«Un affetto per la Sacra Scrittura [Scripturae Sacrae Affectus], un amore vivo e soave per la Parola di Dio scritta è l’eredità che san Girolamo ha lasciato alla Chiesa attraverso la sua vita e le sue opere». L’attacco della lettera apostolica pubblicata da papa Francesco il 30 settembre 2020 in occasione del XVI centenario della morte del grande padre della Chiesa è deciso e ben calibrato.
La sua figura nella storia della Chiesa e il suo grande amore per Cristo sono davvero imponenti. «Questo amore si dirama (…) nella sua opera di infaticabile studioso, traduttore, esegeta, profondo conoscitore e appassionato divulgatore della Sacra Scrittura; di raffinato interprete dei testi biblici; di ardente e talvolta impetuoso difensore della verità cristiana; di ascetico e intransigente eremita oltre che di esperta guida spirituale, nella sua generosità e tenerezza. Oggi, milleseicento anni dopo, la sua figura rimane di grande attualità per noi cristiani del XXI secolo».
Il documento ricorda che Benedetto XV dedicò a lui la Lettera enciclica Spiritus Paraclitus (15 settembre 1920), presentandolo al mondo come «doctor maximus explanandis Scripturis». La sua figura fece da sfondo all’Assemblea del sinodo dei vescovi dedicato alla parola di Dio e l’esortazione apostolica Verbum Domini di Benedetto XVI fu pubblicata proprio nella festa del santo, il 30 settembre 2010.
Da Roma a Betlemme
Le prime pagine della lettera sono dedicate a un’ampia ricostruzione della vicenda storica della vita del grande dalmata. La sua biografia fa comprendere il senso della sua permanenza a Betlemme.
Probabilmente, a partire da una visione notturna di Cristo nella Quaresima del 375, in cui egli lo rimproverava di essere ciceroniano e non cristiano, Girolamo si dedica completamente alla parola di Dio in modo da renderla conosciuta, amata e praticata dal popolo cristiano. «Quell’evento imprime alla sua vita un nuovo e più deciso orientamento: diventare servitore della Parola di Dio, come innamorato della “carne della Scrittura”» sottolinea il papa. La sua preparazione culturale viene in tal modo posta a servizio della parola di Dio e della compagine ecclesiale.
«San Girolamo entra a pieno titolo tra le grandi figure della Chiesa antica, nel periodo definito il secolo d’oro della Patristica, vero ponte tra Oriente e Occidente». Ha contatti con Rufino di Aquileia e Ambrogio, tiene una fitta corrispondenza con Agostino, mentre in Oriente conosce Gregorio di Nazianzo, Didimo il Cieco, Epifanio di Salamina. Insieme ad Agostino, ad Ambrogio e a Gregorio Magno, l’iconografia lo colloca tra i quattro grandi dottori della Chiesa di Occidente.
Nato intorno al 325 a Stridone, al confine tra la Dalmazia e la Pannonia, l’odierna Croazia o Slovenia, Girolamo muore il 30 settembre del 420 a Betlemme. La vita e l’itinerario personale di san Girolamo si consumano lungo le strade dell’impero romano, tra l’Europa e l’Oriente.
Battezzato in età adulta negli anni che lo vedono a Roma studente di retorica, tra il 358 e il 364, diventa insaziabile lettore dei classici latini, che studia sotto la guida dei più illustri maestri di retorica del tempo.
Conclusi gli studi, Girolamo intraprende un lungo viaggio in Gallia che lo porta nella città imperiale di Treviri dove si imbatte con l’esperienza monastica orientale diffusa da sant’Atanasio. Matura così un desiderio profondo che lo accompagna ad Aquileia dove inizia, con alcuni suoi amici, «un coro di beati», un periodo di vita comune.
Verso l’anno 374, passando per Antiochia, decide di ritirarsi nel deserto della Calcide, per realizzare, in maniera sempre più radicale, una vita ascetica in cui grande spazio è riservato allo studio delle lingue bibliche, prima del greco e poi dell’ebraico. Girolamo vive il deserto come «luogo delle scelte esistenziali fondamentali, di intimità e di incontro con Dio, dove, attraverso la contemplazione, le prove interiori, il combattimento spirituale, arriva alla conoscenza della fragilità, con una maggiore consapevolezza del limite proprio e altrui, riconoscendo l’importanza delle lacrime» (…) «nel deserto, avverte la concreta presenza di Dio, il necessario rapporto dell’essere umano con lui, la sua consolazione misericordiosa».
Ad Antiochia viene ordinato sacerdote dal vescovo Paolino, quindi si reca a Costantinopoli, verso il 379, dove conosce Gregorio di Nazianzo e dove prosegue i suoi studi e respira il clima del concilio celebrato in quella città nel 381. «In questi anni è nello studio che si rivelano la sua passione e la sua generosità. È una benedetta inquietudine a guidarlo e a renderlo instancabile e appassionato nella ricerca», ricorda papa Francesco.
«Nel 382 Girolamo torna a Roma – ricorda il documento –, mettendosi a disposizione di papa Damaso che, apprezzando le sue grandi qualità, ne fa un suo stretto collaboratore.
Qui Girolamo si impegna in una incessante attività senza dimenticare la dimensione spirituale: sull’Aventino, grazie al sostegno di donne aristocratiche romane desiderose di scelte radicali evangeliche, come Marcella, Paola e la figlia di lei Eustochio, crea un cenacolo fondato sulla lettura e sullo studio rigoroso della Scrittura. Girolamo è esegeta, docente, guida spirituale.
In questo tempo intraprende una revisione delle precedenti traduzioni latine dei Vangeli, forse anche di altre parti del Nuovo Testamento; continua il suo lavoro come traduttore di omelie e commenti scritturistici di Origene, dispiega una frenetica attività epistolare, si confronta pubblicamente con autori eretici, a volte con eccessi e intemperanze, ma sempre mosso sinceramente dal desiderio di difendere la vera fede e il deposito delle Scritture».
Con la morte di papa Damaso, Girolamo lascia Roma e, con alcuni amici e donne appassionate dello studio biblico e dell’esperienza spirituale iniziata, si reca in Egitto e quindi in Palestina, dove nel 386 si stabilisce definitivamente a Betlemme. «Riprende i suoi studi filologici, ancorati ai luoghi fisici che di quelle narrazioni erano stati lo scenario. Si pone a servizio dei pellegrini che vi giungono e, nel frattempo, presso la grotta della Natività fonda due monasteri “gemelli”, maschile e femminile, con ospizi per l’accoglienza dei pellegrini giunti ad loca sancta, rivelando la sua generosità nell’ospitare quanti giungevano in quella terra per vedere e toccare i luoghi della storia della salvezza, unendo così la ricerca culturale a quella spirituale.
È nella sacra Scrittura che, mettendosi in ascolto, Girolamo trova sé stesso, il volto di Dio e quello dei fratelli, e affina la sua predilezione per la vita comunitaria. Da qui il suo desiderio di vivere con gli amici, come già dai tempi di Aquileia, e di fondare comunità monastiche, perseguendo l’ideale cenobitico di vita religiosa che vede il monastero come “palestra” in cui formare persone «che si ritengono inferiori a tutti per essere primi fra tutti», felici nella povertà e capaci di insegnare con il proprio stile di vita.
Girolamo mette in grado Paola ed Eustochio di entrare nel novero dei traduttori e le mette in grado di poter leggere e cantare i Salmi nella lingua originale.
La cultura di Girolamo è messa a servizio e ribadita come necessaria ad ogni evangelizzatore. Così ricorda all’amico Nepoziano: «La parola del sacerdote deve prendere sapore grazie alla lettura delle Scritture. Non voglio che tu sia un declamatore o un ciarlatano dalle molte parole, ma uno che comprende la sacra dottrina (mysterii) e conosce fino in fondo gli insegnamenti (sacramentorum) del tuo Dio. È tipico degli ignoranti rigirare le parole e accattivarsi l’ammirazione del popolo inesperto con il parlare velocemente. Chi è senza pudore spesso spiega ciò che non conosce e pretende di essere un grande esperto solo perché riesce a persuadere gli altri» (Ep. 52,8: CSEL 54, 428-429; cf. VD, 60: AAS 102 [2010], 739).
A Betlemme Girolamo vive, fino alla sua morte nel 420, il periodo più fecondo e intenso della sua vita «completamente dedicato allo studio della Scrittura, impegnato nella monumentale opera della traduzione di tutto l’Antico Testamento a partire dall’originale ebraico. Nello stesso tempo, commenta i libri profetici, i salmi, le opere paoline, scrive sussidi per lo studio della Bibbia. Il prezioso lavoro confluito nelle sue opere è frutto di confronto e di collaborazione, dalla copiatura e collazione dei manoscritti alla riflessione e discussione», senza trascurare la preghiera, per tradurre i testi biblici «nello stesso Spirito con cui furono scritti», senza dimenticare di tradurre anche opere di autori indispensabili per il lavoro esegetico, come Origene.
A questo periodo risale il suo opus magnum, la traduzione degli scritti biblici dalla lingua originale in latino. È la cosiddetta Vulgata, alla quale il documento dedica nel prosieguo parecchie pagine.
Lettura orante comunitaria
«Lo studio di Girolamo si rivela come uno sforzo compiuto nella comunità e a servizio della comunità, modello di sinodalità anche per noi, per i nostri tempi e per le diverse istituzioni culturali della Chiesa» ricorda la lettera.
Fondamento della comunione ecclesiale «è la Scrittura, che non possiamo leggere da soli: La Bibbia è stata scritta dal Popolo di Dio e per il Popolo di Dio, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo. Solo in questa comunione col Popolo di Dio possiamo realmente entrare con il “noi” nel nucleo della verità che Dio stesso ci vuol dire».
L’esperienza di vita nutrita dalla parola di Dio fa di Girolamo una guida spirituale ricercata e raggiunta attraverso una fitta corrispondenza epistolare. Le traduzioni sono considerate da lui in primo luogo come un compito di amicizia, offerte alla lettura amichevole degli amici e poi all’esame critico dei lettori di ogni tempo.
Girolamo consuma «gli ultimi anni della sua vita nella lettura orante personale e comunitaria della Scrittura, nella contemplazione, nel servizio ai fratelli attraverso le sue opere. Tutto questo a Betlemme, accanto alla grotta dove il Verbo fu partorito dalla Vergine. Affermava: «Felice colui che porta nel suo intimo la croce, la risurrezione, il luogo della nascita e dell’ascensione di Cristo! Felice chi ha Betlemme nel suo cuore, nel cui cuore Cristo nasce ogni giorno!» (Homilia in Psalmum 95: PL 26, 1181).
Ritratto sapienziale di Girolamo: ascesi e studio
Nella seconda parte della lettera apostolica viene delineato un ritratto “sapienziale” di Girolamo. Sono due i suoi tratti fondamentali: da un lato «l’assoluta e rigorosa consacrazione a Dio, con la rinuncia a qualsiasi umana soddisfazione, per amore di Cristo crocifisso (cf. 1Cor 2,2; Fil 3,8.10); dall’altro, l’impegno di studio assiduo, volto esclusivamente a una sempre più piena comprensione del mistero del Signore». Un modello per l’ascesi e la preghiera tipica dei monaci e per l’amore per Cristo e la spogliazione di sé richiesti agli studiosi.
Sono due elementi ripresi nell’iconografia tradizionale. «L’una lo definisce soprattutto come monaco e penitente, con un corpo scolpito dal digiuno, ritirato in zone desertiche, in ginocchio o prostrato a terra, in molti casi stringendo un sasso nella destra per battersi il petto, e con gli occhi rivolti al Crocifisso» (cf. Leonardo Da Vinci).
L’altra lo mostra «in veste di studioso, seduto al suo scrittoio, intento a tradurre e commentare la Sacra Scrittura, attorniato da volumi e pergamene, investito della missione di difendere la fede attraverso il pensiero e lo scritto» (cf. Albrecht Dürer).
Caravaggio unisce le due tipologie iconografiche: Girolamo con un cranio sullo scrittoio e la penna dello studioso in mano.
Amore per la Sacra Scrittura. Il «leone di Betlemme»
«Il tratto peculiare della figura spirituale di San Girolamo rimane senza dubbio il suo amore appassionato per la Parola di Dio, trasmessa alla Chiesa nella Sacra Scrittura» nota il documento. Nel testo biblico Girolamo sottolineava non tanto le bellezze poetiche e letterarie ma «il carattere umile del rivelarsi di Dio ed espresso nella natura aspra e quasi primitiva della lingua ebraica, paragonata alla raffinatezza del latino ciceroniano». Egli studia la Scrittura solo perché essa lo porta a conoscere Cristo. Notissimo e lapidario è il suo detto: «L’ignoranza delle Scritture è ignoranza di Cristo» (In Isaiam Prol., PL 24, 17).
Modernissimo è l’approccio ermeneutico adottato per lo studio del Nuovo Testamento. Per capire la verità e la ricchezza della figura di Gesù, il suo essere Messia, Figlio di Dio e Salvatore, occorre valorizzare le “figure” presenti nell’AT. Esso non è tanto una cava di citazioni da sfruttare, ma apporto indispensabile nella sua totalità, da leggersi come nutrimento gustoso (cf. Ez 3,1-11; Ap 10,8-11; DV 14).
Molti ricordano i tratti bruschi del carattere di Girolamo e del suo rapportarsi a molti interlocutori. Nella ricerca della verità, a cui intendeva servire con tutto se stesso, il «leone di Betlemme» a volte alzava i toni, ma univa anche dolcezza. Egli ricordava infatti che i leoni sono capaci anche di lacrime (cf. il suo primo scritto Vita S. Pauli primi eremitae, 16,2: PL 23, 28).
Molto di questo aspetto di Girolamo si può spiegare con l’ardente fuoco profetico che lo animava per le Scritture e la loro verità, che lo portava a scagliarsi con sdegno irruente contro ogni ipocrisia, menzogna e false dottrine, sulla scia di Elia, di Giovanni Battista e anche dell’apostolo Paolo. «Girolamo, dunque – afferma papa Francesco –, è modello di inflessibile testimonianza della verità, che assume la severità del rimprovero per indurre a conversione». Il suo amore per la verità e la difesa ardente di Cristo lo hanno forse portato a eccedere nella violenza verbale nelle sue lettere e nei suoi scritti. Egli, però, vive orientato alla pace: «La pace la voglio anch’io; e non solo la desidero ma la imploro! Ma intendo la pace di Cristo, la pace autentica, una pace senza residui di ostilità, una pace che non covi in sé la guerra; non la pace che soggioga gli avversari, ma quella che ci unisce in amicizia!» (Ep., 82,2: CSEL 55, 109).
Lo studio della Sacra Scrittura. La sua sacramentalità
Lo studio della Scrittura si esplica in Girolamo con una profonda riverenza, l’obbedienza della fede a coloro che l’hanno trasmessa, la ricerca intelligente – e non puramente ripetitiva della tradizione – del senso inteso dagli autori biblici nei loro scritti: «Senza intelligenza di ciò che è stato scritto dagli autori ispirati, la stessa Parola di Dio è priva di efficacia (cf. Mt 13,19) e l’amore per Dio non può scaturire». Papa Francesco ricorda però che il testo biblico molte volte appare come «sigillato» e bisognoso dell’ermeneuta divino, Cristo Signore, ma anche di facilitatori che, con dimensione «diaconale», si pongano a servizio del popolo di Dio per una spiegazione di testi che rimangono antichi, scritti con linguaggi e modalità espressive talvolta non più immediatamente comprensibili.
Come Filippo nei confronti dell’eunuco (cf. At 8,35), Girolamo guida tutt’oggi a comprendere ciò che si legge, sia perché «conduce ogni lettore al mistero di Gesù, sia perché assume responsabilmente e sistematicamente le mediazioni esegetiche e culturali necessarie per una corretta e proficua lettura delle Sacre Scritture». Di Girolamo il documento ricorda «la competenza nelle lingue in cui la Parola di Dio è stata trasmessa, l’accurata analisi e valutazione dei manoscritti, la puntuale ricerca archeologica, la conoscenza della storia dell’interpretazione, tutte le risorse metodologiche» allora disponibili in vista di una giusta comprensione della Scrittura ispirata.
A questo punto la Lettera inserisce la lode per i centri di eccellenza degli studi biblici e patristici (Pontificio Istituto Biblico, École Biblique, Studium Biblicum Franciscanum, Augustinianum e Facoltà teologiche varie) benemeriti per fornire a sacerdoti, religiosi e laici una competenza tecnica di esegesi e di teologia biblica che si riversi poi a beneficio di tutto il popolo di Dio. Se la Scrittura è «come l’anima della sacra teologia» (DV 24) e come il nerbo spirituale della pratica religiosa cristiana (cf. DV 25), è indispensabile che a tutti i fedeli sia facilitato l’accesso alla comprensione profonda delle Scritture per ricavarne i frutti inestimabili di sapienza, di speranza e di vita (cf. DV 21).
Papa Francesco cita a questo punto un testo straordinario di Benedetto XVI sulla sacramentalità della parola di Dio, supportato da una citazione di Girolamo. Non si sottolineerà mai abbastanza la portata di queste parole dell’esortazione apostolica postsinodale Verbum Domini (30 settembre 2010): «La sacramentalità della Parola si lascia così comprendere in analogia alla presenza reale di Cristo sotto le specie del pane e del vino consacrati. […] Sull’atteggiamento da avere sia nei confronti dell’Eucaristia, che della Parola di Dio, san Girolamo afferma: “Noi leggiamo le sante Scritture. Io penso che il Vangelo è il Corpo di Cristo; io penso che le sante Scritture sono il suo insegnamento. E quando egli dice: Chi non mangerà la mia carne e berrà il mio sangue (Gv 6,53), benché queste parole si possano intendere anche del mistero [eucaristico], tuttavia il corpo di Cristo e il suo sangue è veramente la parola della Scrittura, è l’insegnamento di Dio”» (VD 56; per il testo di Girolamo cf. In Psalmum 147: CCL 78, 337-338).
La Vulgata
«Il “frutto più dolce dell’ardua semina” [cf. Ep. 52,3: CSEL 54, 417.40] di studio del greco e dell’ebraico, compiuto da Girolamo, è la traduzione dell’Antico Testamento in latino a partire dall’originale ebraico». Così afferma giustamente il documento, soffermandosi sull’opus magnum di Girolamo.
Dopo aver iniziato a Roma la revisione dei Vangeli e dei Salmi, con l’incoraggiamento di papa Damaso, Girolamo diede poi inizio nel suo ritiro di Betlemme alla traduzione di tutti i libri anticotestamentari, direttamente dall’ebraico: un’opera protrattasi per anni. La traduzione in latino metteva in tal modo a disposizione di un vasto pubblico dell’impero romano i testi allora disponibili solo nell’originale ebraico e nella traduzione greca dei Settanta composta dalla comunità ebraica di Alessandria attorno al secolo II a.C.
Girolamo utilizzò tutte le sue competenze linguistiche, servendosi soprattutto delle Hexaplae di Origene, per tradurre con eleganza in latino rimanendo aderente al testo originale. «Il risultato è un vero monumento che ha segnato la storia culturale dell’Occidente, modellandone il linguaggio teologico» ricorda papa Francesco. Il lavoro di Girolamo «diventò subito patrimonio comune sia dei dotti, sia del popolo cristiano, donde il nome Vulgata…]. L’Europa del medioevo ha imparato a leggere, a pregare e a ragionare sulle pagine della Bibbia tradotta da Girolamo». Essa «è diventata una sorta di “immenso vocabolario” (P. Claudel) e di “atlante iconografico” (M. Chagall), a cui hanno attinto la cultura e l’arte cristiana». (…). «La letteratura, le arti, e anche il linguaggio popolare hanno costantemente attinto alla versione geronimiana della Bibbia lasciandoci tesori di bellezza e di devozione».
L’esito apicale del lavoro di Girolamo fu raggiunto con il Concilio di Trento. Esso «stabilì il carattere “autentico” della Vulgata nel decreto Insuper rendendo omaggio all’uso secolare che la Chiesa ne aveva fatto e attestandone il valore come strumento per lo studio, la predicazione e le dispute pubbliche» (cf. Denzinger-Schönmetzer, Enchiridion Symbolorum, 1506). Il concilio di Trento non minimizzò l’importanza delle lingue originali né vietò future traduzioni integrali. Paolo VI dispose il compimento della revisione della Vulgata e Giovanni Paolo II, nella costituzione apostolica Scripturarum thesaurus [25 aprile 1979: AAS LXXI (1979), 557-559.44], ha promulgato l’edizione tipica chiamata Neovulgata.
La traduzione come inculturazione
«Con questa sua traduzione, Girolamo è riuscito a “inculturare” la Bibbia nella lingua e nella cultura latina e questa sua operazione è diventata un paradigma permanente per l’azione missionaria della Chiesa» ricorda papa Francesco. «Si instaura così una sorta di circolarità: come la traduzione di Girolamo è debitrice della lingua e della cultura dei classici latini, le cui impronte sono ben visibili, così essa, con il suo linguaggio e il suo contenuto simbolico e immaginifico, è diventata a sua volta elemento creatore di cultura».
Ogni traduzione arricchisce la Scrittura, perché essa cresce con il lettore (cf. Gregorio Magno, Homilia in Ezech. I, 7: PL 76, 843D). La Bibbia ha bisogno infatti «di essere costantemente tradotta nelle categorie linguistiche e mentali di ogni cultura e di ogni generazione, anche nella cultura secolarizzata globale del nostro tempo». È un atto di ospitalità linguistica, che mette in comunicazione differenti comunità linguistiche, favorendo l’incontro e la comunione. Non esiste comprensione senza traduzione (cf. G. Steiner, After Babel. Aspects of Language and Translation, Oxford University Press, New York 1975): non comprendiamo noi stessi né gli altri. Si capisce di qui l’importanza del fatto che la Bibbia sia tradotta in più di tremila lingue. Questo favorisce il superamento dell’incomunicabilità e del mancato incontro tra i popoli.
Amare ciò che amò Girolamo, biblioteca di Cristo
Papa Francesco si avvia alla conclusione della sua lettera ricordando come Girolamo fu sempre strettamente legato alla cattedra di Pietro. Egli ricorda come la tradizione iconografica, in modo anacronistico, lo ha raffigurato con la porpora cardinalizia, a segnalare la sua appartenenza al presbiterio di Roma accanto a papa Damaso. «Io che non seguo nessuno se non il Cristo, mi associo in comunione alla cattedra di Pietro» – afferma Girolamo. «So che su quella roccia è edificata la Chiesa» (Ep. 15,1: CSEL 54, 63). Nel pieno delle dispute contro gli ariani, scrive a Damaso: «Chi non raccoglie con te, disperde, chi non è del Cristo, è dell’anticristo» (Ep. 15,2: CSEL 54, 63). Perciò può anche affermare: «Chi è unito alla cattedra di Pietro, è dei miei» (Ep.16,2: CSEL 54, 69).
Di Girolamo – afferma papa Francesco – si può dire ciò che egli stesso scriveva di Nepoziano: «Con la lettura assidua e la meditazione costante aveva fatto del suo cuore una biblioteca di Cristo» (Ep. 60,10: CSEL 54, 561). Postumiano, che nel IV secolo viaggiò per l’Oriente alla scoperta dei movimenti monastici, fu testimone oculare dello stile di vita di Girolamo, presso il quale soggiornò alcuni mesi, e così lo descrisse: «Egli è tutto nella lettura, tutto nei libri; non riposa né giorno né notte; sempre legge o scrive qualcosa» (Sulpicius Severus, Dialogus I, 9, 5: SCh 510, 136-138).
Papa Francesco rivolge quindi una sfida ai giovani: «… partite alla ricerca della vostra eredità. Il cristianesimo vi rende eredi di un insuperabile patrimonio culturale di cui dovete prendere possesso. Appassionatevi di questa storia, che è vostra. Osate fissare lo sguardo su quell’inquieto giovane Girolamo che, come il personaggio della parabola di Gesù, vendette tutto quanto possedeva per acquistare «la perla di grande valore» (Mt 13,46).
«Davvero Girolamo è la “Biblioteca di Cristo” – conclude la lettera apostolica –, una biblioteca perenne che sedici secoli più tardi continua a insegnarci che cosa significhi l’amore di Cristo, amore che è indissociabile dall’incontro con la sua Parola. Per questo l’attuale centenario rappresenta una chiamata ad amare ciò che Girolamo amò, riscoprendo i suoi scritti e lasciandoci toccare dall’impatto di una spiritualità che può essere descritta, nel suo nucleo più vitale, come il desiderio inquieto e appassionato di una conoscenza più grande del Dio della Rivelazione. Come non ascoltare, nel nostro oggi, ciò a cui Girolamo spronava incessantemente i suoi contemporanei: “Leggi spesso le Divine Scritture; anzi le tue mani non depongano mai il libro sacro”»? (Ep. 52, 7: CSEL 54, 426).
Credo che la compagine ecclesiale del futuro sarà segnata, se vorrà essere un lievito di un mondo nuovo, dalla venerazione sacramentale della parola di Dio, parola che, provenendo «da fuori», «da Dio», sola potrà salvaguardare il mondo nella sfera dell’umano.