“Tu es sacerdos in aeternum” – quante volte abbiamo sentito o cantato questo versetto del Salmo 110, ma non per Pasqua, solo per festeggiare un prete più o meno nuovo. E sbagliavamo, come vedremo.
La frase viene dalla lettera di san Paolo – o di un suo discepolo – scritta per Ebrei già cristiani ma in crisi di fede; essi infatti erano tentati di abbandonare la fede in Cristo per tornare nel loro tradizionale Giudaismo, al vecchio splendido culto del tempio e dei pontefici e sacerdoti di Gerusalemme: lì, pensavano, c’è il vero sacerdozio, ossia il vero culto e la vera mediazione o alleanza tra Dio e il popolo di Israele; non altrove nemmeno in quel Cristo annunciato dalla Chiesa apostolica, tanto più che era finito come un “maledetto” secondo la legge e i suoi sacerdoti!
Una frase sfruttata male
La lettera o epistola invece tende tutta a far recuperare quella fede, soprattutto la fede in Gesù come Cristo-re e sacerdote, mediatore del vero culto e dell’autentico rapporto tra Dio Israele (e l’umanità). A questo tendeva anche la frase “Tu – Gesù – es sacerdos in aeternun”.
Quel testo e il suo tema ha una lunga storia. Richiamato più volte nel Nuovo Testamento, a cominciare dai Vangeli, insieme con la proclamazione di Gesù come re-signore-vincitore di forze nemiche come e più del re Davide (per esempio in Mt 22,41-45; Atti 2,34-35; 1 Cor 15,25-27). Quindi con allusioni anche alla vittoria pasquale di Gesù. Ma quel testo è richiamato e sviluppato soprattutto, appunto, nella lettera agli Ebrei.
Attenzione al Salmo 110
Iniziamo però con il Salmo, che è forse uno dei più antichi della tradizione ebraica, tanto che ne è difficile già la stessa traduzione e il senso preciso di alcune frasi. Noi accettiamo con sufficiente fiducia l’ultima traduzione della Cei. Attribuito a Davide re e cantore, a volte anche facente funzioni sacerdotali e profetiche, il Salmo si apre con un solenne suo oracolo: Il Signore Iddio disse al mio signore – il futuro suo discendente come re – “Siedi alla mia destra finché io ponga i tuoi nemici a sgabello dei tuoi piedi. Lo scettro del tuo potere stende il Signore Jahwè da Sion, domina in mezzo ai tuoi nemici”.
Questo dominio sui nemici ritorna alla fine del Salmo con particolari anche violenti, mentre l’ultimo versetto sembra alludere al vigore di quel re: avrà a disposizione anche acqua di torrente così da poter sollevare la propria testa durante la fatica della battaglia con cui invece lui schiaccerà la testa dei nemici.
In mezzo tra i due brani sulla regalità del “signore di Davide” ne sta uno che riguarda la sua origine e il suo sacerdozio. L’origine di quel “signore” è adombrata – non ben chiara perché il testo ebraico è incerto – con l’immagine della rugiada: per allora essa, specialmente se abbondante come d’estate, era come un piccolo mistero: donde proveniva se non era piovuto?
Risposta: per amore di Sion, al mattino presto, JHWH aveva soffiato sulle nevi dell’alto Libano e in forma di nubi le aveva spinte vero sud fino ai colli di Sion e lì sciolte in gocce di rugiada, garantendovi freschezza e fertilità. Simile alla rugiada era dunque la nascita del Signore di Davide? Bella immagine, ma purtroppo non certa.
Il sacerdozio di Melkìsedek
Invece è chiara l’affermazione che egli era anche sacerdote. Mentre sulla sua regalità la lettera agli Ebrei slitta veloce, invece sviluppa molto il suo sacerdozio (cap. 7-10) partendo proprio dal v.4 del Salmo: “Il Signore Dio ha giurato e non si pente: Tu sei sacerdote in eterno al modo di Melkìsedek”.
La lettera ne sviluppa, in modo anche molto complicato e libero, i vari elementi: ci fu alla base un giuramento solenne divino inviolabile e fondamentale: si tratta di un sacerdozio eterno, non limitato dalla morte, come invece lo erano tutti i sacerdoti ebrei e non solo di allora; e di un sacerdozio al modo di Melkìsedek, non a quello di Levi-Mosè-Aronne.
Di Melkìsedek aveva parlato la Genesi al cap. 14,17-20: considerato “sacerdote del Dio altissimo”, egli però non era ebreo ma cananeo ed era anche re di Salem (antico nome di Gerusalemme), dunque dotato di un sacerdozio misterioso e originalissimo! Per di più a lui il grande patriarca ebreo Abramo rese omaggio come un suddito al suo re. Inoltre, mentre di altri personaggi la Genesi parlava come di discendenti da genitori, di lui invece no: quale origine dunque aveva? La lettera ne approfitta per riaffermarne un’origine misteriosa, divina.
Tutto viene applicato a Gesù che, nonostante la sua morte da maledetto e subita con forti lacrime, “divenne causa di salvezza eterna per tutti coloro che gli obbediscono” (Eb 5,6-9). E quindi vero ed eterno mediatore di nuova alleanza e fonte del vero culto a Dio, per Ebrei e pagani, per tutti. E anche un re che non schiaccia la testa a nessuno ed è re di “giustizia e pace”.
Il sacerdozio personale di Gesù…
Questo dunque il messaggio di una grande e forte fede ri-trasmesso dalla lettera a quei cristiani ebrei in crisi, a noi, a tutti. Abbiamo noi una fede simile in Gesù vero e unico mediatore di salvezza, di pace, di Vita, di amore? Non neghiamo valore ad altre mediazioni religiose e naturali, come il denaro, il lavoro, la salute, la famiglia, la scuola, gli amici…la lettura dei libri sacri, Madonna, Santi e la Chiesa.
Tuttavia la prima mediazione alla vera Vita rimane per noi quel Gesù che, “con forti grida e lacrime”, si è fatto nostro fratello e si è chinato anche ai piedi di Giuda per lavarglieli. Il suo Dio infatti, di cui è il mediatore, è un Dio così tanto grande (Allà akbàr gridano a loro modo anche i musulmani!) che è capace di piegarsi, di rispettare anche il figliol prodigo, di risollevarlo dalle sue sconfitte. Un Dio che ci rispetta così tanto? Lo crediamo sulle sue parole. A volte però fatico a crederlo e altre volte lo pregherei di non rispettarci troppo…
…e quello della Chiesa
Un’ultima domanda: dove è finito il sacerdozio di Gesù? Risposta moderna: nel sacerdozio del clero. Sbagliato. La lettera agli Ebrei scrive: “Per mezzo di Gesù dunque offriamo (tutti!) continuamente (in ogni momento e luogo) un sacrificio di lode, cioè il frutto di labbra che confessano il suo nome. Non dimentichiamoci della beneficenza e e della comunione dei beni, perché di tali sacrifici il Signore si compiace…” (Eb 13,15-16).
Ancor più eloquente san Paolo in Rom 12, 1-2: “Vi esorto dunque per la misericordia di Dio a offrire i vostri corpi (!) come sacrificio vivente, santo, gradito a Dio: è questo il vostro culto logico” (ossia conforme al logos-parola di Dio (cf. 1Pt 2,4-5; Gv 4,23).
Popolo di Dio dunque tutto quanto abilitato e chiamato a rendere culto a Dio e a esserne anche un pur modesto e limitato mediatore nei riguardi di tutta l’umanità! Se ne parla oggi come del sacerdozio “comune” di tutti i fedeli, sottintendendo che quello vero è solo quello del clero e dei sacramenti; ma così siamo un po’ fuori strada. Con l’idea di due sacerdozi!
Sacramenti, specialmente l’Eucaristia, hanno il loro posto nel culto e nel sacerdozio della Chiesa, ma senza dividerli dal complesso della vita di tutta la Chiesa e senza imprigionarlo in momenti, giorni, ambienti, classi e riti sacri (quante messe avrà detto san Paolo e con quali riti nella sua vita di giramondo, incarcerato e naufrago?).
Su quella strada stava la Chiesa antica, forse fino al concilio di Trento, poi smarrita in un falso e polemico clericalismo (polemica con Lutero); ora viene recuperata – a fatica – dal concilio Vaticano II e, guarda caso, anche in occasione dell’epidemia che stiamo vivendo!
Controprova: nel NT i membri del clero cristiano non sono mai chiamati sacerdoti o pontefici (né tanto meno alter Christus!), ma sempre e solo: presbiteri, episcopi, diaconi e diaconesse, capi, pastori, guide, presidenti dentro un popolo tutto (comprese quindi le donne) filiale-sacerdotale-profetico-regale (cf. anche Eb 13, 7.17.24). Poi si cambiò linguaggio e mentalità. Stiamo recuperando allora un più cristiano equilibrio, una giusta sinodalità tra pastori e laici/e? Speriamolo.
Quindi canteremo ancora il Tu es sacerdos in aeternum?… Facciamolo pure, con qualche attenzione nuova e più cristiana, e quindi anche pregandolo come ci suggerisce la sua attenta lettura.