Lo scorso novembre, papa Francesco ha licenziato il vertice della Caritas internationalis e ha annunciato la nomina di una commissione che proponga «nuovi strumenti di gestione e di leadership». Questa decisione si riferisce ad alcune sue parole del maggio 2019 in merito alla matrice cristologica e al radicamento ecclesiale o pastorale della Caritas, e ad altre di Benedetto XVI nel 2012 sull’«identità distintiva» di questa istituzione. E anche a due opere, di Juan Luis Vives e di Domingo de Soto, in totale sintonia con quanto espresso da entrambi i pontefici. La somma di tutti questi dati e i riferimenti ci invitano a ad aprire un dialogo su possibili nuovi modelli di leadership e di gestione della Caritas in cui si tengano presenti, in particolare, questi fondamenti: cristologici ed ecclesiali o «pastorali». L’articolo è apparso in lingua spagnola su Vida Nueva 21-27 gennaio 2023, n. 3.302.
Mi ha sorpreso, anche se non molto, l’annuncio – del 22 novembre 2022 – che papa Francesco avrebbe destituito la direzione della Caritas internationalis, nominando un nuovo corpo direttivo. Con questa decisione ha sostituito i vertici dopo aver appreso i risultati di un’audizione – commissionata dal card. Michael Czerny, prefetto del Dicastero per lo sviluppo umano integrale – in cui erano state rilevate carenze nelle procedure di gestione e di leadership che pregiudicavano gravemente «lo spirito di équipe» e «il morale del personale».
Nuova forma di gestione e di leadership
Per questo ha nominato commissario straordinario Pier Francesco Pinelli – uno dei tre consultori di detta audizione, che sarà affiancato nel suo nuovo incarico dal cardinale filippino Luis Antonio Tagle e dallo spagnolo Amparo Alonso, dal 2020 responsabile di “Incidenza e campagne dell’istituzione”.
In particolare, li ha incaricati di «proporre e di introdurre nuovi strumenti di gestione e di leadership», prima della prossima Assemblea generale di tale organismo, che si terrà nel maggio 2023. Sarà quello il momento in cui verrà scelto un nuovo gruppo dirigente e in cui si spera che le acque riprendono il loro corso.
La carità è «l’abbraccio di Dio» ai poveri, «sua carne»
Ho detto che questo intervento non mi ha del tutto sorpreso. E non lo è stato perché preceduto da alcune importanti considerazioni di papa Bergoglio sulla carità, il 27 maggio 2019, anche ai membri della Caritas internationalis, a chiusura della sua 21ª Assemblea generale.
Sottolineo tre punti fondamentali di quel discorso che, credo, potrebbero essere tenuti in considerazione anche nel processo di revisione avviato nei confronti della Caritas internationalis. E che, parimenti, potrebbero essere presi in considerazione in alcune delle numerose Caritas locali, affinché possano avviare un percorso simile a quello ora promosso dal papa per questa istituzione.
In quell’occasione, disse loro che la carità non è «un’idea», né «un servizio sterile», né «un pio sentimento», né «una semplice offerta» o una «pillola sedativa» per far tacere la nostra coscienza. E, una volta chiarito ciò che non era, passava a ricordare loro cos’era: «l’abbraccio di Dio agli uomini» (…), «soprattutto al più piccolo e a quello che soffre», perché nei loro volto si nasconde «quello di Cristo». Essi «sono la sua carne, segni del suo corpo crocifisso». E, per questo, nel rapporto con loro, è in gioco «l’incontro esperienziale con Cristo», che coinvolge «il cuore, l’anima e tutto il nostro essere»; qualcosa che è possibile solo nella condivisione e vivendo «con i poveri e per i poveri». Alla luce di questo principio fondamentale – ha proseguito – è accettabile solo una carità che si preoccupa «di raggiungerli, anche nelle periferie più estreme»; e fatta con «delicatezza e tenerezza».
Dopo aver ricordato la radice cristologica e, per questo, spirituale e teologica della carità, ha detto loro, in secondo luogo, che «non si può vivere la carità senza avere rapporti interpersonali con i poveri: vivere con i poveri e per i poveri».
«I poveri non sono numeri, ma persone». Se non lo si tiene presente, si finisce per parlare della carità e vivere nel lusso; organizziamo un «forum sulla carità sprecando tanti soldi inutilmente» o giochiamo con «la cultura dello spreco e dell’indifferenza».
E ha proseguito: «Poiché la carità è la più ambita delle virtù a cui aspirare per imitare Dio, è scandaloso vedere operatori della carità che la trasformano in un affare» (…). «Fa molto male vedere che alcuni operatori della carità diventano dei funzionari pubblici e burocrati», vale a dire – così lo capisco io – persone interessate esclusivamente ai criteri di ciò che viene vissuto e svolto come un lavoro remunerativo, e poco più.
Questi due richiami alla radice cristologica della carità e allo «scandalo» di viverla come «affare» o come fanno «funzionari» e «burocrati», hanno indotto Bergoglio a chiudere il suo intervento incoraggiando i presenti – e, attraverso di loro, tutti i membri e gli operatori Caritas – ad andare avanti «in comunione con le comunità ecclesiali alle quali appartenete e di cui siete espressione».
Ecco un altro dato, spirituale e teologico, di cui bisognerebbe tener conto nella riforma di qualsiasi Caritas locale.
L’“identità distintiva” della Caritas
Mi è sempre sembrato che questo importantissimo intervento di papa Francesco fosse in continuità con quello di Benedetto XVI nel 2012, quando anch’egli si rivolse alla Caritas internationalis. In quell’occasione papa Ratzinger chiese – in termini più generali di quelli di Francesco – che questa istituzione si prendesse cura, con particolare attenzione, della sua «identità distintiva», cioè del fondamento e della motivazione cristiana del servizio prestato e della sua dimensione ecclesiale.
Così, una volta ricordate le radici cristologiche, ecclesiali e spirituali della carità cristiana e alcuni dei tanti aspetti a cui prestare particolare attenzione nella sua gestione e direzione, sarebbe auspicabile (ma è solo un auspicio che appoggia la decisione del pontefice) che si sperimentasse una riforma delle Caritas – comprese quelle diocesane o locali – in cui si curi in maniera equilibrata «l’identità distintiva» (cioè cristologica ed ecclesiale) della carità e della giustizia a favore degli ultimi senza incorrere in uno spiritualismo ormai superato o «senza carne», «come pure in un assistenzialismo totalmente frainteso di una certa efficienza e giustizia, o in una professionalità che, ossessionata dal profitto, finisce senz’anima; oppure – che è la stessa cosa – mettendo da parte la mistica e la spiritualità che scaturisce dall’incontro con Dio nei poveri; oppure operando al margine della comunità cristiana, vale a dire concessa in appalto.
Sarebbe un’occasione sprecata se detta riforma si occupasse di rivedere e di promuovere – come ho sentito – solo un miglioramento tecnico e amministrativo allo scopo di facilitare ogni impegno o lavoro e non attendesse, ugualmente, al singolare fondamento cristologico ed ecclesiale su cui si fonda ogni gestione e leadership della carità e della difesa della giustizia nella comunità cristiana.
Ma, insisto, è solo un desiderio che – frutto della connessione rilevata tra quest’ultima decisione e i provocatori messaggi di papa Ratzinger nel 2012 e, soprattutto, di Francesco nel 2019 – mi induce a immaginare e a ipotizzare come potrebbe essere questa riforma, insieme tecnico-organizzativa e teologico-spirituale. E perché.
È evidente che una tale prospettiva può essere presa in considerazione o ignorata tranquillamente, nella consapevolezza che possiede solo “l’autorevolezza” dei dati e degli argomenti che vengono addotti. Niente di più. Ma anche niente di meno.
La giustizia e la carità
Recentemente ho riletto due libri che mi sono stati tanto chiarificatori quanto le provocatorie considerazioni di papa Francesco sulla carità e l’interesse di Benedetto XVI per la sua «identità distintiva»: il trattato Socorro de los pobres («Aiuto ai poveri») dell’umanista Juan Luis Vives (1492-1540) e la Deliberación en la causa de los pobres («Riflessione sulla causa dei poveri»), del domenicano Domingo de Soto (1495-1560).
Articolando il loro contenuto con gli interventi papali che abbiamo richiamato, mi hanno aiutato a immaginare e a riflettere come potrebbe essere un nuovo modello di carità e di giustizia, attento all’esperienza cristologica, spirituale e teologica; promotore di una rinnovata leadership e gestione, e attento alla sua matrice ecclesiale o comunitaria.
Spetta ai «governatori della Repubblica» «prendersi cura dei poveri» (Juan Luis Vives)
Nel 1526, durante un breve soggiorno a Bruges, Vives scrisse il Trattato dell’aiuto ai poveri, opera in cui presentava ai funzionari municipali un piano di intervento contro la povertà in quella città, fino ad allora riservata esclusivamente alla responsabilità della Chiesa.
È una proposta in cui l’autore si confronta con una «politica municipale» che aveva deciso di ripulire la città e che, di conseguenza, aveva scelto di nascondere i poveri, perseguitarli e imprigionarli, piuttosto che uscire e affrontare il dramma della loro miseria.
La matrice cristiana della giustizia
Juan Luis Vives ha molto chiara la matrice cristologica sia dell’impegno per contrastare la povertà e a favore dei poveri sia della destinazione universale dei beni.
In primo luogo, l’identificazione di Gesù con gli ultimi della città. Chi fa l’elemosina «per amore di Dio» – ricorda l’umanista cristiano – non solo custodisce «un cuore appassionato», ma, soprattutto, diventa un imitatore di Cristo, uno che «riempie» i nostri cuori «di una certa dolcezza».
In secondo luogo, di enorme importanza è anche la tesi che «tutto ciò che abbiamo non ci appartiene veramente, ma ci è stato concesso e donato, in qualche modo, da Dio». Per questo siamo «amministratori di quei beni o doni che possediamo, che non dobbiamo né tenere per noi né sprecare, ma metterli sempre al servizio degli altri».
Il recupero di questa dottrina tradizionale lo porta a ricordare la responsabilità di tutti i cittadini nell’affrontare la povertà. E a reclamare, in conseguenza di ciò, la carità pubblica, senza scartare quella privata.
Se non mi sbaglio, si sta aprendo un processo che porterà a riconoscere l’esistenza o, almeno, un’ipoteca sociale su tutti i beni; e più ancora in una società, come la nostra, profondamente diseguale.
La centralità di queste due verità, di ordine spirituale e teologico, gli permette di formulare i criteri che dovrebbero presiedere a un nuovo modello di attenzione ai poveri nella città di Bruges: «Il forte – afferma –, per volontà di Dio, deve essere custode del debole».
Il risultato è un piano di intervento in cui l’amministrazione comunale ha anche il compito di guidare e gestire lo sradicamento della povertà, aprendo le porte a ciò che, col passare del tempo, si concretizzerà nelle politiche pubbliche del benessere sociale.
E, dando il via, parimenti, a un’autocomprensione della Chiesa alla luce di quello che sarà, con il passare del tempo, il principio di sussidiarietà: la comunità cristiana cerca i poveri che sono assistiti in maniera deficitaria dalle politiche assistenziali pubbliche senza preoccuparsi della notorietà e del riconoscimento sociale: «Quando fai l’elemosina, non sappia la tua sinistra ciò che fa la tua destra» (Mt 6,3).
La gestione e la leadership
Sulla base di questi due principi e dei criteri guida ai quali essi si ispirano, Vives formula una serie di considerazioni sulla gestione e sulla leadership del nuovo modello germinale di carità e di giustizia. Ne riprendo, in particolare, due:
1) La prima riguarda la gestione di alcune contropartite che la città di Bruges può chiedere alle persone a cui dà una mano. Gli aiuti –sottolinea Juan Luis Vives – non possono e non devono essere percepiti dalla cittadinanza come un peso insopportabile per la collettività. E perché ciò non avvenga, tali aiuti devono essere gestiti chiedendo – a chi ne è destinatario – una prestazione che contribuisca, ove possibile, al bene comune. Da qui l’importanza – rileva – che i poveri vengano censiti, in modo che, una volta registrati e identificati con i loro nomi e i loro bisogni particolari, ricevano l’aiuto materiale necessario, oppure vengano formati e si insegni loro, ad esempio, un mestiere che permetta loro di uscire dalla situazione di indigenza in cui si trovano.
Per questo, sia loro chiesto di collaborare anche lavorando, per quanto è possibile, in alcuni degli ospedali o delle case di accoglienza quando siano chiesti i loro servizi. È ciò che, col passare del tempo, sarà definito come una contropartita sociale per l’aiuto ricevuto: la beneficenza – in questo caso pubblica – è legittimata ad esigere delle compensazioni dalle persone che aiuta.
2) La seconda considerazione si riferisce alla leadership nell’affrontare la miseria. La povertà – sostiene l’umanista valenziano – è una sfortuna e un’ingiustizia di enormi dimensioni. Ciò significa che non è più accettabile continuare a lasciare il suo sradicamento – com’è stato fatto – nelle mani della liberalità, spesso intermittente, dei cuori compassionevoli o della Chiesa.
È fondamentale che l’amministrazione municipale di Bruges immagini una risposta in cui – come è già stato sottolineato – i più bisognosi siano aiutati dai potenti.
Con questa seconda considerazione, Vives accetta una doppia leadership, che è corresponsabile perché basata sulla collaborazione tra enti di beneficenza privata e pubblica. Si tratta – così lo intendo io – di un nuovo modello in cui si articolano la carità ecclesiale e la giustizia – in questo caso distributiva – la cui regolamentazione spetta al Comune.
Questa è la novità – tra l’altro per nulla dirompente – di una proposta che, nonostante la sua moderazione, verrà criticata. Alcuni, per «ingerenza» delle istituzioni civili in un ambito (quello della carità) che è di competenza esclusiva della Chiesa. Per altri, perché la municipalizzazione della beneficienza – passando dalla mano ecclesiastica a quella pubblica – favorirebbe lo smantellamento istituzionale della Chiesa; una strategia tipica degli eretici luterani.
Quando la libertà è travolta e «la misericordia è scremata» (Domingo de Soto)
Rileggendo la Riflessione sulla causa dei poveri (1545), di Domingo de Soto, ci sono due punti ai quali conviene prestare attenzione: la difesa della libertà dei poveri e la preoccupazione di non «scremare» la misericordia.
Mi ritrovo, in primo luogo, con la sua critica a quei paesi europei che vietano ai poveri di vagabondare e di mendicare. Se una nazione – si chiede il frate domenicano – si assume il compito di provvedere ai poveri, è accettabile che la loro libertà venga limitata, come si evince dal piano di intervento proposto da Juan Luis Vives?
È possibile – sostiene – che la misura sia idonea dal punto di vista giuridico. Più ancora se è accompagnata da qualche aiuto. Ma non si può ignorare che l’assistenza fornita copre solo l’estrema necessità, non sradica la povertà. Pertanto, non esiste un fondamento sufficientemente solido per privare i poveri del diritto di continuare a elemosinare e, quindi, della libertà di movimento.
In secondo luogo, mi colpisce la sua osservazione su coloro che «rimuovono i poveri dagli occhi dei cristiani». Costoro – denuncia Domingo de Soto, ricorrendo a una felice espressione – «scremano la virtù della misericordia» perché dissolvono «l’affetto interiore» e, in tal modo, la «compassione» per «la fatica del povero».
Coloro, invece, che si relazionano ad essi «con gli occhi e con le mani», dando loro da mangiare, sono coloro che praticano, senza riduzioni di alcun genere, detta misericordia, così come Gesù ci ha insegnato «in quel miracolo, quando diede da mangiare a quella folla di persone nel deserto. Secondo quanto dicono s. Matteo e s. Marco, ebbe prima interiormente compassione e pietà della loro stanchezza e fatica; e da qui derivò l’intervento esteriore».
È questo coraggio (quello di proclamare apertamente l’identificazione di Gesù con i poveri) che continua a giungere fino ai nostri giorni, impedendoci di chiudere gli occhi davanti ad alcuni dei moderni “dogmi” nella pratica della carità e nella difesa della giustizia, come, ad esempio, quella del divieto di elemosina e di occultamento civile dei poveri e, se mi vengono incontro, quella di mettere ai margini i socialmente irrecuperabili, sia perché non ne sono personalmente capaci, sia perché non hanno la volontà di uscire di questa situazione o, semplicemente, perché non sono disposti a corrispondere a quanto proposto o richiesto per ricevere l’aiuto.
Il consiglio di non dare l’elemosina ai poveri
La rilettura di quanto sostenuto dal frate domenicano mi ha riportato alla memoria il dibattito, sorto nel 2015, quando, in una parrocchia, ai fedeli si consigliava – seguendo le indicazioni della Caritas diocesana del luogo – di non dare elemosine a persone che la chiedevano all’ingresso della chiesa e di indirizzarle verso l’ente caritativo. In quell’occasione ho tenuto una posizione che, a tutt’oggi, mi sembra ancora opportuna.
A maggior ragione, se si ripercorre la spiritualità e la teologia nella tradizione latina, che credo sia quella che si coglie anche in papa Francesco quando ricorda che «i poveri non sono numeri, ma persone», o quando dice che «fa molto male vedere alcuni operatori di beneficenza diventare funzionari e burocrati».
Piaccia o no – sostenevo allora – non è raro trovare servizi di assistenza primaria (anche ecclesiali) sommersi dalle richieste di aiuto o dal loro ritardo nella gestione e nell’erogazione. E, al contempo, con un “volontariato” spesso scoraggiato e sfinito dall’impotenza generata da queste procedure e ritardi, così come con persone che abitualmente chiedono alle porte delle chiese; o che sono disperate o costrette da mafie e da familiari, perché non hanno altra via d’uscita o, semplicemente, perché non accettano di offrire in contraccambio alcuna prestazione per l’aiuto di cui hanno bisogno. È uno degli aspetti ardui – anche se non l’unico – con cui deve convivere chi mantiene un rapporto diretto e per nulla “scremato” con la povertà.
Capisco, in questa o in una simile situazione, che si insista sul fatto che il modo più “efficace” per aiutare passi attraverso la Caritas, ma non dirò mai che l’elemosina non va fatta a chi la chiede. Cerco di evitare di fare l’elemosina, ma non ci riesco. Non ho il coraggio di predicare che Dio si identifica con i poveri e negare loro l’aiuto – soprattutto se è urgente – nonostante collabori con la Caritas e altre organizzazioni. In questa materia, preferisco peccare di “buonismo”.
Sono convinto che sia il prezzo che devo pagare per non “scremare” la misericordia, sapendo che, per quanti gesti di gratuità si possano compiere nei riguardi dei poveri, questi non equivalgono a tutto ciò a cui noi siamo obbligati, semplicemente per essere cristiani: «Il povero ha una sola ragione perché gli si faccia del bene – afferma Domingo de Soto – «quella di essere in povertà e nel bisogno; non chiedergli alcun altro riconoscimento. Anche se è un uomo di pessimi costumi, se ha fame, devi dargli qualcosa da mangiare. Così il nostro Redentore ci ha insegnato ad assomigliare al Padre suo, che fa sorgere il sole ugualmente sui buoni e sui cattivi».
Beni affidati per essere distribuiti
Il forte accento sull’identificazione di Gesù con il povero – caratteristico del frate domenicano – coesiste con il riconoscimento della destinazione universale dei beni, anche se non è questa la chiave ultima del suo contributo: «I ricchi – ricorda – devono essere ritenuti e stimati come persone crudeli e infedeli, le quali, avendo Dio affidato loro tanti beni da dividere coi fratelli, con questi beni si sono garantiti una posizione altolocata, facendo crollare la fede che devono a Lui».
Un nuovo modello ecclesiale o “pastorale” di Caritas
Come ho anticipato, tutti questi contributi mi hanno aiutato a immaginare e a ripensare come potrebbe essere un nuovo modello di carità e di giustizia che cerchi di superare, in modo empatico e critico, altri modelli eccessivamente professionalizzati (guidati dalla redditività economica di un lavoro, certo, ben fatto) o puramente assistenzialisti o strumentali della comunità cristiana e ai margini di essa e, per questo, “scremati”. E lo faccio tenendo presente la sua matrice cristologica, oltre che il suo radicamento ecclesiale.
La matrice cristologica della giustizia e della carità
Come ho ricordato, la proposta formulata da Juan Luis Vives e i dibattiti che ne sono seguiti suggerivano alla Chiesa – a suo tempo unica istituzione preposta alla cura dei poveri – di ricollocarsi, almeno, in termini di leadership condivisa o corresponsabile con il comune di Bruges; e, in seguito, con le altre istituzioni pubbliche. Tale esigenza di riposizionamento ecclesiale – come ho ugualmente ricordato – è stata respinta in alcuni ambiti della comunità cristiana, aprendo un dibattito – che continua ancora oggi – sulla necessità di chiarire il rapporto tra carità ecclesiale e carità pubblica, come pure il rapporto con altre organizzazioni private. E, più di recente, tra Caritas e Ong.
Questo richiamo costringe a precisare, in primo luogo, quali linee rosse o quali corrispettive prestazioni – tra tutte quelle eventualmente richieste – non devono essere oltrepassate o accettate dalla Caritas quando si ricevono o si richiedono, ad esempio, sovvenzioni pubbliche o aiuti finanziari da parte di un ente privato. Penso che debbano essere respinte quelle in cui si chiede – in un modo o in un altro – di rendere invisibili i poveri o di contribuire al loro occultamento sociale ed ecclesiale, o quelle che penalizzano o respingono i rapporti diretti con loro.
Ma deve anche evitare, in secondo luogo, di interagire con amministrazioni pubbliche o istituzioni private presentando, ad esempio, ambiziosi progetti di intervento che, generosamente sovvenzionati, consentano di mantenere – innanzitutto e soprattutto – alcuni posti di lavoro; senza, per questo, venir meno al puntuale e concordato servizio o aiuto sociale. Se questo succede, è molto probabile che ci ritroveremo con un modello di Caritas che, eccessivamente professionalizzato e lontano dalla sua matrice cristologica e dalle sue radici ecclesiali, finirà per strumentalizzare i poveri.
La concorrenza con le Ong
Ma, in aggiunta, è necessario precisare il rapporto da mantenere con le Ong, impegnate, come essa, nella lotta alla povertà. È noto che la Caritas è vista da molte amministrazioni pubbliche e da istituzioni private come un’importante Ong, sia per la sua presenza sul territorio sia per il numero significativo di volontari e, nello stesso tempo, per la redditività economica e l’efficacia sociale del lavoro che svolge. Ma è anche noto che, molto spesso, compete con altre Ong per accaparrarsi determinati progetti di intervento. Quando ciò accade, è opportuno chiedersi se ha senso che una Caritas, di chiara ed esplicita matrice cristologica, faccia concorrenza ad altre Ong.
È possibile che ci si imbatta in situazioni in cui il servizio fornito da dette Ong, e anche dalla stessa pubblica amministrazione, sia limitato o insufficiente o, quanto meno, migliorabile. Se ciò avviene, penso che la presenza competitiva della Cáritas sia giustificata, perché si tratta di ottenere progetti che, debitamente sovvenzionati, saranno meglio eseguiti e accompagnati da essa a beneficio e a profitto degli ultimi del nostro mondo.
Ma è anche possibile che ci troviamo con un modello di Caritas che compete non tanto per ragioni cristologiche (anche i poveri hanno diritto ad un’assistenza di qualità), quanto piuttosto per la necessità di dare una certa stabilità professionale e lavorativa a un gruppo di salariati – probabilmente troppo numeroso – che non è possibile abbandonare. Questo modello di Caritas cerca, perciò, di mettersi in mostra, di essere sentito e “voluto” in tutte le amministrazioni e istituzioni nelle quali la sua presenza è, o potrebbe essere, proficua soprattutto in termini economici e di stabilità occupazionale.
Quando questo accade, siamo di fronte a un modello di Caritas che – nelle parole di Francesco – si è burocratizzato e – probabilmente, senza cercarlo né volerlo, – è diventato “un business”, finanziariamente consistente, senza, per altro, smettere di servire i poveri.
Se questo modo di procedere finisce per “diventare normale”, capisco che è giunto il momento di lasciare libero il terreno ad altre Ong o alla stessa pubblica amministrazione e di ripensare un altro modello che permetta di recuperare l’indiscutibile radice cristologica della sua ragion d’essere: l’identificazione di Gesù con gli ultimi, ovunque si trovino e non siano adeguatamente assistiti.
Ciò non significa che la Caritas debba ritirarsi – per principio – dallo spazio pubblico. In nessun modo. Ma deve essere consapevole che verrà il momento in cui dovrà ritirarsi da certi ambiti e “periferie”; in particolare, se compare un altro gruppo che fa meglio o che ha una maggiore disponibilità di risorse.
E deve essere anche consapevole che deve utilizzare tutti i mezzi necessari per rendere possibile tale ritiro; e prima è meglio è, perché individua e assiste, in modo preferenziale, gli esclusi, gli “altri Cristi”, ovunque si trovino, prescindendo da altre considerazioni e vantaggi da lucrare, siano essi politici, sociali, economici, religiosi, mediatici o di qualsiasi altro tipo. E deve procedere così per un imperativo cristologico: «I poveri li avrete sempre con voi» (Mc 14,7).
Ovviamente, questo richiede di avere un’istituzione molto leggera, almeno dal punto di vista organizzativo, oltre che gestionale e dirigenziale. La Caritas non è una tipica Ong né un’organizzazione parallela o in concorrenza con le istituzioni pubbliche e con altri gruppi sociali, ma uno strumento attivato per essere presente dove né l’uno né l’altro sono arrivati o, laddove sono presenti, prestino un servizio chiaramente migliorabile
Una giustizia irrorata nella carità
Del contributo di Domingo de Soto, conservo l’importanza della giustizia redistributiva intrisa di carità, cioè in un rapporto con i poveri in cui sono coinvolti «il cuore, l’anima e tutto il nostro essere». La sua mi sembra una critica opportuna per una Caritas altamente professionalizzata e, quindi, «scremata», «senz’anima», senza spiritualità o – che è lo stesso – senza viscere di umanità; qualcosa che è tipico di un modello ossessionato dalla redditività economica e dalla stabilità professionale e proteso ad applicare le linee guida o i criteri ricevuti, senza ulteriori considerazioni e senza tanti complimenti.
È una critica che mi sembra opportuna anche per l’importanza che – in positivo – finisce per avere la dimensione profetica che si fonda sull’identificazione di Gesù con i poveri. Quando, in un nuovo modello di Caritas, questa identificazione, spirituale e teologica, viene curata e valorizzata al di sopra di altre considerazioni o criteri, si è consapevoli del prezzo – personale, istituzionale e sociale – che finisce per comportare e, parimenti, della libertà creativa che la muove. È la «beata follia cristiana» che, manifestatasi in maniera vivace, va articolata con la necessaria previsione economica in un nuovo modello di Caritas di matrice esplicitamente cristologica.
La matrice ecclesiale della giustizia e della carità
La lettura congiunta di Juan Luis Vives e di Domingo de Soto, così come i contributi di Francesco e di Benedetto XVI, mi hanno anche aiutato a immaginare e a proporre come potrebbe essere una Caritas che abbia cura del suo radicamento o della sua matrice ecclesiale, oppure che sia aperta – nelle parole di papa Bergoglio – «alla comunione con le comunità ecclesiali» di cui fa parte e di cui è espressione.
Tale legame è ciò che permetterebbe di classificare questo o qualsiasi altro possibile modello come “pastorale” o ecclesiale, perché si parlerebbe di una Caritas disposta ad essere – sempre nel pensiero di Francesco – l’«abbraccio di Dio» ai poveri. E, allo stesso tempo, la voce degli ultimi al mondo nella comunità cristiana. Si tratta, quindi, di una Ong con una «identità distintiva»: non solo cristologica, ma anche ecclesiale.
La scelta di questo modello ecclesiale o «pastorale» richiederebbe di muoversi in due direzioni: anzitutto, un modello Caritas con una direzione verticale e professionalizzata e, un altro, con una leadership chiaramente ministeriale (sia guidata da laici sia da ministri della Chiesa). E, in secondo luogo, da un modello di Caritas organizzato e gestito in maniera centralizzata al modello delle diverse Caritas territoriali o settoriali, corresponsabilmente coordinate.
La leadership ministeriale
La cura e l’attenzione alla carità e alla giustizia è uno dei tre pilastri fondamentali su cui si regge ogni comunità cristiana. La santificazione o la liturgia e l’annuncio o l’evangelizzazione sono gli altri due. Se ne mancasse qualcuno, o se uno di essi fosse appaltato, ci ritroveremmo con una comunità zoppa. E se tale scelta dovesse diventare cronica, l’esistenza di una tale comunità sarebbe in pericolo.
Capisco che una Caritas «pastorale» o ecclesiale è quella che, accanto ai ministeri ecclesiali di santificazione e di annuncio, ha anche quello della carità e della giustizia. Si tratta di un ministero ecclesiale e, quindi, laicale e, in alcuni casi, ordinato, pensiamo al diaconato. Entrambi, ministero laicale e ministero ordinato, sono mediazione o sacramento di Cristo, servo dei poveri e promotore di giustizia.
Formando un’équipe ministeriale, avrebbero il compito di guidare, coordinare e dinamizzare questa dimensione della comunità cristiana, sia nel territorio sia in un ambito pastorale specializzato o nella stessa diocesi. Vale a dire, gestire la Caritas per un periodo di tempo da stabilire, nel quale si avvarrebbero dell’aiuto di tecnici specializzati e, soprattutto, della collaborazione corresponsabile di volontari, appartenenti alla comunità o all’insieme di comunità che possano formare, ad esempio, un’unità pastorale.
È da prevedere che la sua realizzazione risolverebbe molti o, almeno, alcuni dei problemi dovuti a un sistema eccessivamente professionalizzato e, perciò, estraneo alla comunità. Certo, non dobbiamo essere ingenui, perché possono sorgere altri problemi.
Una «comunione di Caritas territoriali e settoriali»
Alle indicazioni sopra riportate sul rapporto con le pubbliche amministrazioni, le organizzazioni private e le Ong, va aggiunto l’impegno per un modello gestionale e organizzativo che, in sintonia con il meglio del Vaticano II, sia una «comunione di Caritas territoriali e settoriali» e, quindi, non centralizzato e verticale.
Nel Vaticano II ci sono due modelli di come si può organizzare e guidare la Chiesa: uno marcatamente clericale, e l’altro corresponsabile.
Il primo trova il suo riferimento nella Nota esplicativa previa alla costituzione dogmatica sulla Chiesa, la Lumen gentium, che, allegata per «mandato dell’autorità superiore», come guida per comprendere la citata costituzione in tutto ciò che si riferisce alla collegialità episcopale, favorisce di fatto il clericalismo ecclesiale. Secondo la Nota esplicativa previa, il papa può agire «secondo il suo proprio criterio» (propria discretio) e «come meglio crede» (ad placitum). E quello che si dice del papa, si può applicare al vescovo, al parroco o, in generale, al presbitero o ministro ordinato negli ambiti di sua competenza.
I redattori della Nota esplicativa temono che al papato – e, per estensione, a tutto il ministero ordinato – vengano attribuiti poteri reali, ma che essi non possa esercitarli liberamente a causa del peso eccessivo del collegio episcopale o dei diversi consigli pastorali. Per uscire da tale rischio, ricorrono alla teoria del doppio soggetto del potere supremo nella Chiesa: il potere del papa ha lo stesso fine e la stessa portata di quello dell’intero collegio (papa compreso). E, coerentemente con esso, anche i vescovi e i ministri ordinati, nei rispettivi territori o ambiti di affidamento pastorale, hanno lo stesso potere di tutti i consigli e organismi, compresa la direzione e la guida della Caritas. È un quadro derivato dal modello laico, tipico del potere monarchico assoluto.
Di fronte a un tale modello di organizzazione, ce n’è un altro: quello propriamente conciliare. Secondo questo, la Chiesa cattolica è una comunione di Chiese (communio Ecclesiarum) presieduta, nell’unità della fede e nella comunione, dal successore di Pietro, sebbene l’attuale Codice di diritto canonico non lo tenga presente né si sia sforzato in alcun modo di stabilire i diritti e i doveri delle diocesi nella «comunione delle Chiese». Si tratta di un’ecclesiologia in cui la leadership, la gestione e l’organizzazione sono in attesa di uno sviluppo teologico e giuridico; per poi essere inaugurato. Il contributo migliore e, allo stesso tempo, limitato in questo senso, è stato l’impegno di Francisco per la sinodalità ecclesiale.
In coerenza con questo modello conciliare, penso che l’organizzazione di un nuovo modello di Caritas dovrebbe puntare su una gestione e una leadership corresponsabile, dal basso all’alto, o, che è lo stesso, come una «comunione di Caritas territoriali» e come comunione di presenze in «ambiti specializzati», presieduta, come si deve, dal ministero ordinato (vescovo diocesano, presbitero o diacono, a seconda dei casi) per garantire l’unità della fede e della comunione in tutto ciò che riguarda la carità e la giustizia.
Conclusione
L’intervento del papa sulla Caritas internationalis, al di là delle critiche che ha suscitato, è una magnifica occasione per immaginare e ripensare – seguendo le sue indicazioni dell’anno 2019 – un nuovo modello di Caritas che, con una matrice esplicitamente cristologica e con chiare radici ecclesiali, consenta di affrontare il XXI secolo in modo più evangelico.
Grazie, Francesco, per le tue accurate e puntuali considerazioni sulla carità e per le porte aperte al dialogo su un nuovo modello!