Il Vangelo, da sempre, è lì a indicare che l’infermo, il malato, offre il «dove», il «come», il «perché» al proporsi della Chiesa al mondo. E allora, rientrando dalla mensa eucaristica, senza soluzione alcuna di continuità, ecco la consegna evangelica: «In qualunque casa entriate, prima dite: “Pace a questa casa” (…); curate gli infermi che ci sono e dite loro: “Il regno di Dio è vicino a voi”». Che altro può attendersi chi cerca il regno di Dio e si sa inviato ad annunciarlo?
Il legame eucaristia-infermi
Fu proprio questo binomio, «eucarestia-infermi», a essere sapientemente proposto all’attenzione dei fedeli dal cardinale Giacomo Biffi, arcivescovo di Bologna, all’indomani di un congresso eucaristico diocesano, con la nota pastorale I malati nella comunità cristiana. Documento che ebbe vasta eco per la sensibilità pastorale e profondità teologica che rifletteva, e che fu consegnato a tutte le realtà diocesane (dalla carità alla cultura, al mondo del lavoro ecc.) quale «tema dell’anno».
È certo opportuno richiamare quanto sottolineato già nelle prime righe della nota circa la contestualità eucarestia-infermi, e cioè dover essere «un modo – così testualmente – per incarnare nella concretezza della nostra vita quanto abbiamo meditato nell’eucarestia, come “sacramento della passione del Signore”». E la conclusione: «Non si esaurirà certo qui la grande ricchezza di questo sacramento (…), ma è questo un aspetto essenziale che merita di essere attentamente considerato dai singoli fedeli e dalla intera comunità dei credenti» (G. Biffi, I malati nella comunità cristiana, n. 3).
Fu acuto il cardinale Biffi nel cogliere i «segni dei tempi» in ordine a quanto stava già maturando a livello culturale, etico ed esistenziale nella realtà della salute e della malattia, anticipando la stessa Giornata mondiale del malato, istituita da san Giovanni Paolo II 5 anni dopo. Giornata che richiamava il mondo intero su quelle emergenti problematiche e a noi cristiani anche le urgenze pastorali conseguenti.
Segno dei tempi?
Stiamo ora dicendoci di voler essere una Chiesa «in uscita». Ebbene, questa Chiesa che vuol proporsi al mondo nella sua più fedele identità e nel più vero contesto eucaristico, si trova ora dinnanzi a un segno significativo a lei pervenuto dalla Azienda USL di Bologna: è il riconoscimento del prezioso apporto nella cura agli infermi offerto da alcuni nostri fratelli che si sono resi presenti nelle loro varie strutture da circa quarant’anni. Fratelli che l’AUSL ha voluto anche definire come membri di una «Associazione laicale della Chiesa di Bologna».
Ebbene, se leggere i segni dei tempi è un dettato evangelico, dovrebbe diventarlo per noi il rileggere testualmente alcuni passaggi di quanto ufficialmente espresso dall’AUSL, che vede «confermata la condivisione dei principi che muovono l’agire del Volontariato Assistenza Infermi (…), autorizza la presenza dei volontari negli Ospedali aziendali (…) e riconosce il loro valido supporto, tutti i giorni e tutto l’anno, in ambienti nei quali l’affettuoso scambio di parole è sicuramente un importante supporto al buon esito delle cure».
E come non dirci, a questo punto, «tanta fede in Israele non ho trovato»?
Domanda laica
Riflettiamo seriamente su questa «domanda laica di un Vangelo riproposto col suo primo linguaggio»: quello dell’attenzione agli infermi. Riportiamoci col pensiero a quella «folla immensa, che lo seguiva per i segni che compiva sugli infermi». E chiediamoci, rimanendo nella prospettiva eucaristica, che cosa rappresenta per le nostre comunità (e per i singoli fratelli) la vicinanza agli infermi?
Stiamo forse dimenticando quel «lì c’ero io» di Gesù. E, quindi, tralasciamo di considerare quella croce, quel soffrire, che disgiunto da Cristo è alla base del diffuso smarrimento di tanti fratelli. Sì, il cristiano di fronte all’infermo non può arrendersi e neppure illudersi: non cessa di lavorare alla luce dell’eucarestia, perché la sofferenza venga almeno mitigata; e sapendola alla fine inevitabile, per poterla leggere a quella stessa luce di fede nella sua preziosità.
Di qui si motiva un nostro serio e condiviso impegno accanto al sofferente, per il recupero della salute e per sostenerne l’animo nella difficoltà. Siamo al cuore della Salvifici dolores di san Giovanni Paolo II: «Fare del bene con la sofferenza e fare del bene a chi soffre»; siamo nello spirito della Giornata mondiale del malato.
Il «dove», il «come», il «perché»
Stimolati da queste considerazioni, vorremmo che tale Giornata fosse ripensata e riproposta nelle nostre comunità cristiane, con l’urgenza di chi si sa «in uscita»! Ed è così che l’infermo diventa veramente il «dove andare», da privilegiare nella nostra «uscita»: l’«andate e curate gli infermi e dite loro: “Il Regno di Dio si è avvicinato a voi”». E potrebbe anche essere il luogo della conversione. Così lo fu per tanti santi.
L’infermo diventa anche il «come andare», a noi proposto in ogni dettaglio nella parabola del buon samaritano, che compendia l’agire del Signore nelle sue priorità, e nel suo stile. Andarci anche con l’animo di colui che sa di aver bisogno del malato quale cattedra di insegnamento.
Ma il malato diventa soprattutto il «perché andare». Sì, perché «lì c’ero io», «l’avete fatto a me». Siamo qui a un linguaggio di annuncio che può raggiungere tutti ed essere compreso veramente da tutti, senza alcuna distinzione e in tanti modi.
Potrebbe così divenire l’inizio di un cammino con tutti: «Quando incontri un uomo in cammino, non chiedere chi è e da dove viene, ma solo dove intende andare. Potrebbe diventare una preziosa compagnia». Era il pensiero di Giovanni XXIII.
Comunione più ampia
Fermarsi accanto a chiunque si incontri nella sofferenza e nell’infermità è già «ripensarsi in chiave missionaria»: già essere una Chiesa in uscita missionaria, dove ogni uomo di buona volontà potrebbe «scoprirsi mandato» e sapersi segno e mediatore della bontà e tenerezza del Signore. Sempre aperto anche alla sorpresa di poter talvolta riconoscere: «Tanta fede in Israele non ho trovato».
Ecco allora i confini delle nostre comunità si dissolverebbero, perché questo «evangelizzare» non avrebbe confini: ogni infermo diverrebbe un «tabernacolo», un Cristo in attesa di essere incontrato. Magari proprio quel «luogo sacro» nel quale poter santificare il giorno del Signore, là dove ogni altra celebrazione comunitaria risultasse impossibile. Su ciò, ogni comunità dovrebbe sapersi interrogare e perciò ripensarsi. Era proprio questo lo spirito di quella grande intuizione che fu la Giornata mondiale del malato.
Certamente, sarebbe anche un’illuminata e puntuale risposta «alla stima e all’attesa» di chi è preposto alla «gestione della sanità», che ci permetterebbe di tradurre in una comunione di più ampio respiro quell’eucarestia che celebriamo come comunità ecclesiale. Sarebbe recuperare lo spirito del noto documento della Chiesa Italiana: «Eucarestia, comunione, comunità».