o πoιμην o καλος [1] (Gv 10,11)
Nelle lunghe e fredde serate invernali, dopo una cena frugale, come si conviene a persone di una certa età, solo il caminetto esce dalla penombra delle stanze di casa, inondato dal fascio di luce di un abat-jour.
In quell’angolino le note flessuose della Shahrezad si fondono col mite calore del ciocco scoppiettante, dissipando la consistenza dello spazio e del tempo e creando un’atmosfera che introduce la mente nel sacrario della tranquillità e delle rimembranze.
Vicino alla cappa, in una nicchia sormontata da un arco in mattoni rossi, c’è il posto per la legna e sopra quello, uno scaffale, pure in mattoni, ove ho sistemato il ritratto delle persone care vissute ieri ma tuttora viventi, una grossa conchiglia che nelle sue volute conserva il mormorio sommesso delle onde del mar Caspio, l’opera omnia di Jibran Khalil, una bella edizione rilegata della Vulgata, il Canone della medicina di Avicenna, sempre così delizioso nel suo latino medievale, e un paio di calzettoni.
«È un accostamento di pessimo gusto, un obbrobrio», dice mia moglie, che ha già tentato più volte di far sparire quei cimeli, come li definisce lei con una punta di disprezzo.
Sono calzettoni di lana grezza ormai infeltrita, di un colore indefinito. Inizialmente erano bianchi… bianchi per modo di dire, perché le pecore che noi diciamo bianche, in realtà hanno un vello che va dal grigio al gialliccio. Tutto comunque depone a favore della lana naturale.
I cimeli si ricollegano ai tempi delle mie estati eremitiche in una grotta montana: gli studi di matematica, il cielo tersissimo e il belare delle greggi misto all’abbaiare dei cani, che mi giungeva dalle valli lontane: tutto concorreva a creare un idillio sfumato, fatto di profumi di erbe selvatiche, di tanta serenità e dominato dalla presenza vigile ed amica del cono vulcanico del Damavand.
Ah…, dimenticavo un altro libro: voluminoso, dalle pagine arricciate e ingiallite, che i giorni hanno scritto per me.
Mi ritrovo spesso a sfogliarlo, aprendolo lì dove fungono da segnalibri le piccole sofferenze che ormai non rattristano più, perché rese scialbe e innocue dalla lontananza del tempo, oppure le gioie, pur sempre piacevoli, anche se sbiadite.
E i calzettoni hanno il magico potere di far uscire dalle pagine di quel libro le voci, i colori, le fragranze, le sensazioni e le emozioni di un tempo…
* * *
…quel giorno, attratto dai belati di un gregge, uscii dalla grotta, per godermi quello che per me era uno spettacolo suggestivo, come lo sono tutti gli eventi che la natura ci offre.
Non so quante pecore ci fossero: certo più di cento. Avanzavano in tante file indiane, per sentieri improvvisati, sollevando lunghe nuvolette di polvere. Le ultime pecore venivano sollecitate dagli instancabili cani.
In mezzo al gregge, il pastore procedeva lento sferruzzando, seguito dal paziente asino.
Lì dove il ruscello, pochi passi più sotto la mia grotta, si apriva in un piccolo stagno, il pastore fermò il gregge per farlo riposare e dissetarlo.
Subito mi si presentò vivace la scena di un antico pastore-poeta che, accompagnandosi con la cetra, cantava: Su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce.[2]
Intanto il pastore era salito da me.
Ora potevo vederlo da vicino.
Al primo impatto, mi parve che la sua fisionomia avesse qualcosa di familiare.
Era un giovane fulvo, con begli occhi e il viso gentile,[3] pur sotto una marcata abbronzatura.
Dove l’avevo incontrato?
Ah…, ecco!: tra le pagine del Primo libro dei Re, quando il profeta Samuele era andato a ungere con l’olio di esultanza il pastorello David, l’ottavo figlio di Yesse.
«Sii benvenuto,» gli dissi, «Non ti colga stanchezza e che Dio ti dia forza!»
«Che tu viva! Qorban e shomà».[4]
Era sempre stato un mio desiderio insoddisfatto quello di potermi intrattenere con un vero pastore.
Fin da quando avevo fatto il viaggio dall’Iran a Gerusalemme, attraversando le terre rigogliose della Mesopotamia, le lande riarse dell’Iraq e della Giordania e i deserti pietrosi della Giudea, la mia immaginazione era rimasta colpita dalle figure ieratiche dei tanti pastori visti.
Uomini che da secoli esercitano una professione sempre uguale, non contaminata dalla tecnologia moderna. Le stesse abitudini che si vanno ripetendo da epoche preistoriche fino ai nostri giorni e in tutte le regioni del mondo, dalla catena andina agli altipiani del più estremo oriente.
Ero affascinato al pensiero di parlare con chi era abituato ad ascoltare la natura, accompagnandone le innumerevoli voci con lo zufolo; intrattenermi con chi possedeva il segreto delle stagioni antiche; parlare con chi rifletteva l’anima e la sapienza dei patriarchi e di molti profeti.
Inoltre pensavo che Gesù si compiaceva di definirsi pastore, «il buon pastore», anche se i musulmani lo considerano solo un profeta e dicono che tra un sermone e l’altro esercitasse la sua vera professione, cioè quella di medico.[5]
Avrei avuto tutta la giornata a disposizione, poiché il gregge non sarebbe ripartito fino a che la brezza vespertina non avesse mitigato la calura del meriggio.
Il pastore intanto scaricò l’asino e stese un tappetino all’ombra degli alberi, accingendosi al compimento della preghiera del mezzodì.
Colsi l’occasione per andare a preparare il tè.
Al ritorno, mentre le pecore si allontanavano impaurite da me, sconosciuto, mi avvicinai al pastore seduto in mezzo alle sue cose: i ferri da maglia infilzati in un grosso gomitolo, la conocchia, lo zufolo, la fionda, il bastone, la bisaccia, un paio di calzettoni appena terminati e un pesante pastrano di feltro spesso un dito.
Accortosi che la mia attenzione era stata attratta da quest’ultimo, mi spiegò:
«Questo l’ho fatto io. Su un telo si stende uno strato di lana pecorina e caprina bagnata e impregnata di sapone e di grasso di montone. Poi si pressa il tutto, arrotolandolo e comprimendolo su un rullo di pietra. Successivamente si aggiungono altri strati di lana, l’uno sull’altro e dopo alcuni giorni di lavorazione, si ottiene questo feltro. Nelle notti sulle montagne, avvolto in questo, dormo tranquillo, incurante del freddo e della pioggia».
Gli offersi il tè con le immancabili zollette di zucchero, mentre continuava:
«Sono sonni fin troppo tranquilli, tanto che di notte c’è pericolo che le pecore se ne vadano e al risveglio ti trovi solo, senza sapere dove sono andati gli animali.
Mi è capitato una volta. Non ero ancora pratico. Ora ho imparato come si fa: la notte lego il capo di una cordicella al mio polso e l’altro capo alla zampa di Astuta».
«E chi è?», feci io.
«Quella», e mi indicò un animale tra quelli che, dopo essersi abbeverati, si erano accovacciati sotto gli alberi.
«E perché proprio quella?», domandai incuriosito.
Mi rispose col sorrisino di superiorità di un maestro di fronte all’alunno ignorante e soggiunse:
«Non vede che musetto furbo che ha?»
«Beh, a me sembrano tutte uguali».
«Perché lei non è un pastore. Vede, quella si chiama Capricciosa; quella Golosa; poi c’è la Bella, la Timida, la Codina…»
A mano a mano che pronunciava i nomi, gli animali in questione alzavano la testa con un piccolo sussulto.
Mi ricordai quel passo: …ed egli chiama le proprie pecore per nome… non conoscono la voce degli estranei.[6] Infatti, quando anch’io provavo a chiamarle, la mia voce non sortiva il minimo effetto.
«Ma hai dato un nome a tutte?», continuai.
«Certo».
«E quante sono?».
«Tutte queste. Anzi stanotte o domani dovrebbero nascere due agnelli».
«E come fai a sapere che non ne manca alcuna? Come fai a contarle tutte?».
Sorrise di nuovo divertito.
«Se uno perdesse un dito in un incidente, avrebbe bisogno di contarsi le dita per accorgersene? Il pastore non è separato dalle sue pecore».
Era un logica che mi spiazzava. Il pastore si accorse del mio impaccio e spiegò:
«Lei ha certamente molti libri sugli scaffali di casa sua; li ha mai contati?».
« Non mi serve contarli».
«E se ne mancasse qualcuno, se ne accorgerebbe?».
«Certamente!».
«Anche a me non serve contare le pecore per capire se ne manca qualcuna: lo sento».
Quel pastore mi svelava un mondo che trascendeva e vanificava la logica dei numeri. C’era da restarne sbigottiti.
E continuò: «Quel mattino in cui il gregge mi aveva abbandonato, persi tre animali».
«E li hai poi ritrovati?».
«Sì, si erano uniti a un altro gregge».
Quindi guardò lontano, e nei suoi occhi riviveva una gioia pacata. Poi continuò:
«Dopo più di un anno, vidi quel gregge sull’altro versante della valle. Stava passando un torrente su un ponticello. Lì, in mezzo, c’erano le mie tre pecore perdute».
«E come hai fatto a riconoscerle?».
«Un po’ dal modo di dondolarsi, un po’… non so. Ma quando perdi qualcosa a cui sei legato, ti rimane nell’animo un vuoto…, un legame con quello che hai perduto, per cui non smetti mai di cercare».
Mi sovvenne l’appassionata definizione che Paolo VI dava del Pastore che vigila sulle nostre anime:[7] Dio è colui che cerca».
E continuai:
«Capisco, è come quando amputano una gamba: dicono che per molto tempo si sente ancora il piede…».
«Forse…», disse distrattamente, dando a divedere di non aver afferrato il senso della mia osservazione.
«Comunque richiesi quelle pecore all’altro pastore e lui me le restituì, dicendomi che avevano figliato due agnelli. Glieli lasciai come compenso per la custodia fatta e per la gioia di aver ritrovato le mie pecore».
«Sei stato molto generoso!», osservai.
«Lei dice così, perché non capisce la gioia del ritrovamento di una pecora smarrita, che solo i pastori possono provare».
«Incredibile!», esclamai quasi tra me e me, «il discorso sulla pecora smarrita l’ho già udito».
Ci fu un intervallo di sbigottimento… Pensavo: come si fa a distinguere un animale da un altro? Mi ricordai allora di quello che mi aveva raccontato un vecchio beduino in Palestina.
Quando gli inglesi – ai primi tempi del Mandato Britannico, negli anni venti – vollero fare una specie di censimento dei nomadi per dare loro la carta d’identità, costoro non volevano farsi fotografare per motivi scaramantici e chiedevano che sul documento, al posto della loro foto, fosse messa la foto del rispettivo cammello. Alla proposta, gli ufficiali britannici scoppiarono a ridere. Ma risero molto di più i beduini, quando gli inglesi obiettarono che tutti i cammelli sono uguali. Il fatto è raccontato ancor oggi tra i pastori come un barzelletta.
«Ma come fai a conoscerle tutte?», domandai incredulo.
«È il mio mestiere. Le dirò che quando ci sono tre o quattro parti contemporanei, perfino le madri non conoscono i neonati, né questi le madri. Ma io so quale agnello portare a quale madre per l’allattamento».
«E ti sei mai imbattuto nei lupi?».
«Un paio di volte. A quel tempo aiutavo mio cugino, che Allàh gli usi misericordia, ad accudire il suo gregge di pecore e capre. Le capre erano proibite per legge, per via del programma di rimboschimento. La Milizia Forestale abbatteva le capre, sparando a vista».
«E che c’entravano col rimboschimento?», chiesi con un certo risentimento.
«Vede», rispose dandosi un po’ l’aria da maestro, «le pecore brucano l’erba, tagliandola con i denti, mentre le capre l’addentano e la strappano, sradicandola. Poi quando piove, il terriccio montagnoso, senza le radici dell’erba, scivola a valle, trascinando a poco a poco anche gli alberi».
La spiegazione del pastore analfabeta ma saggio, mi aveva convinto della opportunità della legge.
Mi tornava alla memoria una vecchia e un po’ sbiadita pagina del Talmud che descrive la saggezza del pastorello Davide. Egli faceva uscire dall’ovile prima gli agnellini perché brucassero le punte più tenere dell’erba, poi le pecore che, mangiando la parte più consistente dei fili, potevano garantire latte abbondante e infine uscivano i montoni che ne brucavano la parte più dura.
Dopo questo flash-back talmudico, ripresi il filo del discorso e chiesi al pastore di continuare il suo racconto sui lupi.
E lui proseguì:
«Erano cominciati i primi freddi e avevamo deciso di fare la transumanza verso i pascoli di Rey,[8] ma dovevamo muoverci di notte, per eludere la vigilanza della Milizia Forestale sulle capre».
«E la legge cosa diceva di fare con quelle?».
«Portarle al macello. Noi però ne portavamo due alla volta, per non svalutarne il prezzo. Erano passate solo due notti dal plenilunio e decidemmo di aspettare ancora qualche giorno per usufruire del favore delle tenebre. Ma quella notte ci fu un belìo improvviso. Non facemmo a tempo ad accorrere coi bastoni e coi cani, che il chiarore lunare ci presentò una scena straziante: sei pecore a terra dilaniate».
«E il lupo?».
«Dovevano essere almeno quattro: loro si muovono sempre in gruppo. Una pecora potrebbe bastare per due lupi, ma loro non sbranano per sfamarsi, ma per il gusto di sbranare, e poi lasciano lì le carcasse.
La notte seguente, mio cugino, quel Dio lo perdoni,[9] volle mettere in pratica un piano abbastanza comune tra noi pastori. Si mise su un’altura ad aspettare i lupi. Quando vide avanzare quatto quatto il lupo esploratore che doveva vedere da che parte attaccare il gregge, onde evitare i cani e avvisare il branco, si coprì col vello di una pecora sbranata la notte precedente e s’intrufolò carponi nel gregge, brandendo un coltellaccio. Il lupo, attratto dall’odore del sangue del vello, si diresse verso di lui e, prima che egli potesse accoltellarlo, gli azzannò una gamba, strappandogliela dal corpo».
«Addirittura!».
«Non ci sono mandibole più forti di quelle dei lupi; sono secondi solo ai leoni, così ho sentito dire. Gli urli di dolore di quel disgraziato svegliarono me e i cani, ma il lupo fuggì».
«E poi?».
«Mio cugino morì dissanguato tra strazi orribili, le budella sparse a terra… Per il suo gregge il pastore rinuncia anche alla vita, non per cupidigia, ma perché il gregge è parte inseparabile di se stesso».
Il pastore si fermò meditabondo, mormorando:
«Allàh l’ha voluto. Lui sa. Wallàhu ‘ala kulli shai’en ‘alìm (E Dio è su ogni cosa sapiente)».[10]
La citazione coranica appresa forse alle prediche dei mullà e citata in lingua araba, conferiva un senso di fede e di solennità alla considerazione del pastore.
Approfittando della pausa meditativa, andai a prendere tutto il ben di Dio che avevo nella madia: pane, olio, sale e frutta secca. Dalla sua bisaccia il pastore trasse del formaggio, un mazzo di cicoria ed erbe selvatiche aromatiche.
Ci sedemmo alla mensa, ospiti del Razzàq (il Provvido), come dicono i musulmani.
Alla fine del pranzo, alzando il capo verso il cielo per il ringraziamento di rito al Datore di ogni bene, il pastore notò dei cirri, tirati da un invisibile pennello e il pennacchio delle solfatare del Damavand che aveva cambiato direzione.
«Fra non molto ci sarà un temporale», disse, «devo andare a valle per riparare il gregge nella grotta del Gigante».
Raccolse in fretta le sue cose, caricò l’asino e mi chiese di accettare i calzettoni, pronunciando la frase di prammatica dell’offerta dei doni:
«Non è degno di lei».
«La dignità viene dal donatore!», risposi seguendo l’etichetta persiana.
Quindi con lo zufolo intonò una nenia e, in brevissimo tempo, le pecore ripresero la via della valle in lunghe file indiane polverose.
Mentre lo vedevo allontanarsi, ripensavo alle parole: il buon pastore… le conosce… le chiama per nome… dà la vita…
Quella del pastore analfabeta era stata una lezione di ermeneutica biblica più incisiva di quelle del mio professore di S. Scrittura, laureato al Pontificio Istituto Biblico di Roma, che Dio l’abbia in gloria!
* * *
Le note dello zufolo mi giungevano sempre più deboli.
Allora mi venne voglia di prendere il testo della Vulgata e rileggermi il capitolo decimo di Giovanni, soppesandone le parole e scoprendo in ogni affermazione verità sorprendenti e inesplorate.
Spesso le grandi novità non sono che la riscoperta delle cose antiche.
Sull’imbrunire, lampi rabbiosi accompagnati dal brontolio dei tuoni e seguiti da scatarosci di pioggia sghimbescia, mi richiamarono alla realtà.
Ma a quell’ora il pastore col suo gregge erano già al riparo.
[1] Il pastore bello, eccellente.
[2] Sal 23,2.
[3] 1Sam 16,12.
[4] Le frasi in corsivo rappresentano la traduzione letterale di convenevoli persiani stereotipati ma molto in uso. L’ultimo poi, citato in persiano, significa: possa io esser sacrificato a te. Equivale a un semplice ringraziamento, anche se molto enfatico ed esagerato.
[5] Un mio amico musulmano, scherzando, osservava che Dio ha messo confusione tra gli uomini, a causa di un pastore, di un medico e di un mercante ( Mosé, Gesù e Mohammad).
[6] Gv 10,4.
[7] 1Pt 2, 25.
[8] Sobborgo a sud-est di Teheran, corrispondente a Rages della Bibbia: il paese dove si recò Tobiolo a riscuotere il credito del padre. (Tb 4,21)
[9] È un modo per menzionare un morto, come per noi buon anima o che Dio l’abbia in gloria.
[10] Espressione spesso ripetuta nel Corano.
molto bello, grazie!