Giona: profezia incompiuta

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giona

Il libretto di Giona può essere letto come una parabola che rende universali le situazioni ma anche un testo scritto con un genere letterario molto vicino alla storia. Il lettore si sente trascinato da parte di critici, dei detrattori, ma poi scopre, suo malgrado, che egli stesso non è esente da colpa e non si può sottrarre all’imprevedibilità di certa narrativa sferzante. Il testo si pone nell’ambiente postesilico nel quale Israele si trova a vivere un contesto socio-culturale posto tra universalismo (cf. il libro di Rut) e xenofobia (cf. il libro di Esdra e Neemia, che impongono lo scioglimento dei matrimoni già contratti da un ebreo con uno straniero).

A livello di genere letterario, il libro si pone tra storia e finzione. Il libro di Giona non è una biografia, ma una fiction storica, il cui messaggio non potrebbe essere offerto neppure da una storia vera. C’è chi parla di midrash, di tragedia, di commedia, di parabola parodistico-satirica.

L’elemento strutturante non è, però, un eroe o un personaggio epico e neppure un luogo, ma un “avvenimento”, quello della parola che il Signore affida a un profeta. La vicenda narra gli sviluppi di questo unico evento. La domanda centrale è la seguente: come andrà a finire lo scontro tra Giona e il suo Dio?

L’autore del commento è stato docente di Filosofia e Storia nei licei statali, ha soggiornato per alcuni anni in Israele per poi perfezionarsi in Filologia Biblica all’Università di Firenze. Da sacerdote svolge il suo ministero pastorale nella diocesi di Pistoia.

Dopo una ricca introduzione (pp. 7-24), Moro divide il suo lavoro in due parti.

La prima parte (pp. 25-78) è dedicata all’analisi del testo di Gn 1–4. Il linguaggio dello studioso è accessibile e coinvolgente, attento alle sfumature che l’originale ebraico può suggerire. Secondo Moro, i quattro capitoli del libretto sono disposti con uno schema preciso di ripresa/ripetizione di temi (ABA’B’).

Il profeta in fuga

Il c. 1 presenta il profeta in fuga. Al comando imperioso di YHWH di andare a Ninive, la grande città, e di proclamare contro di essa che la sua malvagità è salita fino a YHWH, Giona prende la fuga in direzione contraria, verso la lontana Tarsis, imbarcandosi su una grande nave e immergendosi nel sonno nelle sue profondità più oscure.

“Il complesso di Giona” sta nel rifiuto della propria vocazione, come lo furono i rifiuti e i tentennamenti che interessarono Mosè, Samuele, Geremia ecc.

I vv. 4-16 descrivono il mare in tempesta e la conversione dei marinai a YHWH. Nel c. 2 è contenuta la preghiera di Giona nel ventre del pesce e la compassione di YHWH per il suo profeta. Il c. 3 riprende il c. 1, raccontando il nuovo comando di YHWH e l’obbedienza di Giona (vv. 1-4).

I vv. 5-10 riportano la predicazione di Giona nella metropoli nemica e la conversione dei niniviti, a partire dal re per giungere fino agli animali. Il c. 4 riprende il c. 2, narrando la compassione di YHWH per Ninive e il fatto che il profeta polemizza aspramente con Dio per la salvezza della città.

Il libro di Giona concerne il rapporto tra la giustizia di Dio e la sua misericordia. È sempre giusto quando YHWH agisce con misericordia? «Il problema sollevato da Giona è lo stesso di Giobbe: in un mondo dove “non c’è giustizia”, la vita stessa è “priva di senso”. Riconoscere che Dio non è legato a nessuna alleanza e neppure alle regole che lui stesso ha stabilito, per il profeta […], rimane insopportabile» – annota Moro (p. 17).

Più che una chiamata/vocazione, quella che tocca a Giona è una «provocazione». Si dovrà attendere 4,2 per sapere che il profeta fugge «non perché paventa la malvagità di Ninive, ma perché teme la bontà di YHWH, ovvero che i nemici storici di Israele si convertano e vengano perdonati» (p. 28).

Giona deve annunciare «una parola efficace che mette in movimento la storia, ma che deve sempre fare i conti con la libertà dell’uomo» (ivi).

Giona appare come un «anti profeta» che, invece di parlare faccia a faccia con Dio, cerca di estraniarsi dalla sua stessa presenza. Solo 4,2 rivelerà il motivo del suo comportamento, creando nel lettore un clima di attesa.

Nella tempesta improvvisa si svolge un dialogo fra Giona e i marinai. Il capitano della nave invita Giona a prendersi le proprie responsabilità (vv. 4-6) e il dialogo con i marinai (vv. 7-12) provoca Giona a rivelare la sua identità religiosa e il suo compito e lo spinge ad offrirsi come vittima che possa placare la tempesta scatenatasi sopra/contro di loro (gioco di significato delle proposizione ‘al in ebraico).

I pagani invocano il Signore perché la loro azione di gettare Giona in mare non ponga su di loro il sangue innocente. Dopo aver gettato in mare Giona, essi temono il Signore, offrono a lui un sacrificio e fanno dei voti. I pagani, chiamati semplicemente «uomini», riconoscono il Dio di Israele.

Il vertice del capitolo sta nel fatto che il profeta ribelle diventa strumento, anche senza saperlo, della conversione di gente straniera.

Nel ventre del pesce

Il Signore provvede a che un grosso pesce, non meglio specificato, inghiotta Giona e, dopo una sua parola rivolta ad esso, rigetti il profeta sulla spiaggia (vv. 1-2.11). La provvidenza di YHWH salva il suo profeta.

Il genere del pesce in ebraico è femminile e quindi il suo rigettare sulla spiaggia il profeta di fatto si presenta come un partorirlo, un generarlo a vita nuova. Una rinascita.

Il ventre del pesce all’apparenza è solo un luogo di morte, ma contro ogni pregiudizio si rivela essere un grande spazio di ritorno alla vita. Un bell’anticipo del mistero pasquale vissuto da Gesù.

I vv. 3-10 riportano una lunga preghiera di Giona, un lamento che termina con un canto di ringraziamento.

Dapprima, ci si riferisce al pericolo passato, con una supplica che esprime una prostrazione totale. Il ventre del pesce assomiglia al ventre dello sheol, il luogo dei morti, della lontananza radicale da Dio.

Al lamento segue il secondo sentimento, quello dell’azione di grazie per la liberazione avvenuta. Il ringraziamento è espresso dal desiderio, una volta salvato, di tornare a offrire sacrifici al Dio vivente e a innalzare a lui un inno di lode. Il profeta sperimenta la salvezza come una risalita dalla fossa.

La liberazione per Giona coincide con un processo di trasformazione interiore. Egli inizia a intravedere le vicende della sua vita in un’ottica nuova e nel cogliere una luce inattesa proprio nel buio che lo dilaniava. Il fraseggiare riflette quello del parallelismo tipico dei salmi. «La salvezza viene dal Signore!» (v. 10b). È la verità che illuminerà tutto il seguito della storia.

Salvezza solo per Giona? O anche per i niniviti, come lo è stata già per i marinai? Giona «sperimenta così la grande compassione divina in modo immeritato – commenta Moro –. In questa preghiera salmica riecheggia il canto dei israeliti salvati dall’Egitto (Es 15,1-2.5.8.10.13); come loro, anche il profeta si ritrova miracolosamente sull’asciutto, finalmente libero. La misericordia del Signore è la forza che solleva da ogni naufragio» (p. 50).

Giona appare ora molto umano, con un volto nuovo e una fede ritrovata. Le crisi tuttavia non sono finite, neppure il grido disperato rivolto al suo Dio che ancora gli apparirà come “estraneo” e che, fino alla fine, non riuscirà a comprendere (cf. ivi).

La conversione della città malvagia

Dio non vuol lasciare Giona vittima della debolezza del suo cuore, ma se ne fa carico per educarlo con pazienza all’amore universale.

Il c. 3 del libro contiene due scene: la ripetizione del comando da parte di YHWH per la missione, con l’immediata risposta affermativa di Giona (vv. 1-4). I vv. 5-10 narrano, invece, la reazione positiva dei niniviti alla predicazione del profeta e il “pentimento” di Dio di fronte al nuovo comportamento degli abitanti della città.

La seconda chiamata richiede a Giona la proclamazione verso (‘el) – non sopra/contro (‘al)… – la città di ciò che YHWH dirà. Il tono sembra essere meno minaccioso e potrebbe rivelare che il fine ultimo dell’accusa sia la riconciliazione.

In un parallelismo antitetico con il c. 1, Giona si alza e si dirige verso la grande città (larga simbolicamente tre giorni di cammino) e vi predica per un giorno, annunciando che essa sarà capovolta/distrutta (verbo hpk) dalle fondamenta. Di fatto, però, Giona diventerà strumento di salvezza per i suoi abitanti, spiazzando il lettore.

Ninive era conosciuta come «la città dei sangui», «città sanguinaria» (Na 3,1). La capitale è grande, ma per Moro «Ninive è grande per Dio, cioè “grande ai suoi occhi”, stimata e per lui preziosa. Questo è il motivo per cui YHWH si prende cura del destino dei suoi abitanti» (p. 55).

Giona lancia un ultimatum: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». Non accenna alle colpe o alla possibilità di perdono. Egli ha fatto una sintesi di ciò che ha ascoltato da Dio, ma comunque c’è un tempo di speranza di Dio, della sua pazienza verso i peccatori in vista della loro conversione.

«La “città della malvagità e della violenza” sarà “capovolta” nella città dell’umiltà e della giustizia proprio grazie alle parole di Giona, anche se dette senza passione, ma efficaci, suo malgrado, in quanto strumento della potente “Parola di YHWH”» (p. 56). Il verbo hpk indica sia la distruzione che il capovolgimento.

I vv. 5-10 narrano come Ninive diventi una città “rovesciata” e il fatto che Dio “si pente” dei suoi propositi di male.

Con grande velocità, il messaggio di Giona fa breccia nel cuore degli uomini e persino del re, che ingiunge segni di penitenza e di digiuno che coinvolgono persino gli animali. Dal più piccolo al più grande, gli uomini di Ninive si convertono a Elohim, proclamano un digiuno e vestono di sacco. Essi credono a Elohim.

Si sottolinea l’umanità (come lo erano i marinai) e l’uomo è sempre soggetto debole e misero, sempre oggetto della misericordia divina.

,Elohim è designazione di una divinità generica. I niniviti intuiscono nei quaranta giorni la possibilità di salvezza, mentre invece erano abituati ai loro dèi dalla volontà inflessibile, come le divinità delle tragedie greche.

La conversione richiede il rito ma anche la perseveranza. Di fatto, Giona non appare convinto dell’autenticità della conversione e si ritira all’esterno della città per vedere lo sviluppo degli eventi. Dice Ger 13,23: «Può forse il leopardo cambiar pelle?». Giona sembra condividere questa idea, ma, seppur controvoglia, il profeta estende a tutti i popoli, e persino a Ninive, la possibilità di una conversione. Una grande novità.

Gli abitanti cambiano identità (vestono di sacco) e anche il re rinuncia alla sua dignità regale (scende dal trono, veste il sacco, si siede sulla cenere).

Il re emana una specie di decreto profetico: esige tre rinunce, coinvolge uomini e animali in una comunanza di destino, invita pressantemente a invocare Dio con tutte le forze, a convertirsi dalla malvagità e ad abbandonare ogni forma di violenza.

La preghiera non serve a far cambiare proposito a Dio, quanto a far cambiare il cuore dell’uomo che prega.

Il re si affida alla clemenza di Dio, sapendo che il perdono non è una conseguenza automatica dell’agire umano, ma il frutto libero della misericordia divina. «Egli riconosce la somma libertà di YHWH e sa che non può far altro che sperare» (p. 62).

La conversione dei niniviti comporta l’allontanamento dalla perversione, dall’immoralità e dalla violenza «che è nelle loro mani», il che allude alla vita politica oppressiva di Ninive che ha segnato in profondità la memoria di Israele.

Il re si aspetta che YHWH si penta e abbia misericordia. Il pentirsi di Dio dal male minacciato è la manifestazione della sua misericordia. Moro ricorda che YHWH non è un Dio «buonista»; alle volte è molto furioso.

Il linguaggio metaforico indica la sua non connivenza con il male e il suo impegno a contrastarlo, in quanto giudice giusto, sempre schierato dalla parte delle vittime (cf. p. 63). Alla metafora dell’ira si accomuna sempre la pazienza misericordiosa di Dio (espressa con «chissà?» dal re).

Il Dio biblico non è la proiezione dei desideri umani ed è sempre libero, a tal punto da cambiare idea, di pentirsi, di convertirsi. Il lettore si trova davanti al misterioso agire di YHWH. Dio vede le azioni concrete dei niniviti che si allontanano dalle loro malvagità e si pente del male progettato.

Il giudizio del Signore è quello di un giusto giudice che punisce perché il malvagio prenda coscienza del suo male e se ne allontani.

Emerge il tema principale del libro. Qual è il vero volto di YHWH? Un Signore di pura giustizia, oppure un Dio di misericordia? Moro annota: «Che il libro di Giona sia strutturato sulla logica punitiva dei padri è solo un fatto apparente. In realtà, la misericordia divina è presentata come ciò che mette in moto lo stesso processo di conversione della città. Attraverso la lezione del perdono ai pagani di Ninive, Israele dovrà prendere coscienza che anche il popolo eletto vive del medesimo amore. In un mondo dove esistesse solo la giustizia retributiva, non vi sarebbe spazio neppure per Israele. YHWH cambia di misericordia in misericordia e la stessa punizione assume un significato pedagogico, provvidenziale. Sarà proprio il perdono concesso alla città nemica che farà scattare la collera di Giona» (p. 64).

La compassione di Dio e l’ira di Giona

Il c. 4 conclude la parabola. Il male dei niniviti si trova adesso nel cuore di Giona. Un malessere insopportabile. Ora si scopre che Giona era fuggito verso Tarsis perché conosceva in profondità il cuore misericordioso e pietoso di YHWH, lento all’ira e grande nell’amore. Ed era preoccupato che YHWH contradicesse la sua decisione di punire Ninive e quindi cadesse in contraddizione con sé stesso. Appare ora chiaro che Giona aveva preso la direzione opposta rispetto a quella indicatagli da YHWH, perché rifiutava di essere il mediatore della sua misericordia.

Quando accusa, Dio lo fa unicamente per salvare, sia Israele sia i suoi nemici, perché sono tutti figli suoi, scrive Moro. E l’identità divina per Giona non era una sorpresa. Giona conosceva il suo Signore, ma questa conoscenza contraddice il mancato riconoscimento per quello che egli è e fa.

Giona esprime l’esperienza fondamentale di Israele riguardo a YHWH e ben espressa in Es 34,6-7. In quella teofania egli si autoproclama «misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà», che si pente del male (Gn 4,2).

Giona si rende conto che YHWH lo ha clamorosamente smentito, mettendo in gioco la sua credibilità di profeta che annunciava la distruzione ed entra in una profonda depressione che lo porta a desiderare la morte.

Giona avrebbe dovuto condividere il punto di vista di Dio sul modo di combattere il male salvando i malvagi. Ma questa condivisione non è semplice e tocca la carne. YHWH conosce quella sofferenza, perché il popolo è la sua famiglia. La confessione di Giona si trasforma in un atto di accusa.

«La morte gli appare come l’unico mezzo efficace per cancellare l’immagine di un Dio ai suoi occhi troppo misericordioso che, paradossalmente, è passato dalla parte del nemico. Dal momento che Ninive si è convertita, ora il problema riguarda lo stesso Giona. Il Signore di curverà pazientemente su di lui, come prima si è dato pensiero per la “grande città”» (cf. pp. 68-69). Si convertirà Giona?

I vv. 4-9 illustrano la pedagogia di Dio verso il profeta. L’adirato Giona si ritira fuori della città e di propria iniziativa si costruisce un riparo dal sole cocente, una capanna di frasche. Aspetterà la fine dei quaranta giorni? La misericordia eccedente di YHWH fa crescere un ricino sulla capanna, come ulteriore offerta di ombra.

Al mattino, Dio fa però seccare il ricino e Giona si arrabbia a morte per questo. Dio lo interroga sulla correttezza della sua reazione, di fronte al venir meno di una pianta che aveva ricevuto gratuitamente in dono da Dio, senza alcun merito.

Dio agisce con pazienza pedagogica, e non energica come aveva fatto con la tempesta. Dio si mostra comprensivo della tristezza del profeta. «Che cosa attende Giona? Che la città venga distrutta? Egli sa già che Ninive è salva. Forse spera ancora che Ninive non si sia convertita? Oppure che ritornerà a essere la città sanguinaria, in modo che Dio la possa distruggere, così che la sua predicazione si avveri e finalmente il Signore si decida a essere giusto? Non è dato sapere» – scrive Moro (p. 70).

Dio comunque è paziente, non drammatizza, è come una madre che, scherzando con il proprio figlio disobbediente, gli domanda se pensa proprio di avere ragione o se conviene invece che rifletta un po’…

I vv. 10-11 riportano il confronto finale tra YHWH e Giona. Moro lo considera una specie di testamento spirituale consegnato al lettore: la compassione di YHWH è per tutte le sue creature. Il Signore sa che il profeta è mosso da un’esigenza di giustizia.

Con un ragionamento a fortiori, a minore ad maius, Dio rimarca la differenza abissale tra la compassione del profeta e quella di Dio.

Giona ha ricevuto in dono un ricino che non ha creato, non ha fatto crescere e non gli è costato alcuna fatica. Se il profeta si dà pena, ha compassione e si irrita a morte per il venir meno di una pianta, a maggior ragione il Signore «ha compassione» per la grande città che lui ha creato e fatto crescere e i cui abitanti considera tutti suoi figli al pari di Israele.

La tristezza per la perdita del ricino è descritta con un’intensità pari alla perdita di un figlio – questo probabilmente vuole indicare l’espressione idiomatica ed enfatica del v. 10.

Il Signore ha compassione per una grande città, indicata da un numero probabilmente simbolico. Potrebbe essere un’allusione all’oltretomba, indicata nella tradizione mesopotamica come «la Grande Città».

YHWH si dà pensiero anche degli animali e si riferisce ai niniviti come a bambini privi di ragione o incapaci di distinguere il bene dal male. Il Signore salva i niniviti non perché se lo meritino, ma unicamente perché è «un Dio misericordioso e compassionevole».

I niniviti non sanno distinguere il bene dal male, mentre invece Giona «conosce» il suo Signore e sa seguire ciò che è giusto e a respingere il male, attraverso il dono della Torah. Ciò nonostante il profeta oppone resistenza al suo Dio che è verità misericordiosa (Lv 19,17-18).

Il racconto termine con una «parabola aperta», annota Moro, in quanto manca la risposta alla domanda finale. Tocca al lettore rispondere e completare la narrazione, raccogliendo i dati emersi nel racconto. «Ritroverà il nostro profeta la fiducia nel Signore? Capirà che è soltanto la sua misericordia a rendere vivibile questo mondo? Una compassione certamente provocatoria, per certi versi scandalosa, che ci costringe a pensare in modo nuovo il volto di Dio. Riguardo a Giona, non abbiamo alcuna certezza; possiamo solo sapere qual è la nostra personale risposta», conclude lo studioso.

Il segno di Giona

La seconda parte del lavoro di Moro (pp. 79-134) riflette sul segno di Giona e come questo sia stato ripreso in altri testi biblici dell’Antico Testamento e del Nuovo Testamento.

Fra gli altri testi dell’AT, Abdia e Naum si trovano nella posizione opposta a quella di Giona, concordando sul tema dell’ineluttabilità del giudizio di sventura su Ninive a causa della sua violenza e della sua malvagità.

Michea offre una chiave interpretativa per comporre le due linee apparentemente inconciliabili: la partecipazione dei popoli alla salvezza di Israele (Mi 4,1-5) e l’irrevocabile punizione dei popoli “nemici”. La prospettiva universalistica, sia della salvezza, sia della punizione, è relativa all’unicità dell’elezione: benedizione e maledizione dipendono dalla mediazione dell’Eletto (Mi 5,6-7) come compimento della promessa abramitica (Gen 12,3).

Giona apporta il suo messaggio specifico con la missione verso i nemici mediante l’accusa salvifica (da parte di Dio). «È l’unico caso, in tutta la storia del profetismo, in cui la salvezza di YHWH è sospesa alla predicazione del suo profeta – afferma Moro –. Obiettivo del Signore è quello di coinvolgere il “suo popolo” perché accolga il mirabile progetto di Dio e partecipi alla salvezza di tutte le genti. Solo in questi termini Israele prepara la conclusione della “raccolta” che vedrà proprio i nemici storici partecipare alla liturgia dell’Eletto (Zac 14,16)» (p. 96).

Nei Vangeli sinottici Gesù cita due volte Giona. In una si riferisce alla sua predicazione, anticipo di quella portata avanti da lui stesso a un altro livello. Nella seconda riprende il suo essere rimasto tre giorni e tre notti nel ventre del pesce, anticipo del mistero pasquale che vede Gesù restare tre giorni e tre notti nel cuore della terra, in un mistero di morte e risurrezione. In entrambi i paragoni, Gesù afferma di essere a un livello molto maggiore di quello di Giona.

Giustizia e misericordia

Altre riflessioni della seconda parte del libro di Moro vertono sul problema se Giona sia una parodia del vero profeta, sul fatto che anche Dio «si converte» e sulla giustizia e misericordia di Dio quali attributi di YHWH.

Nel libro di Giona YHWH si manifesta come un Dio ormai distante da quello prospettato dalla dottrina dei padri. Ora, se YHWH cambia e si manifesta in una maniera sempre nuova nella storia, è evidente che anche il suo profeta (pro-fetes) deve cambiare, quale portatore del Verbo di un altro.

Le profezie (almeno quelle di distruzione e di sventura) sono sempre condizionate, perché nella gerarchia dei valori adottata da Dio esse valgono meno della più piccola fra le sue creature.

Nel libro di Giona YHWH appare non solo come Dio di Israele ma anche come il Creatore di ogni realtà vivente (1,9), niniviti e loro animali compresi. Dio offre un pactum unionis a tutta l’umanità.

Moro riporta alcune riflessione sul rapporto tra giustizia e misericordia quali attributi di YHWH. Ricorda Es 20,5-6; 34,5-7; 32,12; 33,19; Nm 14,17-19 in cui Mosè si presenta come intercessore del popolo che si appella alla bontà/benevolenza/fedeltà (ḥesed) di YHWH dopo la mormorazione degli israeliti contro gli esploratori.

In questi passi si accenna alla «visita» (paqad) punitiva di YHWH presso i figli e i figli su tre o quattro generazioni, e la sua misericordia per mille generazioni. Il peccato ha conseguenze intergenerazionali, ma la «punizione» è sempre sproporzionata rispetto alla misericordia immensa di Dio.

Dt 13,18 presenta la retribuzione divina sotto forma di giudizio e di castigo in rapporto all’esilio. Il Dio del Deuteronomio, come quello dell’Esodo, si manifesta però come Dio del ravvedimento, non per capriccio, ma per motivi nascosti a Mosè, che appartengono al Signore e alla sua sapienza.

Dt 32 mostra i diversi modi di comportarsi di YHWH verso il suo popolo e le nazioni, ma mostra un Dio che si ravvedrà di fronte ai suoi servi quando vedrà che ogni forza è svanita e non è rimasto né schiavo né libero (cf. Dt 32,36).

Il profeta Giona riassume il suo dramma interiore riprendendo le parole di Es 34,6, ma non intercede come Mosè e ogni profeta. Giona immagina YHWH bloccato sul solo aspetto della giustizia, non rendendosi conto che costui non è più il Dio vivente, ma uno dei tanti idoli. Quindi, alla fine, se Giona non cambia, l’idolatra è lui, non i niniviti.

Per Moro sorge spontaneo il solito interrogativo: sarà in grado il profeta di comprendere il suo Dio, per esserne il testimone nei confronti dei popoli nemici? Il lettore si trova davanti a un dilemma: deve scegliere fra carpire a Dio la sua ira, come tenta di fare Giona, oppure restare in ascolto del Signore al quale appartengono la collera e la misericordia, che invita a intercedere davanti a lui affinché cessi il suo sdegno e si riveli come il clemente e compassionevole, paziente, pieno di amore e fedele (Es 34,6) (cf. p. 112).

Lo studioso annota, infine, le presenze del profeta Giona nella letteratura giudaica antica e negli scrittori ecclesiastici.

L’autore conclude il suo volume con alcune pagine che descrivono l’attualità permanente della parabola costituta dal libro di Giona. Guardando a Cristo, al suo mistero pasquale, e a molte parabole sul Padre da lui raccontate, il lettore può superare ogni immagine di giustizia divina costruita a immagine di quella umana e arrivare a credere l’incredibile, ad amare il non amabile e sperare contro ogni speranza.

La Bibliografia è raccolta nelle pp. 135-143 e chiude un testo davvero interessante su un libro biblico che può spiazzare il lettore, ma che invece intende presentare il volto sovversivo della misericordia universale e immeritata offerta da Dio a tutti i suoi figli, «stranieri e nemici» compresi.

  • VINCENZO MORO, Giona. La profezia incompiuta. Prefazione di Luca Mazzinghi (Biblica), EDB, Bologna 2022, pp. 152, € 18,00, ISBN 9788810221938.
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