Le riflessioni del monaco di Bose (nato a Biella nel 1951), qui pubblicate in seconda edizione (la prima è del 2018), fanno seguito a quelle riguardanti il libro della Genesi e quello dell’Esodo. Il volume si presenta quindi come la conclusione di una trilogia.
Alberto Mello ha insegnato per molti anni Antico Testamento allo Studium Biblicum Franciscanum, dedicandosi in modo particolare all’esegesi rabbinica, traducendo numerosi midrashim e antichi commentari ebraici tradizionali.
I libri del Levitico e dei Numeri sono fra i meno conosciuti (e forse poco amati) dai lettori del testo biblico. Non appaiono molto accattivanti, ma sottolineano un dato importante sulla realtà di Dio: la sua santità.
Il libro del Levitico raccoglie un insieme di leggi morali e religiose date da Mosè durante il cammino nel deserto al momento dell’uscita di Israele dalla schiavitù egiziana.
Il libro dei Numeri narra, invece, per lo più gli eventi intercorsi durante la peregrinazione del popolo.
Entrambi i libri insistono sulla santità di Dio. Essa indica separatezza, alterità, trascendenza – una spiegazione non accettata da tutti, nota Mello – ma anche potenza vitale ed esigenza morale. I rituali e le leggi menzionati in questi libri sono ormai desueti, ma concorrono ancora oggi a creare una siepe di santità attorno a Dio, per proteggere il mistero della vita.
Il volume di Mello si apre con un esergo che cita un bel testo di Pino Stancari che guida subito il lettore nella riflessione sulla santità di Dio, molto sottolineata in questi due libri biblici. La santità infatti è la vita! «Il mistero di Dio, ciò per cui Dio è Dio, ossia la sua santità, è la vita! Quando si dice che Dio è santo, si intende dire di lui che è la pienezza della vita. Il mistero di Dio è mistero di vita; mistero, certo, ma anche pienezza: mistero vivo, mistero attivo, mistero traboccante. Parlare della santità di Dio, dunque, significa parlare della vita: il Santo è il Vivente! (Pino Stancari, Per una teologia della vita)» (p. 9).
Il sacrificio: un disagio
Mello esprime apertamente il suo disagio – che non è solo suo! – di fronte a categorie come quella del sacrificio, che non ha sempre una valenza espiatoria, e quella generale della “sacertà”, che possono dare adito a forme di violenza religiosa.
Egli chiamerà in aiuto più volte l’antropologo René Girard, che ha studiato a fondo questi temi. Una critica a lui rivolta dall’autore è quella di aver ricondotto ogni specie di sacrificio – che presentano un’ampia gamma di attuazione – al prototipo del capro espiatorio.
In origine, non tutti i sacrifici – che nella designazione generale di qorban indica “avvicinamento” – avevano un valore espiatorio. «In ogni caso, nessun sacrificio è in grado di espiare dei peccati gravi, come l’omicidio o l’adulterio, per non parlare dell’idolatria. Questa è una premessa importante per accostarsi alla Torà sacerdotale: quella espiatoria non è l’unica possibile chiave di lettura» (p. 24).
Nella teologia rabbinica, in assenza del dispositivo sacrificale, gli strumenti di espiazione dei peccati sono quattro, in precisa sequenza: la conversione – intesa come pentimento e confessione dei peccati –, le sofferenze, il giorno dell’espiazione (yom ha-kippurim) e la morte. Questi strumenti espiatori (quasi “sacramenti”) sostituiscono i sacrifici, perché, anche nel giorno dell’espiazione, non si fa ricorso al capro emissario, ma solo alla preghiera e al digiuno.
Anche nel cristianesimo si passa dai sacrifici ai sacramenti. Gesù non ha mai offerto sacrifici votivi, di ringraziamento o di purificazione, se si eccettua quello offerto al tempio in occasione della sua nascita.
Gesù ha frequentato il tempio per insegnare e non per offrire sacrifici. «I sacrifici del tempio non sono nel dna del cristianesimo» (p. 25).
Anche Pesach è un sacrificio diverso dagli altri e il Levitico lo menziona di sfuggita tra le festività, quale pasto familiare di un agnello, senza mediazione sacerdotale.
YHWH non ha comandato dei sacrifici lungo il cammino nel deserto e i sacrifici menzionati nel Levitico sono verosimilmente quelli praticati nel tempio di Gerusalemme nel postesilio, se non anche prima.
Senza cadere in allegorismi forzati, Mello legge i testi da cristiano, ma si lascia illuminare anche dalle interpretazioni classiche ebraiche, antiche e moderne (Milgrom, Halbertal, Lévinas).
L’interpretazione sacrificale ebraica si distingue chiaramente da quella cristiana, ma può essere sempre un utile correttivo anche per i cristiani. Da laico, monaco qual è, Mello preferisce la letteratura profetica alla teologia sacerdotale dell’AT (e questa letta alla luce della profezia).
Il libro dei Numeri presenta, da parte sua, una teologia meno strutturata, tesa a chiarire quella del Levitico. Dopo Levitico (pp. 9-150) Mello decide quindi di commentare solo la parte finale del libro di Numeri (Nm 10–25, pp. 151-214), di carattere narrativo, che ricorda il percorso dal deserto del Sinai alle steppe di Moab, con il grande impedimento a entrare nella terra «promessa» o «permessa».
Logica sacrificale e dono profetico. Sacro e santo
Nelle prime pagine delle sue riflessioni sul libro del Levitico, Mello si dedica ad esaminare il rapporto fra la logica sacrificale e il dono profetico. Sono pagine che danno la chiave di lettura corretta (e cristiana) per libri molto particolari come Levitico e Numeri.
«Sacrificare» può avere vari significati: «sacrificare a» («offerta di un dono») e «sacrificarsi per» («rinunciare a un bene proprio per un bene più grande». Ma anche l’offerta di sé può avere una valenza negativa, ad es. nel caso di un kamikaze.
Il sacrificio non è giustificato quando compromette la vita di altri (cf. Mosè e Isacco). «Sacrificio» significa «sacrum facere – rendere sacro», sacralizzare una vittima innocente e inconsapevole. Nell’AT e in altre religioni questo comporta un atto di violenza. Il sacro è violento, una violenza insidiosa perché legittimata dalla comunità.
Circa l’origine del sacrificio, Mello cita come la più convincente la teoria antropologica di R. Girard. Il sacrificio si connota come “sacro” quando una comunità minacciata nella sua sopravvivenza dalla discordia, canalizza la propria violenza su una vittima innocente, incapace di difendersi. Questo compatta la comunità, che ritiene indispensabile questa violenza per assicurarsi la sopravvivenza. Essa è istituzionalizzabile e ripetibile. Una violenza unanime e arbitraria, senza rischio di vendetta. Tutta la comunità è contro uno solo, la vittima. Il sacrificio è la violenza ultima, l’ultima parola della violenza.
Nella storia della religioni
Il concetto di «sacro», usato nella storia delle religioni, «si definisce comunemente come un potere “affascinante e tremendo” – scrive Mello –. Affascinante, perché dotato di una forza irragionevole, ma necessaria a favorire la coesione del gruppo (totem), e tremendo, proprio perché questa forza, incontrollabile, è potenzialmente punitiva (tabù). Vi è dunque un’intrinseca ambiguità di ciò che noi cataloghiamo sotto questo termine» (p. 16).
Secondo l’autore, è meglio distinguere fra “sacro” (lat. sacer) e “santo” (lat. sanctus). In ebraico la radice qdš ha vari significati, con alla base l’idea di separazione, di differenza, di trascendenza (spiegazione non accettata da tutti).
Per “sacro” intendiamo qualcosa che si pone fuori del controllo umano, dello spazio terreno, “profano”. Sacri sono oggetti o luoghi che richiedono una manipolazione perché non diventino pericolosi. La prima alleanza è avvenuta in un contesto sacrale spaventoso (cf. Es 19,12-13; cf. 2Sam 6,6-7: Uzzà muore per aver toccato l’arca pericolante). È all’opera un potere arbitrario e incontrollabile.
Anche Isaia ha avuto un’esperienza bruciante della santità di Dio. Egli si sente impuro, inadeguato a profetizzare. La coscienza etica dell’insufficienza morale di fronte al compito profetico debordante abilita Isaia e altri profeti a denunciare il culto sacrificale e una visione sacrificale della vita disgiunta da un comportamento morale corretto. Is 11,1-7 è una critica devastante di questa logica («… sono sazio degli olocausti di montoni… l’incenso per me è un abominio… non posso tollerare delitto e solennità… io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso… Cessate di fare il male, imparate a fare il bene, cercate la giustizia»).
La radice qdš presenta, quindi, un’ambiguità simile a quella fra sacro e santo. Può indicare separatezza e alterità, quasi un tabù religioso e alimentare, l’affermazione di un Dio così lontano da richiedere preparazione per avvicinarlo. Nei profeti assume un significato etico che può anche alludere a rettitudine e giustizia.
Secondo Mello, il libro del Levitico, molto incentrato sul tema della santità di Dio, è un importante testimone del passaggio dal sacro al santo. Lv può essere una preparatio evangelica, se se ne coglie l’intenzionalità e si è capaci di vedere l’inizio del superamento. Secondo l’autore, anche il titolo del libro è fuorviante, perché i sacrificatori sono sacerdoti figli di Aronne e non i leviti (che hanno funzioni secondarie, a differenza di quelle esercitate nel libro dei Numeri…).
Gesù non è sacerdote né levita. Non vive una logica sacrificale e anche la sua morte va vista alla luce della sua vita, connotata dal dono gratuito di sé. Seguendo Girard, Mello sostiene un significato non sacrificale della morte di Gesù. Gesù vuole misericordia, non sacrifici. Dove questa sua parola non viene obbedita, la violenza resta padrona ed egli deve morire.
Il superamento dei sacrifici è, per Mello, già chiaramente inscritto nella letteratura profetica. Già dopo la distruzione del tempio l’economia sacrificale subisce una regressione. Non era indispensabile.
Come è stata superata? Gesù sostituisce la violenza sacrale su una vittima innocente e inconsapevole con il dono profetico della propria vita per amore degli amici e anche dei nemici. «Gesù non è il capro espiatorio, è l’agnello di Dio che rivendica la propria innocenza. In questo modo, la croce di Gesù smaschera il meccanismo sacrificale, rivelando “cose nascoste fin dalla fondazione del mondo”. Rivelando, esattamente, che la logica mondana si fonda proprio sulla violenza sacrificale, fin dal tempo di Caino e di Abele» (cf. Lc 11,50-51; p. 21).
Conclude Mello: «Non c’è mai stato passaggio così radicale dal sacro al santo come nel Vangelo, e oggi non possiamo più leggere dei libri come il Levitico o i Numeri se non alla luce di questo passaggio definitivo e non violento» (ivi).
Levitico: i sacrifici
Lo studioso passa quindi a esaminare la Torà dei sacrifici (Lv 1–5), riflettendo sulla vocazione alla santità. Dopo l’olocausto di soave odore (Lv 1), si esamina l’oblazione pura (Lv 2), il sacrificio di comunione (Lv 3), un rito di purificazione (Lv 4 e 12), la riparazione e il debito (Lv 5).
Solo espiatori?
Nell’immaginario comune si pensa che i sacrifici dell’AT siano stati tutti di tipo espiatorio, con spargimento di sangue. Mello fa vedere come i sacrifici fossero di vario tipo: olocausto (con consumazione totale nel fuoco), di riparazione, di riscatto, di purificazione, di comunione, di rendimento di grazie ecc. Nell’offerta dell’oblazione di soave odore, il profumo dell’incenso è determinante e non c’è spargimento di sangue. Così nell’oblazione pura.
Mello studia accuratamente la terminologia indicante i vari tipi di sacrificio. Il termine più generico per designare il sacrificio è qorban, offerta che avvicina. È un atto compiuto per avvicinarsi a Dio.
Altro termine, molto antico, per indicare il sacrificio è zebach “scannatoio”, da zabach, “scannare”. Esso rimanda alla purificazione, compiuta sull’altare (mizbeach). Se il dono di YHWH (matteh) non si può rifiutare, l’offerta (minchah) fatta dall’uomo può essere rifiutata da YHWH. Per questo l’offerente cerca di seguire tutte le minuzie delle norme previste perché vuol essere certo che l’offerta sia gradita e accetta a YHWH. Nell’offerta c’è l’intenzionalità di donare sé stessi a Dio. Quindi, anche nel Levitico non c’è solo la logica sacrificale sacerdotale, ma ci sono elementi di spiritualità che alludono a un superamento della pura logica sacrificale di tipo sacerdotale.
Il superamento della logica sacrificale sacerdotale avverrà progressivamente con la parola dei profeti e troverà il suo compimento nel NT, in Gesù.
Il sacrificio espiatorio è uno solo dei tipi di sacrificio. Anche l’agnello pasquale, inizialmente, non era un sacrificio espiatorio, ma un pasto di comunione di tipo familiare, apotropaico, per tener lontano dalla tenda/casa l’angelo distruttore.
Il sacrificio può essere anche di purificazione e di riscatto. «Asham è una “riparazione” dovuta al prossimo e può anche essere il riscatto di una vita. Questo ci consente forse di interpretare più adeguatamente un testo profetico che ci presenta l’offerta della propria vita come una “riparazione” o “debito” (asham), vale a dire il famoso passo che riguarda il Servo sofferente di Is 53,10: “Se porrà (o porrai) sua vita in riparazione, vedrà una discendenza, vivrà a lungo, si compirà per mezzo suo la volontà del Signore”».
Espiazione e riparazione/riscatto sono due aspetti presenti nel verbo kipper. L’offerta di sé compiuta dal Servo di YHWH è un sacrifico di riscatto, di riparazione, a favore delle persone. «Che differenza fa? Soprattutto una, che il nostro verbo “espiare” si dice sempre in riferimento a una colpa, a dei peccati. Il verbo “riscattare”, invece, si dice delle persone, delle vite. Si può riscattare uno schiavo, un prigioniero, un povero, un indebitato e lo si può fare per amore, per compassione, a prescindere dal peccato che gli possa essere addebitato» (p. 50).
Il sacrificio di riparazione/riscatto del Servo di YHWH è anticipo del dono della propria vita che Gesù farà di sé. Non un sacrificio espiatorio, ma un’offerta di riscatto. Lì sarà completamente manifesto che il gesto di Gesù, espressione di tutta la sua vita, non è di tipo espiatorio, ma l’offerta volontaria della vita per gli altri, fatta con generosità, da parte di un innocente.
Alla fine del settimo capitolo del Levitico, si leggono delle note riassuntive, che inseriscono le leggi sui sacrifici all’interno della struttura narrativa dell’Esodo: «Questa è la legge per l’olocausto, l’oblazione, il sacrificio per il peccato, il sacrificio di riparazione, l’investitura sacerdotale e il sacrificio di comunione: legge che il Signore ha dato a Mosè sul monte Sinai, quando ordinò agli Israeliti di presentare le offerte al Signore nel deserto del Sinai» (Lv 7,37-38).
«Questa precisazione è utile – annota Mello –, perché ci ricorda il contesto non tanto storico quanto teologico da cui trae origine l’economia sacrificale: cioè il Sinai, l’alleanza. Tutto questo dispositivo complicato, ripetitivo, farraginoso che stiamo leggendo è un tentativo più o meno riuscito di mantenere in vigore l’alleanza sinaitica, che era stata sigillata da un sacrificio di comunione» (p. 53).
Secondo lo studioso, «è assolutamente evidente la volontà dei redattori sacerdotali di ricondurle a quell’evento originario della storia d’Israele che è l’incontro con Dio sul Sinai, di cui è stato mediatore Mosè. Tutta la legislazione sacerdotale, da Es 25 fino a Nm 10, e quindi anche tutto il libro del Levitico, è un blocco liturgico che interrompe la narrazione dell’Esodo. La interrompe, ma con l’intenzione di perpetuare, istituzionalizzandola, l’esperienza originaria della comunione sinaitica. La Torà dei sacrifici costituisce una lunga sosta ai piedi del monte Sinai, ma aspira, proprio per questo, ad essere parte dell’evento fondatore che vorrebbe riattualizzare» (p. 54).
Lv 6–10 descrive il servizio sacerdotale, una cosa santissima (Lv 6–7 e 24). Seguono i capitoli dedicati al Sacerdote Unto (Lv 8), alla Presenza divina (Lv 9) e al fuoco sacro (Lv 10).
I cc. 11–16 sono dedicati a realtà concernenti la sacertà e purità. Si trattano i tabù alimentari (Lv 11), le malattie contagiose (Lv 13–14), la purificazione del santuario (Lv 16a), il capro espiatorio (Lv 16b), il peccato verso Dio e verso il prossimo (Lv 16c).
Dai sacrifici si passa ai sacramenti (cc. 17– 26). Dal sacro si passa al santo.
Si susseguono i capitoli dedicati alla santità del sangue (Lv 17), alla santità sessuale (Lv 18 e 20), alla santità morale (Lv 19) e alle tematiche riguardanti il post-mortem (Lv 21-22).
Dopo aver ricordato gli appuntamenti con Dio (Lv 23), si espone la santificazione del Nome (Lv 24), la santità della terra (Lv 25a), il riscatto e la redenzione (Lv 25b).
Si conclude il libro con il capitolo 26 dedicato alla benedizione della pace (Lv 26a), alla berit (alleanza o promessa?; Lv 26b) e, infine, alla nuova alleanza (Lv 26c).
Numeri: il cammino nel deserto
Mello suddivide il libro dei Numeri in tre parti, segnalate da indicazioni cronologiche o geografiche.
- Nel deserto sinaitico (Nm 1,1–10,10)
Primo inizio cronologico e geografico: Nm 1,1; Primo censimento e organizzazione delle tribù: Nm 1–2; Il servizio dei leviti: Nm 3–4; Legge sulla gelosia: Nm 5; Nazireato e benedizione sacerdotale: Nm 6; Offerte per il santuario: Nm 7–8; Celebrazione della Pasqua: Nm 9.
- Cammino dal Sinai a Moab (Nm 10,11–25,18)
Secondo inizio cronologico: Nm 10,11; Partenza dal Sinai: Nm 10; La manna e le quaglie: Nm 11; Contestazione di Maria e Aronne: Nm 12; Esplorazione della terra: Nm 13–14; Mancanze involontarie, il fiocco sulle vesti: Nm 15; Ribellione di Datan e Abiram / Core: Nm 16–17; Prebende sacerdotali e casi di impurità: Nm 18–19; Peccato di Mosè e Aronne: Nm 20; Il serpente di bronzo: Nm 21; Benedizione di Balaam: Nm 22–24; Peccato di Baal Peor e gelosia di Pinchas: Nm 25.
- Nelle steppe di Moab (Nm 26,1–36,13)
Secondo censimento: Nm 26; Diritto delle donne, scelta di Giosuè: Nm 27; Legge sui sacrifici: Nm 28–29; I voti della donna: Nm 30; Rappresaglia contro Madian: Nm 31; Tribù in Transgiordania: Nm 32; Tappe dall’Egitto fino a Moab: Nm 33; Spartizione della terra: Nm 34; Città di rifugio: Nm 35; Ancora sul diritto delle donne: Nm 36; Conclusione geografica: Nm 36,13.
Del libro dei Numeri, Mello commenta solo la parte narrativa (Nm 10–25), che descrive il cammino del popolo nel deserto, dalla schiavitù verso la terra “promessa”. Riportiamo alcuni elementi che sintetizzano questi capitoli, ricavandoli da altre titolature impiegate da Mello.
Il popolo si metteva in marcia quando la nube si alzava (Nm 10). Alle mormorazioni YHWH risponde con il dono provvidenziale della manna e delle quaglie come carne (Nm 11a). Nasce la profezia (Nm 11b) e viene esaltato il celibato di Mosè (Nm 12). Il peccato d’origine (Nm 13) è quello di deprezzare la terra ispezionata dalle spie mandate in ricognizione, con la sfiducia verso YHWH di poter vincere gli abitanti del paese. La sentenza di morte per la ribellione del popolo (Nm 14) prevede quarant’anni di peregrinazione.
Dopo un intermezzo riguardante un filo azzurro da porre come frangia alle vesti (Nm 15), si narra la contestazione politica di Core, Datan e Abiràm (Nm 16a) puniti con l’apertura della terra che li inghiotte. Un fuoco uscito dal Signore divora i duecentocinquanta uomini che offrivano l’incenso, una tentazione clericale (Nm 16b).
Aronne intercede ed espia come sommo sacerdote la colpa di quegli uomini e il suo bastone fiorisce per il casato di Levi.
Si elencano la parte spettante ai sacerdoti, ai leviti e le decime (Nm 17–18). Il caso della giovenca rossa (Nm 19) è molto interessante e importante per la purificazione. (Ricordo che anni fa sembrava che negli Stati Uniti fosse nata una vacca rossa, con le cui ceneri mescolate ad acqua lustrale si sarebbe potuto purificare la spianata delle moschee/del tempio a Gerusalemme, aprendo la strada alla costruzione del terzo tempio. Si dimostrò una notizia falsa – aveva anche dei peli bianchi – e si evitò forse un disastroso casus belli col mondo arabo e mondiale. Purtroppo, si sa che fra gli estremisti religiosi ebrei i progetti per un terzo tempio sono già pronti, insieme a tutti gli utensili indispensabili per il culto).
Alle acque di Meriba si consuma il peccato di Mosè (Nm 20), mentre ai morsi dei serpenti velenosi si risponde con l’erezione del serpente di bronzo (Nm 21). Balaam si rifiuta di maledire le schiere di Israele (Nm 22): una profezia straniera (Nm 23) che raggiunge tutti (Nm 24). Dopo il peccato commesso a Peor, si suggella un’alleanza di pace (Nm 25).
Il libro di Numeri alterna leggi e racconti. Le leggi sono sacerdotali, come in Lv. Quelle proprie a Nm sono sei o sette: a) la gelosia del marito nei confronti della moglie, risolta con la pratica assai primitiva dell’acqua amara (Nm 5); b) il nazireato, che è un voto di astensione provvisoria dal bere vino e dal taglio dei capelli (Nm 6); c) la seconda Pasqua, nel caso che uno sia impedito di celebrarla un mese prima (Nm 9); d) l’acqua di purificazione con le ceneri della giovenca rossa (Nm 19); e) la dispensa dei voti di una donna da parte del marito o del padre (Nm 30); f) il diritto delle donne di ricevere l’eredità paterna (Nm 27.36).
Queste leggi eccedono per lo più la parte centrale del libro, sono poco strutturate, si riferiscono spesso alle donne, anche se da un punto di vista inaccettabile al femminismo odierno. La preoccupazione principale è quella della purificazione dal peccato o la sua espiazione. Si prescrive come evitarla o come superarla, come in Lv.
Secondo Mello, Numeri è superiore a Levitico dal punto di vista narrativo, ma gli è inferiore dal punto di vista legale o propriamente sacerdotale. Per questo ci si sofferma sui racconti, che sono anche citati nella liturgia odierna.
Ci sono dei racconti pre sacerdotali come quelli del ciclo di Balaam. I racconti antichi sono stati riletti dalla scuola sacerdotale, per cui presentano carattere misto.
La rivolta di Datan e Abiràm contro Mosè è una fonte antica, quella di Core contro Aronne è sacerdotale. La redazione definiva di Nm è della scuola sacerdotale, con la sua teologia specifica.
Il libro dei Numeri presenta una struttura cronologica e geografica. I primi nove capitoli si situano tra il primo e il ventesimo giorno del secondo mese del secondo anno dell’uscita dall’Egitto, al Sinai. Al termine del libro ci si trova nelle steppe di Moab, dopo una peregrinazione di quarant’anni «nel deserto» (be-midbar è appunto il titolo ebraico del libro).
Dal punto di vista cronologico, sono importanti i due censimenti (cc. 1 e 26; di qui deriva il titolo latino del libro, Numeri, passato anche nella lingua italiana).
Il secondo censimento si tiene nelle steppe di Moab, quarant’anni dopo il primo. La popolazione dai vent’anni in su è mutata. Il c. 26 segna quindi una demarcazione strutturale del libro. Le persone del primo censimento sono tutte morte nel deserto e ora emerge una generazione nuova, fatta dai loro discendenti più giovani e dai nuovi nati. Una spiegazione è quella anagrafica, ma «c’è soprattutto una necessità teologica: “Dovranno morire nel deserto!”. Come dice anche il Sal 95: “Nella mia collera allora ho giurato: Non entreranno nel mio riposo!”. In altre parole, c’è una colpa, un peccato da espiare con la morte. Il libro dei Numeri, nei suoi racconti, ci spiega soprattutto la necessità teologica della morte di ognuno di noi, alle soglie della Terra promessa» (p. 156).
La riflessione del monaco Mello si conclude con alcune pagine dedicate al Dio santo, vero protagonista dei due libri commentati. Egli propone il vocabolo «sacertà» per indicare la separatezza e l’alterità di ciò che è considerato non profano, non comune. La santità invece è potenza di vita perché ha a che fare con la vita. La spiegazione di questa opzione è l’uso del sangue – sede della vita – in tutti i sacrifici, escluse le oblazioni vegetali.
«Il sangue è santo, perché è la vita (Lv 17,11) – afferma Mello avviandosi alla conclusione del suo lavoro –. In quanto vitale, non è un elemento di separazione, ma di comunione. Quasi tutti i sacrifici prevedono una purificazione dell’altare mediante il sangue. Questa operazione ristabilisce la comunione tra gli uomini e il Dio santo: è il “sangue dell’alleanza” versato anche sul popolo (Es 24,8; Mt 26,28). Ma la vita, che è il riflesso della santità di Dio, è di per sé stessa molto misteriosa. Ritengo che l’esperienza del Dio tre volte santo, ovvero santo all’ennesima potenza, sia un’esperienza mistica, come quella del profeta Isaia» (pp. 215-216).
A suggello del suo volume Mello cita un testo di un mistico sufita, tradotto da Massignon in tono fortemente cristianizzante. Il suo autore (nato in Iran nell’858 e morto martire a Bagdad nel 922), per la sua ricerca mistica è sempre stato violentemente osteggiato dalle autorità sunnite. Ibn Mansur al-Hallaj (questo soprannome è di professione: significa «il Cardatore») ha subìto una forte attrazione per il cristianesimo e per questo è morto crocifisso, pagando col sangue la sua sete di Dio. La sua poesia è una vera testimonianza della santità di Dio: «… la verità su Dio, quando lo si constati, è che egli è santo» (p. 217).
La Bibliografia (pp. 219-221) conclude il prezioso commentario teologico-esegetico-sapienziale di Mello, molto utile per accostare due libri biblici non molto conosciuti (e amati).
Alberto Mello, Il Dio santo. Riflessioni su Levitico e Numeri, Edizioni Terra Santa, Milano 2023, pp. 224, € 17,00.