“La cultura dell’incontro”
«Per leggere dentro la storia e la cronaca di 25 anni di immigrazione in Italia, Caritas e Migrantes hanno scelto nel Rapporto di quest’anno di lasciarsi guidare da una bella espressione: “La cultura dell’incontro”». Queste le parole con le quali Guerino Di Tora, vescovo ausiliare di Roma e presidente della Fondazione Migrantes, ha presentato il 5 luglio 2016 presso la struttura The Church Palace (Domus Mariae), a Roma, il 25° Rapporto Immigrazione Caritas e Migrantes.
L’identità chiusa è un inferno
«Il Rapporto Caritas e Migrantes di quest’anno – ha proseguito il presule – mostra come “la cultura dell’incontro” è la prospettiva sociale ed ecclesiale che può guidare la costruzione di una città aperta e di una Chiesa che “è chiamata ad essere sempre la casa aperta del Padre (…) non una dogana, ma la casa paterna dove c’è posto per ciascuno con la sua vita faticosa” (EG 47)».
Per mons. Di Tora, «la cultura dell’incontro non cresce sulla contrapposizione, sulla lotta tra classi e persone, sulla violenza, sulla creazione di luoghi esclusivi, ma sugli incontri, i legami diversi, da luoghi e città dove tutti hanno un posto, da strade e confini dove persone indicano la direzione, aiutano a rialzarsi e camminare… Una società che non riconosca come debba la sua nascita e crescita nell’incontro e non dalla salvaguardia di una chimerica identità pura cade nell’illusione e muore. Un’identità chiusa è un inferno».
Cinque le aree di impegno proposte da mons. Di Tora in cui la cultura dell’incontro deve trovare riscontro: il lavoro, la famiglia, i minori, l’ecumenismo e il dialogo interreligioso.
La verità delle cifre
L’esigenza di una lettura attenta e puntuale, statistica e sociologica, ripetuta ogni anno, ha affermato nel suo intervento Gian Carlo Perego, direttore generale Migrantes, è nata dal rischio – mai cessato in questi 25 anni – di raccontare l’immigrazione più affidandosi alla “percezione” del fenomeno migratorio che alla sua realtà». Quante volte, infatti, si è sentito parlare di “invasione inarrestabile”! La crescita annuale, di fatto, è stata di soli 11.000 immigrati nel 2015, mentre si registrano già i primi cali di immigrati nel Nord-Est, nelle Marche e in Umbria.
«Nell’anno della misericordia e alla luce delle strade indicate dal convegno ecclesiale di Firenze – ha proseguito il direttore della Migrantes – scommettere sulla “cultura dell’incontro” sembra essere l’unica strada da intraprendere sul piano politico e sociale, culturale ed ecclesiale. Ogni chiusura, ogni discriminazione, ogni ritardo nel riconoscimento della cittadinanza, ogni esclusione impoverisce, indebolisce la vita delle nostre città e, in esse, della Chiesa».
Ambiti in cui operare
Articolato e concreto l’intervento di don Francesco Soddu, direttore di Caritas italiana. A suo parere, le oltre 500 pagine del Rapporto stanno a dimostrare che «un’immigrazione diversa è possibile», purché si accetti una prospettiva «scevra da pregiudizi» e aperta all’intercultura.
Secondo il direttore Caritas, «c’è troppa approssimazione sul modo in cui si approccia l’immigrazione; infatti, si rischia costantemente di scivolare nell’emotività, nel pregiudizio positivo o negativo, senza avere ancora acquisito la consapevolezza che l’immigrazione è il fenomeno sociale più importante del nostro tempo e che deve diventare strutturale in tutti gli ambiti sociali».
Fra i diversi ambiti, di cui è ora più che mai necessaria l’attenzione, c’è innanzitutto il mondo della scuola. Don Soddu richiama quanto è scritto nelle Indicazioni nazionali: «La scuola consolida le pratiche inclusive nei confronti di bambini e ragazzi di cittadinanza non italiana promuovendone la piena integrazione».
«La presenza di bambini e adolescenti con radici culturali diverse – annota il direttore Caritas – è un fenomeno ormai strutturale e non può più essere considerato episodico: deve cioè trasformarsi in un’opportunità per tutti».
Viene quindi chiamata in causa la politica: «Un segnale importante dovrebbe arrivare dalla legge sulla cittadinanza, che ormai giace da tanto tempo in Parlamento. Le nuove generazioni hanno bisogno di sentire l’appartenenza al paese in cui stanno crescendo e in cui vivono». È anche ora di «riconoscere e regolare il diritto di voto alle amministrative per i cittadini stranieri residenti», nonché di approntare «un Piano di integrazione governativo che abbia una cornice decisa e moderna».
Altro vigoroso richiamo di don Soddu: «Non dobbiamo cadere nell’errore di credere che l’integrazione sia possibile a prescindere dallo sforzo di eliminare tutte le disparità di tipo economico e sociale che ancora limitano fortemente la condizione dei cittadini stranieri».
Riferendosi al titolo del Rapporto, il direttore Caritas ha concluso affermando che «l’intercultura non è folklore, ma è una seria politica di costruzione di una società integrata e armoniosa».
Guardare i volti
Alla presentazione del Rapporto ha portato il suo saluto anche il vescovo Nunzio Galantino, segretario CEI.
Anch’egli affronta e smentisce i tanti pregiudizi sugli immigrati, mettendo in guardia dall’equazione, data per scontata dagli «imprenditori della paura», tra immigrazione e terrorismo e sottolineando come, secondo una serie di indicatori, l’immigrazione – sul piano meramente economico – conviene; anzi ne abbiamo perfino bisogno».
C’è, innegabile rispetto ad altre epoche segnate dalla migrazione, una forte presenza dell’islam. Ed è vero che una lettura integralista dell’islam, che sta alla base del terrorismo, ritarda – quando non esclude – la possibilità di incontro con l’esperienza di un islam moderato.
Guardando però al fenomeno migratorio con obiettività, liberandolo da facili, deformanti e disinformate equazioni, è possibile percorrere un’altra strada, che è quella nella quale la Chiesa si riconosce.
L’immigrazione, infatti, costringe – secondo il segretario CEI – «a guardare la storia a partire dalla prospettiva di “quelli che non ce la fanno”; il fenomeno della mobilità va guardato con gli occhi – il più delle volte impauriti – dei “profughi”». E ha richiamato quanto dichiarato con efficacia da papa Francesco all’Angelus del 19 giugno di quest’anno: «I rifugiati sono persone come tutti, ma alle quali la guerra ha tolto casa, lavoro, parenti, amici. Le loro storie e i loro volti ci chiamano a rinnovare l’impegno per costruire la pace nella giustizia. Per questo vogliamo stare con loro: incontrarli, accoglierli, ascoltarli, per diventare insieme artigiani di pace secondo la volontà di Dio».