la conoscenza concreta dell’ambiente palestinese inserito nel contesto del Mediterraneo.
L’enunciato sui passeri che, pur valendo pochissimo sul mercato, non sono dimenticati da Dio, tradisce ancora una volta l’osservazione attenta della natura e del senso simbolico che alcuni elementi di essa hanno già ricevuto nelle Scritture di Israele.
Il passero richiama la piccolezza, la fragilità e l’incapacità a difendersi dai nemici. Facile da catturare, la sua carne costituiva un alimento caratteristico dei poveri. Il passero era anche il simbolo della violenza e della persecuzione subita dal giusto (cf. Lam 3,52), oltre che a essere immagine del pericolo scampato grazie alla prontezza e agilità del volo.
Gasparro nota come il significato “simbolico” del detto si radichi strettamente nella “materialità” dell’elemento concreto. Il simbolo biblico nasce sempre dalle qualità peculiari di un oggetto (significante) e dai particolari significati percepiti in esso dall’uomo. L’uomo scorge negli oggetti concreti una significatività ulteriore che li fa apparire spontaneamente un’icona del mondo e del trascendente che lo abita. Il detto rivela che Dio ha cura di tutto il creato, e non solo dell’uomo. I due elementi sono strettamente collegati. Nella visione cristiana, l’interesse per l’uomo non può essere slegata da quella di una cura adeguata nei confronti del creato.
Alberi buoni e “cattivi”, la vite e i tralci
I detti sull’albero (buono e “cattivo”) e i suoi frutti (buoni e “cattivi”) (Mt 7,15-20) esprimono un criterio per riconoscere i veri profeti da quelli falsi. Per l’uomo, a differenza dell’albero, esiste sempre però la possibilità della conversione. Ciò che è impossibile per l’albero è possibile all’uomo che è chiamato alla trasformazione della sua natura interiore. Per l’uomo diventa decisiva la volontà e il suo potere di decidersi o di cambiare radicalmente direzione.
Accanto all’albero, compaiono anche animali come la pecora e il lupo, ben conosciuti nella Bibbia, e l’uva e i fichi, simboli di abbondanza e di benedizione di Dio. Spine e rovi rappresentano invece l’inutilità e l’infecondità.
I detti parabolici sono un invito a un serio discernimento sul possibile camuffamento e inganno operato da chi si spaccia per inviato di Dio e offrono l’ulteriore criterio della corrispondenza o correlazione tra la natura della persona e i gesti che mette in atto.
Ancora una volta la natura sale in cattedra e offre criteri di discernimento per la vita dell’uomo. Occorre distinguere le apparenze dalla natura profonda e osservare attentamente la correlazione obbligata tra ciò che si è e ciò che si produce. C’è connaturalità o corrispondenza tra l’essere e l’agire (agere sequitur esse, Tommaso d’Aquino). Ancora una volta la natura funziona sia da illustrazione che da banco di prova. Gesù mostra una conoscenza contemplativa della natura e spinge indirettamente il lettore/ascoltatore a fare altrettanto.
Il quadretto giovanneo della vite e dei tralci (Gv 15,1-8) parte dalla descrizione di ciò che avviene nella natura ma assume una dimensione prettamente teologica. La vite personalizza e cristologizza l’immagine della vigna usata per descrivere il popolo di Israele (cf. Is 5). Ora rappresenta Gesù nella sua missione storica e nel suo rapporto con i discepoli-tralci. Anche l’immagine del vignaiolo appartiene al registro botanico-agricolo, ma definisce il rapporto specifico che lega il locutore a Dio.
Nella carne di Gesù viene offerta la possibilità di un passaggio dall’infecondità al frutto abbondante di una nuova fedeltà. L’innesto che permette ai tralci di rimanere nella vite sta nell’ascolto-compimento della parola di Gesù, in primis il comandamento dell’amore (cf. vv. 9-17).
La metafora botanica permette al narratore di articolare tra loro due relazioni specifiche, quella di Gesù con il Padre e poi quella con i credenti, passando per una designazione che suona altamente cristologica. Il narratore svela fin dall’inizio la natura metaforica della descrizione e rende Gv 15 «un condensato di tutto il quarto vangelo e delle direttrici che esso sviluppa» (p. 83).
Dalla vigna si passa alla vite. Un cambiamento terminologico che si fa portavoce di un cambiamento soteriologico che riguarda la storia della salvezza e l’agire di Dio al suo interno.
L’autore ricorda come la natura e il testo biblico siano i due orizzonti paralleli di decifrazione, due modelli esplicativi da tener presenti nell’interpretazione dei testi. Dopo aver applicato questo principio alla vigna nel mondo agricolo e nel mondo biblico, egli ricorda come l’ecologia evangelica richiami lo stretto rapporto uomo-creato, apparentato dall’iniziativa umana.
Il vignaiolo pota la vite perché porti più frutti. L’uomo deve curare la natura perché possa portare frutto abbondante, senza per questo cadere nell’arbitrio di un suo sfruttamento totale e dissennato.
Il radicamento del tralcio nella vite può essere letto anche come figura di una logica di comunione e di integrazione che abita tutta la natura. Tutto è “interconnesso” e uno sfruttamento dissennato può causare conseguenze disastrose.
La natura è amica per eccellenza dell’uomo, ma per egoismo e ignoranza può diventare la concorrente o la prima vittima di un suo presunto benessere.
L’ecologia di Gesù
Nel c. IV del suo volume (pp. 91-112) Gasparro sintetizza infine alcune linee del rapporto di Gesù con la creazione.
Gesù ha una visione integrale e sostanzialmente positiva del creato, una visione olistica che è tipica di tutti i testi biblici. Egli ha uno sguardo contemplativo e sapienziale sul creato, in cui ha saputo vedere la presenza, la cura e l’impronta di Dio. Egli perciò invita i discepoli a coglierne la simbolicità che rimanda a Dio presente e provvidente e mezzo straordinario che invita gli uomini a conoscerlo e a imitarlo.
La creazione ricopre nel Vangeli il ruolo di metafora principe del Regno. Il creato è l’analogatum principe più calzante per comprendere i segni e la logica del Regno e l’ambito previlegiato per comprendere la missione di Gesù.
I Vangeli testimoniano una fondamentale continuità tra creazione e redenzione. La rivelazione naturale e la manifestazione storica di Dio sono percepite da Gesù in profonda continuità e coerenza.
Il mistero dell’incarnazione ha comportato per Gesù la partecipazione della condizione umana, ma anche un sostanziale coinvolgimento con il creato nelle sue molteplici dimensioni. È una felice inhabitatio, un contatto rivelante e umanizzante, che evita alla fede di degenerare in gnosi o in una prassi disincarnata.
Infine, va notato come il Mediterraneo si presenti come quadro implicito della riflessione di Gesù sul creato. Il contesto naturale del Mediterraneo è un elemento contenutistico e strutturale presupposto nel lettore ideale e ha un impatto rilevante nella corretta comprensione dei testi.
Ecologia inequivocabile, benché implicita
I Vangeli testimoniano per Gasparro una lezione ecologica inequivocabile, benché implicita.
Gli atteggiamenti e gli insegnamenti di Gesù rivelano come il compito dell’uomo sia quello di custodire, salvaguardare, rispettare e preservare il creato. Esso va utilizzato per il sostentamento equilibrato dell’uomo, ma va anche curato e valorizzato. Gesù rende vera la pagina iniziale della Bibbia in cui è affermato che ogni realtà creata è molto buona (e non solo l’umanità).
Nella Bibbia il cosmo non è mai qualcosa di puramente teorico, ma un corpo vivente che nutre l’uomo ma rimanda anche alla conoscenza e alla lode del creatore. La Scrittura fa degli elementi naturali dei simboli specifici: il chicco di grano, il granello di senape, la pianta di fico, gli uccelli e i gigli, l’albero e il suo frutto, la vite e i tralci ecc.
Gesù è debitore di una tradizione simbolica tipicamente biblica, che egli assume e rilegge con originalità. L’acqua diventa così un possibile simbolo di morte se riferito ai grandi fiumi Tigri ed Eufrate, ma sorgente di fertilità per il Nilo e i paesi aridi. La simbolizzazione cambia secondo il luogo in cui è presente l’elemento naturale citato.
Per la comprensione del testo biblico resta confermato che non è sufficiente l’analisi storico-critica o letteraria, ma anche la conoscenza del territorio concreto in cui è ambientato il racconto. Il ricorso alla natura come elemento simbolico è scontato e non ricercato artificiosamente.
Racconto e formazione etica
Secondo l’autore, non va dimenticato che i racconti biblici intendono formare eticamente il lettore non solo attraverso insegnamenti espliciti, ma proprio attraverso i racconti stessi. Questi concorrono alla ricostruzione etica del lettore e a una sua riconfigurazione mentale e morale, spesso a sua insaputa. Gesù diventa norma etica nei racconti perché la narrazione evangelica plasma la percezione morale del lettore, ispira le disposizioni e attitudini etiche del cuore, spingendo verso un certo tipo di azioni piuttosto che altre e, infine, perché il racconto influenza l’identità del lettore attraverso la messa in atto di disposizioni e regole che hanno valenze sociali.
L’identificazione con Cristo, favorito dal racconto, si codifica così in una serie di indicazioni normative per il singolo e per la comunità. Il lettore/ascoltatore viene reso “cristomorfo” (cf. Fil 3,10.21). La presentazione del cosmo come dono di Dio e segno della sua benevolenza è un appello al lettore/ascoltatore a cambiare sguardo e percezione, che si tradurrà in prassi di custodia e di rispetto per tale dono consegnato da Dio all’umanità.
Homo responsabilis
Dal mito dell’homo faber, spesso sfruttatore del creato, si passa quindi al concetto di homo responsabilis che ha cura paziente della natura, come è rappresentato nella parabola della vite, dei tralci e del vignaiolo.
La Bibbia e i Vangeli presentano in definitiva l’uomo come custode e valorizzatore del creato molto buono uscito dalle mani di Dio. Soggiogare la terra non esclude un rapporto di comunione, il dominio include una guida e un governo che porti alla vita e alla pace piena.
Il rapporto dell’uomo col creato non può essere oppressivo, arbitrario o violento. L’uomo è signore del creato, ma solo come mandatario di Dio ed esercitante la propria signoria come la esercita Dio stesso. Soggiogare, dominare, coltivare e custodire sono i verbi che guidano il rapporto dell’uomo col creato a immagine della cura e dell’attenzione amorosa che Dio stesso ha per esso. Cristo si presenta poi come servo e pastore, con un’autorità tesa a perseguire il bene, lo sviluppo e il perfezionamento della creazione affidatagli.
La creazione si rivela quindi come un dono e una responsabilità e richiede da parte dell’uomo una vera e propria “spiritualità della creazione”: contemplazione del creato e azione attenta e amorosa, umile e fraterna verso il dono di Dio.
L’humus ricorda all’uomo la connaturalità col creato. L’uomo deve coltivare quindi anche la temperanza, per non sfruttare sconsideratamente il creato, ma coltivarlo come un organismo vivente che rivela il mistero stesso di Dio e del suo amore.
La creazione è collegata purtroppo anche al peccato e quindi in attesa di completa redenzione (cf. Rm 8,19-23). L’opera salvifica include la creazione e la disobbedienza dell’uomo coinvolge il creato in esiti disastrosi. L’uomo è responsabile perché si compiano le doglie della creazione di un mondo nuovo (cf. Rm 8,22). L’ecologia biblica non sminuisce la creazione, ma potenzia la responsabilità umana perché il creato partecipi in pienezza dell’opera redentrice di Dio.
«La Scrittura ci dice che salvaguardare e prendersi cura della creazione rappresenta un comandamento dato agli uomini prima ancora della legge consegnata a Mosè», annota Gasparro (p. 110). La concezione biblica ed evangelica del creato, conclude infine lo studioso, «non è soltanto la più confacente alla fede cristiana, ma anche quella capace di dare all’impegno ecologico di qualsiasi bandiera o partito il fondamento e le motivazioni più solide» (p. 110).
La bibliografia (pp. 113-18) e l’indice dei nomi (pp. 119-120) arricchiscono questo libro, molto utile per una presentazione dei tratti inediti del fondamento cristologico dell’azione umanizzante verso la creazione richiesta in questi tempi di mutamenti climatici che mettono in pericolo l’esistenza stessa del creato e dell’umanità intera.
- LORENZO GASPARRO, Gesù e il creato. Parole di ecologia nei Vangeli (Studi biblici 96), EDB, Bologna 2022, pp. 124, € 17,00, ISBN 9788810410486.