L’esegeta cardinale passeggia nel giardino della parola umana, parola debole e fragile, alla quale è stata affidata la rivelazione della Parola, at-testata nella Bibbia. Quest’ultima è, a buon diritto, Il grande codice a cui si è abbeverata la cultura del mondo occidentale e – in misura minore e “laicizzata” – anche ai giorni nostri. La parola è avvincente, potente, specie quella poetica. La parola biblica non è solo epifania della rivelazione, ma diafania (Teihard De Chardin), trasparenza del divino. Soprattutto la poesia abbraccia in sé gli “spazi bianchi” che sono altrettanto e forse più espressivi delle parole dette per esprimere la profondità della realtà cantata.
La debolezza della parola, specie quella ebraica dotata solo di 5.740 parole, tende all’espansione massima di senso attraverso la musicalità delle sue espressioni. Dôdî lî waānî ledôdî, «il mio Amato è per me/mio e io sono per il mio Amato», dice l’Amata del Cantico dei Cantici.
La poesia canta l’ebbrezza dell’amore, della primavera passeggera come un soffio nelle stagioni di Israele. Canta la tragicità delle sofferenze, come quella di Gerusalemme prostrata a terra nella polvere dell’esilio, dalla cui bocca esce solo un bisbiglio.
Elia al monte Horeb sentirà solo la «voce di un sottile silenzio», un silenzio che parla perché non è un silenzio “nero” – assenza di rumori e di parole, molto temuto dai giovani d’oggi – ma un “silenzio bianco”, espressivo più del risuonare della parola.
YHWH, il nome del Dio di Israele, il massimo contenutistico dell’esperienza religiosa ebraica, è impronunciabile, è vietato pronunciarlo e va sostituito con un altro nome, ‘Adōnay.
«La Bibbia è l’alfabeto colorato della speranza, nel quale hanno intinto il loro pennello per secoli i pittori» (Marc Chagall). Nella tavolozza artistica la Parola può essere attualizzata (Paul Gauguin, Visione dopo il sermone: dopo l’omelia, le donne bretoni rivedono nella piazza del loro paese la lotta dell’angelo con Giacobbe allo Iabbok); la Parola può essere deformata (Carl Gustav Jung, Risposta a Giobbe: Dio si incuriosisce dell’uomo che protesta contro la sua volontà insindacabile e manda Gesù sulla terra ad ascoltare le ragioni di Giobbe; Gesù comprende che Giobbe ha ragione e contro i momenti dell’ira di Dio da allora in poi a ergersi contro l’Onnipotente non ci sarà solo Giobbe ma anche Gesù); la Parola può essere anche trasfigurata (Wolfgang Amadeus Mozart, in Vespri Solenni di un Confessore K339 commenta il brevissimo salmo 116[117] facendo salire la soprano sempre di più fino a “cadere” nell’assemblea del coro che canta con fiducia ormai “cristiana” il Gloria; le parole ḥesed ed ‘ĕmet’ del salmo, che esprimono relazione amorosa e non tanto misericordia e veritas della Vulgata geronimiana, trovano qui espressione esaltante e affascinante).
Wozu Dichter, «Perché i poeti», si interrogava Friedrich Hölderlin, «perché i poeti in tempo di povertà?». «Noi viviamo in un tempo in cui la povertà, cioè la mancanza di Dio, non è più sentita come mancanza», commentava Heidegger in I sentieri interrotti. In un tempo di orecchi ostruiti da ortica la parola dei Profeti deve irrompere «per le porte della notte, incidendo ferite di parole nei campi della consuetudine» (Nelly Sachs, I Profeti). La parola deve trovare orecchie che sappiano ascoltarla e accoglierla.
Oggi la forza della parola dei profeti e dei poeti «appare insignificante, eppure è necessaria più del pane» (Ravasi, p. 42), e si realizza così la profezia di Am 8,11 «… manderò la fame nel paese… non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore».
Gianfranco Ravasi, La voce del silenzio (Le ispiere s.n.), EDB, Bologna 2018, pp. 48, € 6,00. 9788810569108