In questi giorni la polizia bosniaca, con l’aiuto delle forze speciali, sta proseguendo i controlli quotidiani dei migranti che non sono registrati da IOM (Organizzazione Internazionale per le Migrazioni) e che quindi non hanno diritto di sostare nei campi ufficiali di accoglienza gestiti da IOM a Bihać, in Bosnia nord-occidentale, per concentrali quindi nel campo di tende di Vučjak.
Interventi di polizia
Vengono trasportati con l’uso di autobus – ovvero, a fronte di grandi numeri -, scortati per otto chilometri, a piedi, in montagna. Solo tra ieri sera ed oggi sono stati riempiti cinque pullman, mentre altre decine di persone sono state scortate a piedi, verso l’area di Vučjak che già conta tra le millecinquecento e le duemila presenze, in condizioni pessime. Nell’altro campo “all’aperto”, Velika Kladuša, la situazione è simile.
Pare inoltre che la polizia bosniaca abbia raccolto persone che stavano al di fuori dai campi (dunque anche queste non registrate da IOM) per spostarle verso il confine con la Croazia, nella località di Šturlić, punto da cui di solito i migranti partono per tentare il difficile attraversamento dei confini, ossia il cosiddetto “game” tra “controllati” e “controllori”; altre persone sono state disperse tra i sentieri della zona e abbandonate a sé in mezzo ai boschi. La sensazione dunque è che vi sia una strategia, a livello del Cantone bosniaco di Una-Sana, per dissuadere i migranti a stare nei pressi dei campi e soprattutto nei centri abitati.
Nei giorni scorsi il sindaco di Bihać, Šuhret Fazlić, ha annunciato infatti che la municipalità non intende più coprire i costi di gestione del campo di Vučjak,.
Rotta balcanica all’inverso
Le condizioni di vita sono tali da spingere i migranti da tempo a Bihać a tornare indietro lungo la rotta balcanica. Un fenomeno che abbiamo notato in parte in Serbia, ove Ipsia- Acli gestisce, insieme a Caritas Italiana, alcuni campi di accoglienza: persone migrate in Bosnia mesi fa stanno ora ritornando, anche perché le condizioni di vita nei campi di Serbia sono migliori, specie in considerazione dell’arrivo dell’inverno.
Stiamo raccogliendo altre testimonianze da volontari di Tuzla – semplici cittadini o piccoli gruppi informali -, che aiutano da mesi le decine e decine di persone che ogni notte si accampano all’aperto attorno alla stazione, in condizioni insostenibili e senza alcun aiuto istituzionale. Anche questi raccontano di aver assistito alla partenza di persone che hanno deciso di tornare indietro, verso la Serbia.
Non so dire con quale numero, ma confermo che ormai si parla di gruppi consistenti di persone che non ce la fanno più a stare a Bihać e nei pressi di Bihać, in queste condizioni, con l’inverno alle porte. È bene sottolineare che i campi organizzati da IOM a Bihać sono ora al pieno delle loro capacità. Tuttavia, in alcune strutture, ad esempio l’ex studentato “Borići”, ci sarebbe ancora qualche spazio per poter realizzare allacciamenti di acqua ed energia elettrica in modo da accogliere altre persone in container abitativi. Il “Borici” ha ora 400 posti, tutti occupati, ma potrebbe ospitarne altre 150 persone in container. Il Cantone Una-Sana non ha concesso a IOM l’autorizzazione. La politica cantonale è dunque di mantenere i numeri concordati all’apertura dei campi e di non andare assolutamente oltre.
Tensioni crescenti
Ciò che sta pericolosamente provocando momenti accesi di protesta e incidenti tra migranti e forze di sicurezze è l’ordinanza con cui il Cantone ha decretato la restrizione della libertà di movimento delle persone, pur regolarmente registrate. Ciò significa che i migranti non possono più uscire liberamente dai campi IOM. Ora devono mettersi in fila, con lunghe attese, passare i controlli, per ottenere semplicemente il permesso di andare a fare la spesa al supermercato. Accade che in alcuni momenti la fila sia lunghissima e le attese estenuanti o che la security neghi loro l’uscita. Così i migranti si sentono letteralmente in prigione.
Sempre a Bihać, al campo IOM denominato “Sedra”, adibito all’accoglienza di nuclei familiari, è accaduto che sia stato impedito persino di andarsene (e dunque di tentare il “game”). I migranti non capiscono. Dicono: “Non ci vogliono qui, ma allo stesso tempo non ci fanno andare via”. La situazione è dominata dal caos, mal organizzata, contraddittoria.
Esodi famigliari
Ci sono uomini spostati da un campo all’altro singolarmente, senza il resto della famiglia, per liberare stanze precedentemente occupate con l’intero nucleo. Il disagio di queste persone è grande!
Stiamo costatando che, da metà agosto ad oggi, è aumentato il flusso di famiglie lungo l’intera rotta balcanica, in Macedonia, in Serbia e in Grecia. Le famiglie ora risultano essere in maggioranza di provenienza afgana, siriana e irachena.
Ciò evidentemente significa che sta avvenendo uno spostamento importante dalla Turchia verso i Balcani, lungo una rotta già intensamente percorsa da famiglie e da minori non accompagnati. Tra il 2018 e il 2019 il flusso si era assestato: mentre dall’estate scorsa, cioè da quando sono ripresi copiosi gli sbarchi tra la Turchia e la Grecia, si è fatto ben più evidente un effetto a cascata sui Paesi più a nord nella rotta balcanica.
Abbiamo realizzato osservazioni nella zona di Lohovo, a sud di Bihać , a pochi chilometri dal confine, sulla riva ovest del fiume Una, ossia nella zona di intensi azioni di respingimento dalla Croazia. Abbiamo, ad esempio, assistito al rientro verso Bihać di un gruppo di sette ragazzi africani respinti dalla polizia croata. Gli è stato portato via tutto, compresi gli zaini. Cogliendo tracce nei boschi della zona, abbiamo trovato conferme delle azioni sistematiche di pushback: custodie e pezzi di cellulari distrutti, insieme a guanti di lattice e mascherine in uso da parte delle forze di polizia (non certo da parte dei migranti in fuga). La presenza della polizia che sbarra, con la forza, la strada verso l’Europa non è dunque certamente diminuita!
Silvia Maraone è responsabile dei progetti IPSIA Caritas lungo la rotta balcanica.