Una considerazione, anzitutto, di ordine generale. Riguarda il nostro modo di rapportarci alla Parola di Dio. Possiamo dire di ascoltarla con una partecipazione intensa e profonda e, almeno in qualche momento, anche con un coinvolgimento emotivo? Si tratta sempre di rimanere sorpresi, colti alla sprovvista dalla Parola. Bisognerebbe accostarsi a ogni pagina del vangelo, come se fosse la prima volta. Contro l’indurimento provocato dall’abitudine l’unico antidoto è la sorpresa.
Il cammino (Lc 24,13-16)
Luca ha costruito il lungo racconto dei discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35) secondo lo schema di un cammino di andata e ritorno, che si trasfigura in un cammino interiore e spirituale: dalla speranza perduta alla speranza ritrovata, dalla tristezza alla gioia, dalla Croce alla risurrezione (e dalla risurrezione alla croce).
Il problema che il racconto si pone non è la presenza o l’assenza di Gesù risorto (egli si avvicina ai due discepoli e cammina con loro), ma come e dove riconoscerlo. La condizione essenziale per riconoscere il Risorto è la comprensione della Croce, che a sua volta richiede l’intelligenza delle Scritture. Il gesto con cui si fa riconoscere è la frazione del pane.
Lungo il cammino che li allontana da Gerusalemme i due discepoli discutono su quanto è accaduto. Perché discutono? Non era già tutto chiaro? Evidentemente, se discutono è perché avvertono, non importa se confusamente, che qualcosa ancora sfugge alla loro comprensione. Che cosa? I due hanno perso la speranza, e tuttavia continuano a pensare, a parlare e a discutere sulla speranza perduta. Certamente avevano l’impressione che il Crocifisso, che pur aveva fatto fallire la loro speranza, nascondesse qualcosa rimasto sconosciuto.
Luca usa tre verbi per descrivere in tutte le sue sfumature la loro conversazione. Il primo verbo (mileon, v.15) è di significato generale: ‘discorrere’, parlare, conversare. Il tempo è all’imperfetto, dunque è una discussione lunga e ripetuta. Ed è un parlare insieme, l’un l’altro, come Luca precisa. Il particolare non è secondario. Non si comprende ciò che è accaduto da soli, ognuno per suo conto. Né basta che uno racconti e l’altro ascolti. Ciascuno ha qualcosa da dire all’altro e qualcosa da sentire dall’altro. Solo quando c’è questo reciproco dire e ascoltare si può parlare di vera conversazione.
La reciprocità suggerita anche dal secondo verbo adoperato (suzeteon, v. 15): ‘cercare insieme’, indagare insieme. La conversazione dei due non è un semplice discutere, un dire e un ascoltare, ma uno sforzo insieme per capire, per valutare, mettendo in comune le proprie osservazioni e le proprie valutazioni così da progredire verso una maggiore comprensione.
Il terzo verbo (antiballein, v. 17) – non più del narratore che descrive ma di Gesù che interroga i due – esprime il dibattito, il contrasto fra pensieri diversi, la discussione vivace. Persino lo scontro.
Ma la ricerca dell’uomo – anche se correttamente condotta – non riesce da sola a comprendere tutto quello che è accaduto. Occorre un «evento» rivelatore. La ricerca dell’uomo non è sufficiente, anche se molto importante: è infatti normalmente lo spazio che l’uomo può offrire, quasi un’invocazione, all’intervento rivelatore. Nel nostro racconto l’intervento (gheneto, v. 15) che si inserisce nella ricerca dei due discepoli, imprimendovi una svolta inaspettata, è il Risorto che si avvicina e si fa loro compagno di viaggio: «mentre discorrevano e cercavano insieme, avvenne che lo stesso Gesù si accostò e camminava con loro» (v. 15).
La comparsa del Risorto è un evento improvviso, senza premesse, del tutto gratuita. Gli eventi di Dio sono indeducibili, semplicemente accadono. I due non lo riconoscono. Non perché Egli ha assunto un volto sconosciuto per apparire in incognito, ma perché «i loro occhi non avevano la forza di riconoscerlo». Non tocca a Gesù cambiare il volto, bensì ai discepoli cambiare lo sguardo. Si tratta di un’incapacità profonda, che investe la mente e il cuore, una vera impossibilità come suggerisce il verbo usato da Luca. Occorre un modo nuovo di guardare ciò che già prima si è visto. Il Risorto rimane necessariamente uno straniero se non si entra – attraverso la comprensione delle Scritture – nella verità del Crocifisso.
Inserendosi nel cammino dei due discepoli, Gesù prende in mano la situazione. Ma non per cambiare la direzione del viaggio, bensì per mutarne il significato: non più un semplice cammino verso Emmaus, ma verso l’incontro con Lui. Il cammino dell’allontanamento diventa il cammino dell’incontro. E questo è possibile non perché i discepoli (gli uomini?) camminano verso il Signore, ma perché il Signore si inserisce nel cammino degli uomini.
La domanda e il racconto (Lc 24,17-24)
Lo sconosciuto si avvicina senza troppi riguardi e si intromette nella discussione dei due discepoli. L’iniziativa è tutta dalla sua parte: li ha seguiti per un tratto di strada, li ha sentiti discutere animatamente, decide di prendere parte alla loro discussione. Si introduce con una domanda che va direttamente al cuore del loro problema: di quali argomenti state dibattendo? Non chiede dove sono diretti né da dove provengono. Chiede di che cosa stiano parlando. Gli interessa l’argomento del loro dibattito. La sua curiosità ferma i due discepoli nel loro cammino e nel loro discutere: «Si fermarono immobili», dice il verbo. «Col volto serio», precisa Luca che così li fotografa nella loro tristezza. Perché tristi? Il motivo lo diranno loro stessi subito dopo: «Speravamo».
La domanda dello sconosciuto suscita in uno dei due, di nome Cleopa, una sorpresa. Tu solo sei così straniero a Gerusalemme da non sapere che cosa in questi giorni è accaduto? Ma allo sconosciuto non interessa che cosa è accaduto e come a Gerusalemme se ne parla. Gli interessa come loro lo raccontano. «Quali fatti?», egli chiede. Sentire come raccontano i fatti è importante: si viene a sapere non solo l’accaduto, ma come l’hanno visto e interpretato.
Tutti e due raccontano (il verbo è al plurale) le «cose riguardanti Gesù»: non soltanto gli ultimi avvenimenti, ma la sua storia per intero, che si è svolta in tre tempi: il ministero pubblico, la condanna a morte, il silenzio del sepolcro vuoto. Il racconto è preciso. L’errore dei due discepoli non sta nell’avere dimenticato qualcosa, ma nel pensare i tre momenti staccati anziché uniti in una linea coerente, come a formare un solo evento.
Dapprima una storia, che ha manifestato Gesù come profeta potente per l’efficacia del suo insegnamento e la forza dei suoi miracoli. Una manifestazione pubblica che ha suscitato il favore di tutto il popolo e l’approvazione di Dio. Ma poi – e qui la storia di Gesù sembra spezzarsi e contraddirsi – la condanna a morte e la crocifissione.
La morte di Gesù non è dovuta al popolo né al castigo di Dio. A condannarlo a morte furono soltanto le autorità giudaiche. Gesù fu condannato innocente, e perciò la sua morte in Croce non cambia il giudizio positivo che i due hanno su Gesù. La verità dei suoi miracoli e delle sue parole non viene offuscata. Anche dopo la Croce, i due sono convinti che Gesù sia stato un «profeta potente». Tuttavia la Croce ha provocato una cocente delusione: «Speravamo che fosse Lui il liberatore di Israele». La missione di Gesù è stata interrotta senza che Lui potesse liberare Israele. Se la Croce non ha smentito che Gesù sia stato profeta, ha però smentito che sia stato Messia. Il Crocifisso segna il crollo della speranza messianica. Ai due sfugge il legame di continuità fra il profeta potente e il Messia crocifisso. Il modo di guardare la Croce deve radicalmente cambiare: non la smentita della speranza, ma il suo fondamento. È questo il capovolgimento a cui il Risorto condurrà i due discepoli spiegando loro le Scritture: il Crocifisso non è la sconfitta della speranza messianica, ma la rivelazione di una diversa speranza; non è la negazione della liberazione, ma un diverso modo di intenderla.
«Avevamo sperato»
Viviamo in un mondo che, mentre tenta in ogni modo di esorcizzare il pensiero della morte, ne subisce profondamente l’attrazione. La speranza (Peguy diceva: «La mia piccola Speranza è quella che tutte le mattine ci dà il buongiorno») la incontriamo sempre più difficilmente sul nostro cammino.
«Avevamo sperato»: quanto sconforto c’è in questo verbo coniugato al passato! Vien fatto di pensare a quante cose anche noi abbiamo sperato, legittimamente sperato, senza poi trovare un riscontro positivo alle nostre attese.
Sembra che la storia vada avanti facendosi beffa di chi si ostina a sperare. Chi non ha sperato, per esempio, un tipo di politica più trasparente e più attenta al bene comune? Chi non ha sperato in una società meno violenta, in un costume civile meno corrotto o in una convivenza più pacifica? E per quanto riguarda la chiesa chi non ha sperato, dopo gli anni del concilio, in una primavera della chiesa, gioiosamente aperta a tutti i fermenti evangelici che nascono dal cuore dei credenti?
La tentazione nei momenti di stanchezza, nella caduta delle speranze, è anche per noi, come per i due discepoli, quella di rientrare nelle nostre case, di chiuderci nei nostri piccoli problemi, di non guardare in faccia agli altri.
«Avevamo sperato». «E ora si fa sera»: come è moralmente suggestiva questa parola! Entriamo in una condizione crepuscolare, quando la luce viene meno e contorni delle cose si confondono.
Abbiamo l’impressione che l’oscurità abbia il sopravvento e cancelli la luce. In certi momenti, come i nostri, quando si incrociano tesi opposte su ciò che è lecito e ciò che non è lecito, su ciò che è morale e su ciò che è immorale, su ciò che salva veramente l’uomo e su ciò che lo rovina, si ha l’impressione di non saper più giudicare. Di avere perso il metro di giudizio. Di essere continuamente esposti alla parola più scaltra, più promettente o meno inquietante. Chi ha ragione? Vorremmo capire di più.
Soffriamo di non riuscire a capire di più. E può essere anche che incolpiamo il Signore per questa nostra confusione. Dove si trova il Signore, il Risorto? Crediamo che sia ancora lui a condurre la storia?
Forse siamo nella situazione dei due discepoli che dicevano: «Veramente delle donne sono venute a dirci che egli è vivo». Chissà, forse è vivo, ma è un’ipotesi remota, una diceria poco credibile. E non ci accorgiamo che il Signore è talmente vivo che sta percorrendo la stessa strada che facciamo noi.
Così è avvenuto per i due discepoli. Che cosa ha fatto il Signore per liberarli dalle loro paure? Ha compiuto gesti molto semplici, elementari, umanissimi. Il Signore incontra gli uomini, ma non li convoca a palazzo o in chiesa. Li incontra lungo la strada che essi stanno percorrendo. Il Signore viene a cercarci sulle nostre strade e noi non dobbiamo cercare il Signore altrove, abbandonando il sentiero umano.
In altre parole, non dobbiamo credere che per incontrare il Signore sia necessario appartarsi, separarsi dagli altri, innalzare stendardi come segni di riconoscimento. Il cammino che Dio ci indica è il cammino della vita lungo il quale siamo chiamati a vivere le speranze, le angosce, le pene, i sogni degli altri. Ed è bello osservare anche lo stile con cui Gesù accosta le persone: uno stile fatto di discrezione, di estremo rispetto, di colloquialità aperta e cordiale. È il dialogo che salva.
C’è un bellissimo aforisma che ho trovato citato in una pagina di uno scrittore francese, Michel Tournier: «Il caso è Dio che passa in incognito». A me pare che questa affermazione interpreti molto bene il senso del racconto che abbiamo trovato nel vangelo.
Il caso è rappresentato dall’incontro dei due discepoli con un misterioso personaggio. A un certo punto capiscono che sotto le apparenze di un comune viandante si nasconde la presenza del risorto. Da che cosa lo capiscono? Dal fatto di sentirsi raggiunti da una parola capace di accendere i loro cuori e dai gesti della più toccante convivialità. In altre parole, dall’esperienza di Dio, che è verità e amore.
Capita anche a noi di incontrare persone e situazioni per caso. E può essere che da questi incontri ci rimanga nel cuore un’emozione particolare, per avere ascoltato una parola che ci ha dischiuso una verità profonda o per avere goduto del gesto inatteso di una grande amicizia. Vuol dire che il caso era abitato dalla presenza misteriosa del Cristo pellegrino sulle nostre strade. Tenere gli occhi fissi su di lui, come hanno fatto Cleopa e il suo compagno, ci permette di coniugare il verbo sperare non solo al passato, ma di essere gioiosamente pieni di speranza. Per questo continueremo a sperare e a fare sperare.
La speranza, stile di vita
Dopo aver visto il fondamento della speranza, ci chiediamo ora: come viverla, testimoniarla, renderla credibile? Un’indicazione ci viene dall’apostolo Paolo: «Giustificati dunque per la fede, noi siamo in pace con Dio per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo; per mezzo suo abbiamo ottenuto, mediante la fede, di accedere a questa grazia nella quale ci troviamo e ci vantiamo nella speranza della gloria di Dio» (Rm 5,1-2).
La speranza non è una semplice consolazione. È anzitutto un vanto. Noi ci vantiamo per la consapevolezza di quello che già abbiamo ricevuto e per la promessa di quello che riceveremo. E non è un vanto illusorio perché è legato all’esperienza: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato».
Ma questo vanto non significa che la speranza debba essere predicata, proclamata, gridata di fronte agli altri. Ci muoviamo all’interno di una cultura che pretende verifiche immediate. Non accetta messaggi di parole, ma messaggi di vita. Perciò la speranza deve tradursi nel vissuto, deve calarsi nelle ventiquattr’ore delle nostre giornate, nel lavoro quotidiano, nei rapporti con gli altri.
È inutile che parliamo di speranza eterna se non siamo capaci di trovare e di indicare la speranza immediata. Perché allora quella speranza eterna è alienazione. La vita eterna incomincia qui. Se non incomincia qui, non ha più senso. La speranza cristiana deve diventare pertanto uno stile di vita, un timbro, una nota originale e inconfondibile della nostra esistenza quotidiana.
Proviamo a fissare alcune immagini della speranza. Sperare vuol dire acquistare una condizione di leggerezza, di scioltezza, di libertà di fronte alle cose e agli accadimenti della vita, anche di fronte alla morte. Se siamo continuamente in ansia, se ci preoccupiamo fino all’angoscia di circondare la nostra vita di protezioni e di garanzie, che speranza possiamo dimostrare?
Non si tratta di incoscienza e di irresponsabilità, ma di accogliere e vivere quello che l’apostolo Paolo ci ricorda nella lettera ai Romani: «Se noi viviamo, viviamo per il Signore. Se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore» (14,8). Il nostro futuro è nelle mani di Dio. Per questo, nonostante tutto, ci sentiamo liberi.
Qualcuno ha parlato del cristiano come del giocoliere che procede senza timore sulla corda tesa in alto perché, dovesse pure cadere, avrebbe sotto ad accoglierlo una rete di salvezza. Preferisco però un’altra immagine (quella precedente dà un’idea riduttiva della salvezza quasi fosse un semplice salvataggio). Siamo come l’uccello che, quando il ramo si mette a tremare, continua a cantare perché sa che ha le ali.
Un altro segno della speranza è la capacità di donare, di donare senza attendere nulla, di donare pienamente, di perdonare. Vuol dire essere aperti al futuro, fare affidamento sul futuro di Dio.
Profeta di speranza è anche colui che non sceglie di stare con i vincitori di questo mondo, ma preferisce i poveri, i sofferenti, gli erranti, coloro che non hanno un posto in questo mondo. Chi sceglie di stare con i poveri, dimostra di credere veramente che sono essi l’utopia di Dio in questo mondo, perché «la pietra scartata dai costruttori è diventata testata d’angolo».
La speranza si rivela anche attraverso la fedeltà, la pazienza. Pazienza non in senso passivo. Pazienza come perseveranza, come coraggio, come volontà di affrontare le resistenze, le durezze, le opacità del presente.
La speranza non si nutre mai dell’evidenza. È anteriore alle verifiche. È un «assoluto». In un mondo che non conosce più i tempi lunghi della speranza, la speranza cristiana è un segno sorprendente e inquietante.
«Amen, vieni, Signore Gesù»
In un racconto del Talmud si narra che un giorno un rabbi, volendo prepararsi bene al giudizio finale, immaginò quali domande il Giudice del mondo avrebbe potuto rivolgere a un giudeo: hai osservato i comandamenti? ti sei comportato correttamente negli affari? hai cercato la saggezza? Ma, alla fine, pensò che la domanda decisiva potesse essere un’altra: hai sperato nel mio Messia?
Per noi cristiani il Messia è venuto, e ne aspettiamo il ritorno. E possiamo immaginare che le domande che ci sentiremo rivolgere saranno queste: hai conservato la speranza? hai saputo sperare in me? hai perseverato fino alla fine? Sono domande che definiscono le nostre responsabilità di credenti soprattutto oggi, quando le speranze umane sono difficilmente praticabili.
La carità più grande che possiamo fare al nostro mondo è quella di avere sulle labbra, nel cuore, e soprattutto nella trasparenza di tutta la nostra vita, il grido che si trova nell’Apocalisse: «Amen, vieni, Signore Gesù» (20,20).
Grazie infinite.
Cristianesimo è la fede sia come credo sia come speranza. Parola fede è l’amore, credo, la verità e speranza.
Cristianesimo Apostolico Cattolico Ortodosso
Una lectio divina preziosa. Grazie don Gianni!