Deus caritas est

di:

benedetto xvi

La Deus caritas est (qui) fu la prima lettera enciclica di papa Benedetto XVI, pubblicata il 25 dicembre 2005, primo anno del suo pontificato. La possiamo dunque guardare come una lettera programmatica, non tanto e non solo per una questione cronologica, ma perché Benedetto XVI, in essa, entra nel cuore o nel programma centrale del cristianesimo, riproponendo i fondamenti della fede cristiana.

Focalizzare la nostra attenzione sul «Dio che è amore» equivale ad esprimere con chiarezza il fondamento e il centro della vita cristiana. Lo scenario dell’enciclica si delinea proprio a partire dall’intuizione che il cristianesimo non è un’idea astratta, frutto di speculazione, né tanto meno è una decisione etica scelta dalla volontà individuale, bensì è «l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e con ciò la direzione decisiva» (DCE, 1).

Riferisce Gerolamo, il grande padre della chiesa, che l’apostolo Giovanni, ormai vecchio e portato in spalla dai discepoli all’assemblea liturgica, nelle sue omelie si limitava a ripetere: «Dio è amore. Figlioli, amatevi gli uni gli altri!».

Benedetto XVI iniziò il suo ministero petrino in una venerabile vecchiaia e, in modo altamente significativo, volle che la sua prima enciclica ricordasse ai cristiani – a loro, infatti, è indirizzata questa lettera – l’essenziale della fede cristiana, ciò che veramente la rende un unicum tra le religioni, anche quelle monoteistiche, ciò che è la sintesi di tutta l’esistenza cristiana. E lo fece con uno stile semplice e chiaro, con un tono positivo, uno sguardo alimentato da grandezza d’animo nel vedere e nel sentire, senza polemica o spirito apologetico: il cristianesimo è veramente una buona notizia, offerta a tutti con la comunicazione umana.

Nei giorni precedenti l’uscita dell’enciclica il papa aveva espresso le sue intenzioni: «Volevo manifestare l’umanità della fede». Si noti la novità di questa espressione. In un’epoca in cui «la parola amore è così sciupata, così consumata e abusata», il papa ha voluto ritornare all’amore, alla fonte della fede e della speranza cristiana, ridicendo che Dio è amore e che per questo ha voluto assumere un volto, una carne umana, visibile, in Gesù.

In occasione della morte del papa emerito, ho pensato di rileggere la Deus caritas est a partire dal punto prospettico degli operatori della carità – volontari e professionisti – chiedendo all’enciclica di interpellarci e di aiutarci a definirne meglio il profilo. Ne è venuto una specie di decalogo che potrebbe essere ancora utilizzabile in momenti formativi organizzati dalle Caritas parrocchiali, ma non solo.

Quindi, l’operatore Caritas…

Inserisca e armonizzi l’impegno caritativo all’interno dell’intera missione della Chiesa che prolunga la missione profetica, sacerdotale e regale di Gesù: «La Chiesa non può trascurare il servizio della carità così come non può tralasciare i Sacramenti e la Parola» (n. 22); siamo consapevoli che, specie tra gli operatori professionali, non può essere dato come scontato un percorso di fede sempre completo nella Chiesa.

Questo però non ci fa ignorare la necessità che un operatore Caritas, così come ogni singolo credente, sia il più possibile capace di inquadrare il proprio servizio all’interno di una visione integrale della missione della Chiesa per vivere un servizio caritativo che non è anzitutto un’azione sociale, bensì coincide con un’autentica esperienza di Chiesa.

Sappia riconoscere la “cattolicità” dell’impegno caritativo; certo, la Chiesa è il primo ambito del suo esercizio, ma sappia anche che «la caritas-agape travalica le frontiere della Chiesa» (n. 25b) e supera i fraintendimenti di una solidarietà “familistica” che si occupa dei “nostri” ed esclude quelli che non sono del nostro giro, a favore di un’attenzione universale nei confronti del bisognoso incontrato ad ogni angolo, chiunque egli sia; all’operatore Caritas andrà chiesto un cuore grande, uno spirito universale, una sensibilità contemporaneamente globale e locale, libera da qualsivoglia settarismo; la Chiesa è cattolica perchè nasce dalla Pentecoste, quando, dopo la discesa dello Spirito Santo, attorno agli apostoli si riunisce una folla sbigottita e multicolore.

Fin dai primi secoli questa folla ha evocato quella che si separò dal cantiere edile della torre di Babele. Dalla Pentecoste in poi le lingue rimasero come diversità ricca dei popoli e delle culture, ma finalmente qualcuno ha parlato un linguaggio che tutti erano resi capaci di comprendere. Come i primi cristiani si posero in posizione critica rispetto alla “globalizzazione” dell’Impero Romano, affermando con la loro stessa esistenza un modo diverso di sentirsi ed essere cosmopoliti, così ai cristiani di oggi il Signore affida il compito di gettare basi diverse per l’unità del genere umano.

Non si presti mai a “favorire il fianco” ad una concezione “conservatrice” della carità, vista come «un modo – per i ricchi – di sottrarsi all’instaurazione della giustizia e di acquietare la coscienza, conservando le proprie posizioni e frodando i poveri nei loro diritti» (cf. n 26); in positivo, l’operatore Caritas dovrà partire dal proprio servizio per sentire che l’attività caritativa della Chiesa non potrà mai avere la pretesa di instaurare pienamente la giustizia, bensì quella di essere un principio di «purificazione della ragione», di stimolo, di pungolo, di advocacy, dal momento che, se la Chiesa non può e non deve mettersi al posto dello Stato, non potrà neppure chiamarsi fuori nella lotta per la giustizia (cf. n 28); insieme, le eventuali inadempienze o ritardi dello Stato nell’assunzione delle proprie responsabilità, non potranno mai bloccare l’attività caritativa: «ad un mondo migliore si contribuisce soltanto facendo il bene adesso e in prima persona, con passione e ovunque ce ne sia la possibilità, indipendentemente da strategie e programmi di partito» (n. 31b).

Non interpreti mai la sua azione come esclusiva ed esaustiva: c’è una carità organizzata, ma questa non potrà escludere quella che compete a ciascun singolo cristiano (cf. n. 29); in questa prospettiva l’operatore Caritas deve interpretare il suo ruolo – come suggerisce lo statuto di Caritas italiana – come azione prevalentemente pedagogica all’interno della comunità cristiana: grazie alla propria attività, la Caritas deve favorire la crescita da parte di tutta la Chiesa nella percezione che non si dà vita cristiana che si possa esaurire nel momento catechetico o nel momento liturgico e che non sfoci in una fattiva e tangibile attenzione ai fratelli, specie se ultimi ed esclusi.

Sia un volontario e, quand’anche svolgesse il suo servizio per professione, non perda mai quella freschezza motivazionale e quell’entusiasmo tipico di chi vive un servizio ai poveri in termini gratuiti: un entusiasmo che si manifesta nella «disponibilità a dare non semplicemente qualcosa, ma sé stessi» (n. 30b).

Siamo consapevoli che il livello di complessità dei problemi con i quali la carità della Chiesa deve fare i conti richiede competenza e stabilità di prestazioni; siamo altresì convinti che sia da combattere un’immagine di Caritas di soli professionisti e che il vero valore aggiunto che le nostre comunità possono offrire è rappresentato dalle forze volontarie che riescono a suscitare e a motivare.

Sappia quindi coniugare e far convivere «competenza professionale» e «attenzione del cuore», perché senza queste due componenti unite l’azione caritativa resterebbe monca, incompleta; in particolare, gli operatori coltivino quella «formazione del cuore» che scaturisce dall’incontro con Dio in Cristo, un incontro capace di suscitare in loro l’amore e di aprire l’animo all’altro; questa riflessione rimanda alla prima parte dell’enciclica (cf. nn. 2-18) che dice le radici profonde di un autentico servizio di carità; radici che vanno individuate nel mistero di un Dio che nell’amore ha cominciato per primo ad amare e può istruire solamente l’uomo sul significato autentico della parola “amore”.

Sia consapevole che l’attività caritativa è la visibilità più convincente della Chiesa, ambito di esercizio del dialogo ecumenico e interreligioso, biglietto da visita generatore di stupore per chi non crede (cf. l’episodio di Giuliano l’apostata narrato al n. 24).

Per questo il credente in Gesù di Nazaret non eserciterà mai la sua attenzione ai poveri nella logica del proselitismo che è ultimamente una logica commerciale; affermare, inoltre, che al povero non dobbiamo dare solo cose, ma che il dono più grande è il Vangelo, non significa che a tutti i costi dobbiamo convertire chi si accosta ai nostri servizi (cf. n. 31c); significa altrimenti dire che dobbiamo dare anzitutto il Vangelo: un cristiano deve sapere sempre “perché” lo fa e ultimamente – al momento opportuno – deve saper esplicitare questo “perché”: «Il cristiano sa quando è tempo di parlare di Dio e quando è giusto tacere di Lui e lasciar parlare solamente l’amore» (n. 31c).

Sappia chiarire a sé stesso – e, quando è opportuno, anche a coloro di cui ci si occupa – il perché lo si fa, o meglio, il per chi: questa diventa la condizione grazie alla quale sconfiggere la duplice tentazione (cf. n. 35) della superbia che fa mettere su di un piedistallo di presunzione e quella dello scoraggiamento e dello sconforto nel momento in cui ci si scopre radicalmente incapaci a risolvere bisogni e problemi.

«(L’operatore) in umiltà farà quello che gli è possibile fare e in umiltà affiderà il resto al Signore. È Dio che governa il mondo, non noi. Noi gli prestiamo il nostro servizio solo per quello che possiamo e finché Egli ce ne dà la forza» (n. 35). C’è una straordinaria forza pacificante in queste parole. C’è l’indicazione dell’unica prospettiva capace di farci superare la deriva di un attivismo frenetico e sterile.

Faccia attenzione al virus dell’attivismo e dell’incombente secolarismo, che si può combattere solo con un’intensa vita di preghiera (cf. n. 37), con una familiarità con Dio che non porrà mai l’operatore in un atteggiamento di giudizio nei confronti di un Dio visto come responsabile della miseria delle sue creature.

Essere operatori della carità significa dover fronteggiare le infinite forme della sofferenza dell’uomo e porsi di fronte al mistero del male presente nel mondo; nonostante ciò, «essi, pur immersi come gli altri uomini nella drammatica complessità delle vicende della storia, rimangono saldi nella certezza che Dio è Padre e ci ama, anche se il suo silenzio rimane incomprensibile per noi» (n. 38);

Guardi ai Santi della carità e alla testimonianza plurisecolare che, a partire dal confronto «faccia a faccia» con Dio, ha visto innumerevoli figure capaci di realizzare strutture di accoglienza e ingenti iniziative di promozione umana e formazione cristiana (cf. nn. 36 e 40).

Al n. 36 il papa fa riferimento alla figura «obbligatoria» di madre Teresa di Calcutta come ad un esempio eloquente di autentica spiritualità cristiana che porta all’operosità dell’amore verso il prossimo; questo accenno poi “tira la volata” del n. 40 dove vengono fatti i nomi, da Martino di Tours a Teresa di Calcutta, appunto, quali «modelli insigni di carità sociale per tutti gli uomini di buona volontà»; e così conclude: «alla vita dei Santi non appartiene solo la loro biografia terrena, ma anche il loro vivere e operare in Dio dopo la morte. Nei Santi diventa ovvio: chi va verso Dio non si allontana dagli uomini, ma si rende invece ad essi veramente vicino» (n. 42).

È con infinita gratitudine che il mondo di quanti operano in ambito caritativo all’interno della Chiesa fa memoria del nagistero illuminato e lucido di Benedetto XVI sul tema della carità. Sarà questo il modo di onorarlo e permettere ai semi di bene da lui sparsi negli anni del suo ministero come vescovo di Roma di portare frutti abbondanti, per i credenti e per il mondo intero.

  • Monsignor Roberto Davanzo, parroco nella diocesi di Milano, dal 2005 al 2016 è stato direttore della Caritas Ambrosiana.
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