“Dio non esiste, ma noi siamo il suo popolo eletto”: la frase di Woody Allen mi fa sorridere ogni volta che la leggo. In quella battuta c’è qualcosa di serio ed amaro.
Molti anni fa, negli Stati Uniti, venne pubblicato un libro il cui titolo, tradotto in italiano, suonerebbe così: “Una psico-storia del sionismo”. Conosco poco di quel testo perché non è mai uscito nel nostro Paese. Però ne ho letto, per interposto scrittore, qualche citazione. Una delle tesi del volume è che i sionisti hanno ammazzato il padre per sposare la terra. Quindi, in una sorta di complesso edipico collettivo, i sionisti avrebbero sostituito Dio con la terra promessa. Una tesi che oggi è sostenuta anche da Moni Ovadia, quando accusa i sionisti di tradire l’ebraismo con idolatria per la terra.
Io penso che il concetto, per tornare alla battuta di Woody Allen, sia sempre lo stesso: a cosa ti serve Dio quando hai ottenuto quello che ti interessa? Un interrogativo che chiama in causa i credenti di tutte le religioni, non solo ebrei.
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Alcune sere fa stavo pensando a queste cose. Avevo ascoltato l’intervista ad alcuni giovani coloni israeliani che, con le armi in pugno, stavano entrando a Gaza. La ragazza intervistata sosteneva che “dobbiamo andare a prendere la terra” perché bisogna colpire duramente i nostri nemici e l’unico modo per farlo, dichiarava lei, è portargli via quella terra che era dei nostri antenati.
La terra promessa, il discorso torna sempre lì. Parecchie volte mi sono trovato a riflettere su questo concetto. Ma cosa significa davvero? Possibile che si tratti di un posto fisico? Se fossi famoso e irriverente come Woody Allen mi verrebbe una battuta: “Ma davvero il vostro Dio vi ha promesso un pezzo di terra? Dunque, l’ebraismo è l’unica religione che adora un agente immobiliare?”. Non può essere così.
Nella mia ignoranza ho sempre immaginato la terra promessa in un modo diverso. La mia idea, non essendo uno studioso dei testi biblici, l’ho elaborata in deduzione: ho pensato, il Dio dei cristiani e degli ebrei è lo stesso che si è rivelato ad Abramo; può forse un padre fare delle differenze tra i suoi figli? Non credo. Se ha promesso una terra a “voi” deve averla promessa anche a “noi”.
In effetti, se ci rifletto bene, un ebreo vissuto 20 secoli fa, ci aveva donato la speranza di una liberazione, verso un “posto” promesso. Però non si trattava, in quel caso, di una terra da difendere con carri armati e fucili. La promessa di quell’ebreo – morto sulla croce – è speranza in una vita oltre le miserie dell’esistenza terrena.
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La vita di ognuno di noi è misera perché, nel giro di pochi anni, si consuma e finisce nella “polvere”. In questo breve arco di tempo, a che serve ammazzare i simili per prendere la loro terra? Che razza di promessa è mai questa?
Il mio dubbio iniziale si rovescia: deve essere un Dio veramente ingiusto quello che a “noi” cristiani ha annunciato una vita oltre la vita, mentre agli ebrei ha promesso solo un fazzoletto di terra sul Giordano. Non può essere così!
Non ho, appunto, molti strumenti per interpretare le Sacre Scritture. Il mio parere vale poco. Non so dire se esistono una “vita eterna” o la “terra promessa”. Spesso, anche se non alla pari di Woody Allen, mi viene qualche dubbio pure sull’esistenza di Dio. Continuo ad interrogarmi e, dove non arrivo, cerco di far tesoro di chi può guidarmi nella ricerca. Qualche tempo fa ho ascoltato, in un video dal Meeting di Rimini, la riflessione di Joseph H. H. Weiler intitolata “Alla ricerca della Terra Promessa nel pensiero biblico”.
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Nella sua relazione lo studioso sostiene la natura spirituale, non materiale, di questo concetto. La cosa che mi ha colpito di più è stata, nella conclusione della sua relazione, la riflessione su Mosè: colui che aveva guidato il suo popolo nella fuga dall’Egitto, dopo aver attraversato il deserto, lo aveva portato sino alla terra promessa. Però, proprio a Mosè, quando la meta sembrava raggiunta, Dio ha imposto il divieto di entrare in quella terra tanto agognata. Le interpretazioni possibili sono tante.
La spiegazione di Weiler è che Dio, con questo divieto, vuole insegnare a Mosè che la terra promessa non è un punto di arrivo, bensì il cammino stesso. A me questa sembra un’ottima chiave di lettura: l’importante non è arrivare ma camminare; non trovare ma cercare. Questa idea è uno stimolo che ci spinge a metterci in cammino alla ricerca di quella terra che, in ogni caso, non sarà mai un luogo per il quale ammazzare i propri simili.