Il Libro di Qohèlet

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brunetto

Teologo e giornalista, scrittore e docente di Missiologia e Teologia del dialogo interreligioso presso la Facoltà teologica dell’Emilia-Romagna e gli Istituti di scienze religiose di Modena, Bologna e Rimini, Brunetto Salvarani è un profondo conoscitore della Bibbia e della tradizione ebraica.

Con stile accattivante e numerose citazioni di autori ebrei e di pensatori di tutti i secoli, fino alla contemporaneità, egli traccia un filo interpretativo di un testo biblico davvero intrigante e problematico a livello ermeneutico.

La tradizione ebraica lo accolse a fatica nel canone e anche la tradizione cristiana è sempre stata scossa dal tono pessimistico e alieno dalla grande tradizione religiosa che menzionava il Dio di Israele a ogni piè sospinto.

Secondo Salvarani, il libro fu composto dopo l’esilio babilonese e dopo che era svanito l’entusiasmo della riforma postesilica di Esdra e Neemia. Probabilmente fu redatto nella seconda metà del III secolo a.C., in un momento storico delicato per Israele, «all’epoca piccola circoscrizione amministrativa della monarchia egiziana tolemaica, e sicuramente ben prima di quel vero e proprio revival della fede dei padri che caratterizzerà la stagione dei Maccabei» (p. 23).

L’anziano re Salomone

Seguendo uno spunto offerto dalla tradizione ebraica, Salvarani immagina narrativamente che l’anziano re Salomone, a cui è attribuito lo scritto, si ritiri solitario nel deserto di Giuda e lì ripercorra la propria vita, facendone un bilancio molto realistico.

«Colui che parla nell’assemblea/Qohèlet/Ecclesiaste» rappresenta un classico testo della corrente letteraria ebraica di natura sapienziale. Appartiene al blocco dei Ketubim/Gli Scritti. Essi non narrano le grandi gesta della storia della salvezza, ma insegnano l’arte del ben vivere, tramite un’attenta osservazione della realtà come si presenta agli occhi di uno che voglia riflettere sulle cose e non passarci sopra superficialmente.

I riferimenti a Dio sono molto scarsi e Qohèlet non è un testo molto “religioso”, a parte l’aggiunta finale degli ultimi versetti in cui si parla di comandamenti di Dio (elementi ai quali non si accenna mai nel testo).

Vanità, pessimismo o realismo?

L’anziano re è colpito dalla «vanità» di tutte le cose, forse non in senso morale di vacuità e negatività, ma in quello di vaporosità, evanescenza, instabilità, non durevolezza, transitorietà ecc. Tutto è soffio, realtà passeggera.

Egli constata come il mondo presenti aspetti ineludibili di ingiustizia, assurdità, inspiegabilità, contraddittorietà, ripetitività ciclica degli eventi, conseguenze gravi di decisioni prese a cuor leggero.

Il mondo presenta aspetti di ordine e di completezza, con le cose esistenti due a due, una di fronte all’altra per completarla. C’è un tempo per ogni cosa sotto il sole, ma non sembra che ci sia una grande differenza tra la sorte di chi si comporta in modo corretto e il malvagio che sfrutta la situazione. La differenza fra il saggio e lo stolto è che il primo può camminare con la luce in fronte, ma non andrà incontro a una sorte diversa dal secondo.

Le cose talvolta si presentano alla rovescia rispetto a quello che dovrebbe essere la loro giusta natura e il loro giusto esito. Come uno degli esempi, si cita il fatto del ricco che finisce nel nulla e lascia a figli degeneri la propria ricchezza, mentre invece uno stolto può arricchirsi in modo rapido e non sempre corretto.

Il vecchio re si ricorda di aver provato tutte le esperienze che la vita gli presentava o che lui sceglieva: lo studio, la saggezza, la pazzia, il piacere sessuale sfrenato, l’ubriacatura… Ma egli annota che ogni esperienza non faceva che aumentare il dolore della vita, la fatica del vivere in un modo che non presenta un senso lineare da seguire per trovare serenità.

Il re si ricorda di aver persino dubitato che, alla fine della vita, il soffio dell’uomo salga davvero a Dio e quello della bestia vada in basso, oppure che a tutti e due sia riservata la stessa sorte.

«Questo è il male in tutto ciò che accade sotto il sole – osserva Qohèlet –: una medesima sorte tocca a tutti e, per di più, il cuore degli uomini è pieno di male e la stoltezza dimora in loro mentre sono in vita. Poi se ne vanno tra i morti.

Certo, finché si resta uniti alla società dei viventi, c’è speranza: meglio un cane vivo che un leone morto. I vivi sanno che devono morire, ma i morti non sanno nulla; non c’è più salario per loro, è svanito il loro ricordo. Il loro amore, il loro odio e la loro invidia, tutto ormai è finito, non avranno più alcuna parte in tutto ciò che accade sotto il sole» (9,3-6).

Non mancano le osservazioni su una certa ciclicità del tempo e della storia, sul fatto cioè che le cose tendono a ripetersi e non si presentano mai come un’inedita novità rispetto al passato (l’historia magistra vitae regge?).

Affiorano sfumature di ineluttabilità delle perdite e delle conseguenze negative di realtà impostate male fin dall’inizio. Il titolo del libro di Salvarani cita la seconda parte di Qo 1,15, che per intero suona: «Ciò che è storto non si può raddrizzare e quel che manca non si può contare».

Salvarani accosterà questa riflessione anche alla precaria esistenza di Israele nella storia, e alle tragiche situazioni di annientamento subite, non ultima quella del 7 ottobre 2023. (Certo non va dimenticata l’immane e ingiustificabile carneficina di bambini e civili di Gaza seguita a quella orrenda strage…).

Gioisci!

In Qohèlet non brilla la speranza in una vita ultraterrena. Molti versetti del libro rasentano l’eresia religiosa e l’agnosticismo, mentre altre pagine sono intrise di un senso che apparirebbe di aperto pessimismo.

Quello di Qohèlet non sembra però puro pessimismo, quanto un crudo realismo a tutto campo, senza vie di fuga che diano risposte facili e rassicuranti a problemi profondi e irrisolvibili a livello umano.

Qohèlet non sarà stato un maestro di gioia, come qualche interprete biblico alcuni anni fa aveva etichettato questo sapiente. Eppure, nel testo non mancano una manciata di affermazioni positive che invitano a godere con giusta moderazione delle cose belle della vita: la giovinezza, i capelli neri, il buon cibo e il buon vino, l’amore con la donna amata, la spensieratezza dei primi anni della propria vita, le vesti candide, il profumo sul capo…

I passi in questione non sono un inno a uno sfrenato epicureismo, quanto a un equilibrato godimento delle gioie della vita ricevuta in dono, nella piena coscienza di dover un giorno comparire davanti a Dio che chiederà conto di come si sarà vissuto.

Salvarani accosta il pensiero di Qohèlet su come godere delle gioie della vita alla pagina di Paolo che in 1Cor 7 invita i cristiani a vivere «come se», nella coscienza della non definitività delle realtà umane, mentre irrinunciabile resta il rimanere nella situazione in cui un discepolo di Gesù è stato chiamato, quella della fede e del battesimo.

Qohèlet e la fede di Israele

La coscienza religiosa non è assente in Qohèlet, ma è posta sullo sfondo della riflessione estremamente realistica della contraddittorietà della realtà e della vita umana nel suo complesso. Il saggio re apprezza la vita, gusta il sole e il suo calore e non la notte o il circolo di una vita senza capo né coda.

Stratosferico ed eterno rimane il carico poetico della pagina dedicata all’invecchiare (12,1-8), al venir meno inarrestabile, sgocciolante ed evaporante di ogni realtà bella e positiva, aperta al canto e al gusto delle cose che si sperimentano sotto il sole.

La drammaticità della vita con le sue contraddizioni, in cui Dio appare assente, rende Qohèlet un testo molto vicino alla nostra mentalità postmoderna, agli abitanti di questo mondo che sembra essere senza orizzonti e con cieli chiusi, alla fine della storia secondo Fukuyama.

«La verità qohèletica si mantiene sfuggente, pericolosa, ingestibile, col suo prendere le mosse costantemente dall’osservazione empirica delle cose e delle situazioni, più che dai dogmi o da verità rivelate – osserva Salvarani –: Le parole dei saggi sono come pungoli, e come chiodi piantati sono i detti delle collezioni… (Qohèlet 12,11). Ciò che appare evidente – continua lo studioso – è che Salomone/Qohèlet, qualora si intenda prenderne sul serio la vicenda, demolisce efficacemente quella sintesi umana e teologica che la fede di Israele aveva faticosamente elaborato nel corso dei secoli, da Abramo all’esilio babilonese, ma non sembra in grado di indicarne una nuova: il che lo avvicina alquanto all’uomo “maggiorenne” di oggi, senza più eventuali rifugi in religioni consolatorie o nei “grandi racconti” delle filosofie assolute, per le quali l’aldilà è divenuto, nella migliore delle ipotesi il “Grande Forse” (secondo la suggestiva denominazione di François Rabelais ripresa da Ernst Bloch)» (pp. 125-126).

Leggere Qohèlet significa, per Salvarani, non scordare mai che «la Bibbia ebraico-cristiana e il canone non costituiscono l’affermazione di un’unica idea, un’unica concezione di Dio, del cosmo e dell’uomo, ma un campo di tensioni non di rado laceranti, all’interno del quale varie teologie e svariate antropologie si confrontano, talvolta si scontrano ed entrano in vicendevole relazione. Significa che la verità biblica, se ben intesa, ha carattere sinfonico e plurale» (p. 128).

«Sono convinto – annota Salvarani – che diversi credenti, oggi, alla maniera di Salomone/Qohèlet, siano portati a sperimentare la perdita della fede come versante negativo di un amore positivo per questa terra. A suo modo, infatti, l’autore dell’Ecclesiaste, mascherato da sovrano viandante e sapiente (questo straordinario “profeta senza profezia”), ama profondamente la terra qui ed ora, e la desolazione che prova deriva dal fatto che tale amore rimane troppo spesso deluso! (p. 131).

A questo punto lo studioso si domanda: «Possono essere detti ancora credenti donne e uomini che trovano in qualche modo insignificanti, o almeno non decisive, le proposizioni riguardati l’aldilà? La coscienza moderna, come svolta epocale verso l’aldiqua, ritiene l’aldilà come una dimensione del tutto ipotetica e ininfluente nei confronti della vita umana; ed è proprio Qohèlet – continua Salvarani – a suscitare una simile problematica, drammatica e attualissima. Ma quanti come lui, nel primo e nel Nuovo Testamento, a ben vedere proclamano che di fatto possono darsi fede, speranza e amore, pur senza avere davanti agli occhi una vita futura ultraterrena! Abramo, e gli altri giusti di Israele, erano credenti, ma ad essi era sprangato lo sguardo oltre la morte» (ivi).

Alla conclusione del suo libro, lo studioso riporta il testo biblico di Qohèlet nella traduzione ufficiale della CEI2008 (pp. 137-153).

Il volume di Salvarani si pone come una ricca e pensosa riflessione sul testo forse più problematico dell’intera Bibbia, nello sforzo continuo di rapportare la riflessione dell’anziano re «Salomone» alle domande più profonde che si pone anche la generazione contemporanea degli uomini che non hanno rinunciato a pensare (o a credere) anche nella contraddittorietà del vivere attuale.

  • BRUNETTO SALVARANI, Quel che manca non si può contare. Re Salomone e il libro di Qohèlet (Studi biblici), EDB, Bologna 2024, pp. 156, € 17,00, ISBN 9788810978610.
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