È la prima volta che gli operatori pastorali nel mondo del penale (non solo carcere) vengono convocati per confrontarsi, a partire dal Documento base che vuole dare indirizzo al loro agire ecclesiale. Erano presenti molti dei 209 cappellani delle carceri e una nutrita rappresentanza dei numerosi altri soggetti che, a titolo soprattutto volontario, svolgono servizio in forza di un’appartenenza ecclesiale.
Non ci sono dunque confronti con analoghe iniziative precedenti ma sono emersi con evidenza i temi di maggiore interesse. Impossibile, nello spazio di un post, rendere conto degli interventi che si sono addensati nello spazio sfruttato al massimo di una giornata. Hanno avuto voce, dopo la relazione introduttiva di mons. Paolo Lojudice, vescovo ausiliare di Roma, i rappresentanti degli Uffici CEI nonché il suo segretario mons. Nunzio Galantino. La tavola rotonda ha radunato attorno alla moderazione di Claudia Mazzucato alcuni testimoni del percorso verso una giustizia riparativa e già maturato all’interno del “Gruppo” del quale racconta Il libro dell’incontro.[1]
È una questione di Chiesa
Chi opera nel mondo del penale comporta si interroga su come svolgere il servizio assegnato, trovandosi quasi sempre a dover inventare il proprio metodo, in quanto non esistono offerte di formazione specifica. Il Documento base illustra almeno le direttrici portanti.
Ma la questione di fondo è di natura ecclesiale, prima ancora che pastorale. La conversione di mentalità richiesta ci domanda di passare dalla Chiesa che va in carcere alla Chiesa che è in carcere. Quanti operano nel mondo del penale non servono degli estranei alla Chiesa, ma incontrano e si uniscono a quella porzione di Chiesa già presente e impossibilitata alla reciprocità. Anche la dimensione missionaria ed evangelizzatrice coinvolge tutti come soggetti; non è riservata agli operatori.
La questione ecclesiale va oltre il mondo del penale e riguarda la Chiesa tutta intera. Siamo ancora centrati sulla sacramentalizzazione, sulla dispensa dei sacramenti, lasciando in secondo piano, almeno nella consapevolezza e nell’agire, che la Chiesa è essa stessa sacramento; la celebrazione esprime e alimenta questa sua identità.
Una Chiesa che non disgiunge l’eucaristia dalla lavanda dei piedi, perché sono unite già nell’azione e nel mandato di Gesù. Una Chiesa che spezza il pane condividendolo, più che donarlo, perché a tutti è donato. Quando cade un frammento del pane eucaristico ci chiniamo a raccoglierlo con rispetto – diceva con una metafora mons. P. Lojudice –; perché non dovremmo chinarci con altrettanto rispetto sul fratello che è caduto? Quale forma di “adorazione eucaristica” possiamo trovare per esprimere l’identificazione del povero con Gesù?
È una questione di persone
L’annuncio del Vangelo nel mondo del penale – ma non solo – è questione di contenuti, ma soprattutto di relazioni, perché sono queste a costituirci in persone. È un mondo nel quale c’è più domanda di spiritualità di quanto si creda, diceva mons. Nunzio Galantino nel suo intervento; affermazione ribadita da molti dei numerosi altri interventi. E c’è anche più sensibilità alle questioni dei diritti, della dignità di tutti, della solidarietà di quanto se ne abbia notizia. Dove c’è il massimo di fragilità, c’è anche il massimo potenziale di cambio di vita, direbbe papa Francesco.
Spiritualità significa dare ragioni di vita, di vita nuova dopo percorsi che hanno portato all’esclusione e alla reclusione. E per questo c’è sì bisogno di celebrare, ma soprattutto c’è bisogno di tessere incontri, relazioni, dalle quali nasca l’aiuto e poi anche la celebrazione.
La funzione rieducativa della pena è sostanzialmente fallimentare nel sistema penale italiano. Non solo per carenza di personale, destinato in grandissima parte alla custodia. Soprattutto perché vi è una robusta e radicata coincidenza fra pena e retribuzione: chi ha sbagliato deve pagare, pensando di fare giustizia rispondendo al male con un altro male. Non si capisce per quale magia il carcere – con il quale sostanzialmente la pena coincide – possa educare alla ricostruzione di relazioni positive attraverso l’isolamento. Del resto, il compito “rieducativo” non è affidato all’istituzione, ma all’intera comunità civile.
Le comunità cristiane operano nel mondo penale offrendo anzitutto relazioni segnate da condivisione, gratuità, com-passione. Non per supplire all’insufficienza del carcere ma perché quella è la loro missione: costruire relazioni convertite, dall’una e dall’altra parte; tessere trame di comunione. Con le famiglie di origine e nelle famiglie di origine, che sono coinvolte nella pena del detenuto anche se innocenti. Con le comunità di provenienza. Con la società più ampia, nella quale sono presenti pregiudizi radicati, che non giustificano la commissione del reato o la recidiva, ma certo non aiutano a superare la necessità del carcere.
La risposta che viene dalla Chiesa alle domande di aiuto per necessità primarie (come il vestito) ha sempre lo scopo di restituire dignità alla persona. Ad essa è strettamente connesso il diritto al lavoro che, in quanto sancito dalla Costituzione, non privilegia né incensurati né colpevoli. Condivisi, in proposito, i timori sul futuro della tutela dei diritti nel futuro del nostro paese e dell’Europa intera.
È una questione di giustizia
I percorsi intrapresi verso una giustizia riparativa portano di nuovo in primo piano la relazione, a riprova della sua centralità. La giustizia riparativa non è la giustizia della riparazione. È «la giustizia dell’incontro libero e volontario» tra le vittime, i colpevoli e la comunità per costruire un futuro diverso.
Nell’incontro fra persone, le diverse parti si aiutano a superare la dittatura del passato. La giustizia penale «fischia un fallo», che è importante, ma può significare anche niente per la vittima. La condanna pesante non porta conforto alla vittima, che domanda invece di essere riconosciuta, di poter dire a “qualcuno” (non a una “parte”) quelle parole che nella giustizia penale non trovano spazio per essere dette: «Come hai potuto?».
L’incontro è faticoso per tutti, perché non si sa quale significato viene attribuito dall’altro alle proprie parole, le ferite rischiano di riaprirsi, si deve attingere a un credito ingente di umanità. Le esperienze raccontate – ad un ascolto riverente – testimoniano il patrimonio di futuro guadagnato da quanti si sono lasciati coinvolgere dall’incontro.
“Incontrare”, “insieme”, “comunione” sono le cifre interpretative del convegno e non meno dell’azione dei soggetti ecclesiali nel mondo del penale. «Non sciupiamo la voglia di lavorare insieme», ha concluso in estrema sintesi don Virgilio Balducchi, che terminerà a breve il suo mandato e passa il testimone di Ispettore generale a don Raffaele Grimaldi, cappellano a Secondigliano (NA).
[1] G. Bertagna, A. Ceretti, C. Mazzucato (a cura), Il libro dell’incontro. Vittime e responsabili della lotta armata confronto, Il Saggiatore, Milano 2015, pp. 466. Disponibile anche in versione ebook con alcuni contenuti extra.