Avevano passeggiato a lungo quella sera, loro due soli, per uno di quei viottoli che si snodano furtivamente fra i fianchi tortili di ulivi secolari. E tornavano per quel sentiero stretto stretto, l’uno accanto all’altro, finché giunsero all’uscio fissato.
Chissà cosa si saranno detti lungo il cammino: il segreto del loro colloquio resterà sigillato per sempre. L’entusiasmo di Yehûdāh per Yehoshua si era fatto febbrile, dopo gli ultimi osanna e le vie tappezzate di palme e mantelli, con cui ieri la folla lo aveva accolto al suo ingresso in Città. Persino le milizie romane rimasero inermi davanti a tanto tripudio. Non gli pareva vero: l’oracolo di Zaccaria, profeta, si stava realizzando!
E con quale tono il Rabbì in quel colloquio gli si sarà rivolto? Per sbrogliare forse gli equivoci e destare colui che, di lì a poco e per sempre, sarà chiamato: il traditore?
Ed egli bussò. Salirono al piano superiore, dove gli altri li attendevano, in una grande sala addobbata a festa.
Si portavano addosso ancora l’umido odore del muschio e quel profumo di polline che a primavera vapora ovunque. Il maestro al centro, mentre i dodici a gambe conserte a fargli corona.
Kèfa annuì. I rotoli dei salmi e le vivande: tutto era pronto. Di lì a poco avrebbero consumato gli azzimi, erbe amare, agnello e calici di vino: la cena di pèsah.
Come al tempo dei faraoni un demone sfilava dietro gli usci delle case e, vedendo il sangue sacrificale sugli stipi delle porte, passava oltre gli alloggi, così fra poco il Male non avrebbe tardato a passare anche dal loro cenacolo.
Yehoshua ruppe il silenzio: «uno di voi mi tradirà!» – le fiamme delle lucerne intimidirono. Un denso silenzio piombò nella sala.
L’atmosfera semplice e solenne del momento, di colpo scivolò in bisbiglio generale, come un trambusto di inattese esclamazioni. Nessuno dei commensali capì la sentenza: il solo ad intenderla fu l’Iscariota.
Il Rabbi allora, presa la coppa del vino e un pane, proferì parole inaudite: «Questo è il mio corpo», «Questo è il mio sangue, per voi».
Né Kèfa né gli altri sapevano più cosa rispondere. A nulla servivano i rituali appresi, trasmessi di padre in figlio da intere generazioni. Questa pasqua si annunciava diversa da tutte le altre.
In un’impennata di curiosità, Kèfa ammiccò con segni cifrati al più giovane fra loro, che sedeva alla destra del Rabbi, e questi reclinando il suo volto sul petto del maestro, teneramente sussurrò: «Signore, chi è colui che ti tradisce?».
Nel cerchio dei volti, divampò la faccia di Yehûdāh , figlio di Simone.
Con somma disinvoltura e gravità, Yehoshua intinse dal centro un boccone e lo portò adagio alle labbra dell’Iscariota. Ed egli deglutì.
Quel morso di cibo, cosi candidamente offertogli, lo scosse in un’interna esplosione: nessun fiele avrebbe potuto uguagliare l’amarezza di quel tozzo di pane.
Lo vide negli occhi, Yehoshua, e concluse: «Quello che devi fare allora, fallo presto».
Vinto da una fretta nervosa Yehûdāh si alzò e, scendendo a perdifiato le scale, abbandonò per sempre la casa.
Limpidi erano alla vista del Nazareno i cuori degli uomini: pur senza sapere quali fossero le macchinazioni e gli intrighi del traditore, Yehoshua indovinò tutto.
Non così i discepoli però. Nessuno di essi intese il profilo tragico di quei gesti, sotto il cui velo si nascondeva la risposta cifrata alla domanda del giovane Giovanni.
Yehûdāh, uscito dalle mura della città, impazzava giù per il pendìo verso il frantoio degli olii. Nel silenzio abbuiato di quella notte, l’unico suono a fargli compagnia era il salterellare delle monete nel sacchetto legato alla cintura, sotto la veste.
Gli avevano dato trenta pezzi d’argento, purché egli facesse la spia, consegnando il Maestro nelle mani del Tempio e dell’Impero.
Ma in realtà non fu il baratto a sedurlo – tanto più che egli, fra i dodici, gestiva la cassa e avrebbe potuto sottrarre quanto voleva. Quel Rabbi, in verità, lo aveva stregato.
Non parlava come gli altri maestri itineranti che affollavano le vie di Israele; né come i sempre nuovi messia dalle false e bizzarre garanzie. Sulle labbra di Yehoshua la Torah rifioriva in bellezza. Egli veniva di certo da una altro mondo, vedeva le cose diversamente e ognuno restava persuaso dalla sua legge.
Era già ad un tiro di schioppo dalla meta prefissa, quando improvvisi gli tornarono in mente parole e segni compiuti da Yehoshua: quelle dodici ceste avanzate dopo aver sfamato migliaia; i ciechi storpi zoppi e lebbrosi sanati; le parabole di un Regno misteriosamente già in atto; le profezie di liberazione e le promesse di un popolo nuovo. E poi quel suo ultimo ingresso a Jerusalem, l’altro giorno, in groppa ad un asinello come dice Zaccaria: era giunto il Meshìah liberatore!
Non poteva più aspettare. I pensieri s’eran fatti ossessione. Voleva sfondare il diaframma che separava le profezie dalla realtà, affrettare quell’ora solenne da secoli annunciata, l’ora di Israele, l’ora della resa dei conti contro i pagani invasori.
Sedotto dalle malìe del potere, Yehûdāh pensava di poter affrettare, sotto i colpi della violenza, i tempi di Yehoshua e con lui di Adonai.
Sapeva che il Rabbi si sarebbe recato, come al solito, sul monte degli ulivi. E così fu anche quella notte. Nascosto in agguato fra le fitte fronde degli alberi, lo vedeva in lontananza, più volte piegarsi in terra e pregare. Il suo volto nella notte sapeva di un pallore quasi lunare. Di soppiatto Yehûdāh scappò.
Intanto Yehoshua, risollevatosi da terra, tornò dai suoi che là accanto dormivano: «Non siete riusciti a vegliare un’ora sola con me?». Ma non fece in tempo ad ascoltare la loro risposta, che un vociare di gente e un formicolio di torce, spade e bastoni li circondarono tutti.
Primo fra gli altri, scortato da un distaccamento di soldati, c’era lui. Yehoshua gli si avvicinò.
Erano di fronte, testa a testa, e con voce diafana e leggera: «Yehûdāh , amico..», gli disse.
Quegli però non intese l’ultimo invito del Maestro, sordo ormai ad ogni voce che non fosse la sua.
Accorciando del tutto la pur breve distanza che li separava, Yehûdāh tocco con le sue le labbra del Rabbi.
Confusione generale: fuggirono tutti.
Presero il Giusto, lo processarono, lo flagellarono e condannarono a morte, fra quella notte e il mattino dopo. Ed Egli, signorile e umile, silenzioso piegato sotto i colpi dei suoi flagellatori.
«Ma come?» – si chiedeva Yehûdāh. Non credeva ai suoi occhi, né ai suoi orecchi: «Crucifige crucifige».
Pensava di aver affrettato l’irrompere del tempo ultimo, ma quello non veniva.
«Ma come?» – il Meshìah in persona non poteva essere così umiliato e rischiare perfino la morte più infame…
«Adonai risveglia la tua potenza! Opera come un tempo in Egitto contro il Faraone e il suo esercito! Perché non lo fai? Perché?».
Mai, prima di allora, l’Iscariota si era sentito così solo.
Tremava di un’ansia febbrile. Il suo corpo era come fiaccato da una specie di strappamento interiore.
Abbandonato l’atrio di Pilato, corse dov’erano i capi del popolo per infrangere il greve baratto. Ma essi, ostinati, non vollero. L’ultimo filo a cui era appesa la sua speranza era stato reciso.
Invano allora aveva venduto l’Innocente.
Sciolse il sacco con le trenta monete, roventi come il suo fallimento, le scagliò ai piedi degli anziani e scappò.
Un risucchio luciferino trascinava il traditore con sé lontano.
E il terrore – che spinse gli undici alla fuga e che, alle prime luci della Pasqua, prenderà le donne al sepolcro – precipitò il povero Yehûdāh in voragini di tenebra, verso il suicidio.
Non si trovò compagno libero per lenire la sua disperazione, nessuno con cui potesse parlare: tutti erano fuggiti.
Gianluca De Candia è Privat Dozent presso il Dipartimento di questioni filosofiche fondamentali della teologia dell’Università di Münster e collaboratore del direttore del Dipartimento prof. Klaus Müller. Oltre al presente, ha pubblicato su Settimana News alcuni altri ritratti biblici: I sogni di Yosef (12 dicembre 2017); Miriam, la madre (21 dicembre 2017); Jochanan, detto il Battista (16 febbraio 2018); Miriam di Magdala, l’amante (23 febbraio 2018).