Sono 41 le diocesi italiane unite “in persona episcopi” che nel prossimo futuro sono chiamate a fondersi. Erano 43 fino a giugno scorso, quando è nata la diocesi Cune-Fossano. Il processo avviato da papa Francesco per “smagrire” una conferenza episcopale troppo vasta (le diocesi sono 226 e i vescovi 405, compresi gli emeriti, 16 le Regioni ecclesiastiche) si è avviato da alcuni anni, ma i tentativi e le riduzioni hanno una radice assai lunga.
La questione del riordinamento delle diocesi italiane è vecchia. Ha più di un secolo. Fin dai primi anni del nuovo Regno d’Italia il governo e le amministrazioni chiedevano una riduzione e semplificazione delle diocesi sul modello delle regioni e province statuali, ma il conflitto aperto con la Santa Sede e il regno d’Italia impediva ogni soluzione viabile.
Giuseppe Brunetta ha ricostruito la variazione dei numeri delle diocesi in Italia a partire dal 1863 (272). In seguito i numeri sono questi: le diocesi sono 291 nel 1888, 278 nel 1901, 284 nel 1924, 348 nel 1946, 292 nel 1951, 272 nel 1966, 349 nel 1973, 326 nel 1986 (cf. Atlante delle diocesi d’Italia, Jesus – De Agostini 1995). «Pur accettando, con beneficio d’inventario, i conteggi precedenti al 1995, non si possono negare i cambiamenti istituzionali/territoriali intervenuti nell’arco di 130 anni».
Già nel 1929…
La questione riemerge dopo il Concordato del 1929 che prevede una revisione della circoscrizione delle diocesi, per renderle corrispondenti alle province. Ma tutto resta lettera morta fino alla fine della seconda guerra mondiale dove vengono, in alcuni casi, valorizzati i capoluoghi della provincia a scapito delle sedi tradizionali.
Tutto cambia col concilio e con l’indicazione di Paolo VI nel 1966 in cui dà mandato alla neonata Conferenza episcopale italiana di progettare una riforma che preveda anche la fusione di molte diocesi. Ma il vero cambiamento avviene all’indomani della revisione del Concordato nel 1984.
Gli accordi, mentre liberano la Chiesa da ogni impegno con lo stato in materia, pongono le premesse per il più importante riordinamento delle diocesi che l’Italia abbia conosciuto. Con la legge del 20 maggio 1985 e con il decreto della segreteria di stato il 3 giugno successivo le diocesi acquistano la personalità giuridica agli effetti giuridici.
A settembre del 1986 la congregazione dei vescovi riduce le diocesi da 325 a 228. Ma l’equilibrio raggiunto non è considerato ancora sufficiente perché, in ogni caso, il numero appare eccessivo, soprattutto se confrontato con gli altri paesi del mondo e, più direttamente, con i numeri sia dei frequentanti, sia dei preti che dovrebbero coprire i ruoli lasciati liberi dai predecessori.
Il Concilio e il nuovo Concordato
Per chiarire le ragioni torniamo al 1964. A dieci anni dalla prima forma di Conferenza episcopale (allora riservata ai presidenti delle Regioni ecclesiastiche), Paolo VI accenna all’eccessivo numero delle diocesi e, due anni dopo, parla del «grave tema della revisione delle diocesi» in sintonia con le attese ecclesiali e rimette il problema alla Conferenza episcopale. Si tratta di dare alle diocesi una dimensione demografica sufficiente per «adempiere pienamente le funzioni che le sono assegnate dal diritto canonico e che sono richieste dai bisogni pastorali moderni».
Il riferimento è al decreto conciliare Christus Dominus (nn. 22-24), mentre il Codice di diritto canonico sviluppa il tema delle diocesi ai cann. 368-374 e i successivi, fino al can. 411 ai vescovi. Sulla spinta del papa, la CEI costituì una commissione, detta dei “Quaranta”, che elaborò un progetto consegnato nel 1968 alla Congregazione per i vescovi. Uno studio di 2.800 pagine che prevedeva una riduzione delle diocesi italiane fino a 118-122.
Il progetto venne votato dai vescovi (169 a favore, 51 con riserva, 70 contrari), ma non se ne fece nulla. Le resistenze erano troppo forti. «Soltanto dopo due decenni all’indicazione di Paolo VI venne dato seguito da Giovanni Paolo II col nuovo Concordato del 1984. Tradotto dalla legge n. 222/1985, all’articolo 29 esso prevedeva la revisione delle diocesi, per opera dell’autorità ecclesiastica, entro il 30 settembre 1986. Nel corso di un anno i vescovi furono impegnati in una forte riduzione numerica delle diocesi: da 325 a 228 (39 metropolie, 21 arcivescovati, 156 verscovati, 8 fra prelature e abbazie territoriali, 3 sedi orientali e l’ordinariato militare» (mons. Erio Castellucci).
La CEI, in seguito alla decisione della Congregazione dei vescovi, fornisce l’elenco aggiornato l’8 ottobre 1986. «Ma tutto questo non toglie che l’organizzazione territoriale della Chiesa in Italia sia ancora lontana dall’aver raggiunto un assetto del tutto soddisfacente: mentre il numero della diocesi continua a risultate decisamente eccessivo in rapporto sia al numero dei fedeli sia a quanto avviene in altri paesi, accanto a circoscrizioni di grandi dimensioni ne sussistono alcune del tutto minuscole e non sempre il rispetto dei confini delle circoscrizioni civili ottiene sufficiente attenzione» (Giorgio Feliciani).
Non fu un passaggio indolore. Vi sono ferite ancora aperte. Si racconta di un vescovo di una diocesi del Sud “costretto” a dormire in una diocesi e a lavorare nell’ufficio dell’altra.
Pro e contro
Fin dal primo incontro con la CEI (2013) papa Francesco ha chiesto di provvedere alla riduzione delle diocesi. Il tema è ritornato più volte, ma all’ultima assemblea (maggio 2024) sembrava aver ripensato la cosa.
Diversi vescovi italiani durante la visita ad limina (gennaio-maggio 2024) avrebbero difeso la tradizione specifica delle piccole diocesi, ma l’indirizzo della nunziatura non è cambiato. Si trattava evidentemente di un dubbio e non di un ripensamento da parte del papa. Anche se le domande si accumulano: come cambierà il ruolo del vescovo? È davvero utile accorpare due diocesi piccole dove si sommano le fragilità più che le forze? Come gestire le eventuali resistenze del clero e del laicato? Come affrontare le spese per la re-intestazione delle proprietà? Come gestire la distribuzione dell’otto per mille?
Ci sono anche passi già sperimentati e promettenti: unificazione del consiglio presbiterale e pastorale; unico seminario; alcuni uffici distribuiti nelle due sedi; salvaguardia di peculiarità liturgiche e storiche…
Così mons. Castellucci sintetizza i pro e i contro: «In favore della fusione delle diocesi: a) lo snellimento delle strutture pastorali (uffici e simili); b) la maggiore mobilità dei presbiteri; c) l’apertura a problematiche e risorse territoriali più ampie.
Contro: a) l’allontanamento del vescovo dal popolo; b) la cancellazione dell’identità propria delle singole diocesi; c) l’allentamento del senso di appartenenza dei cristiani di un territorio».
In ogni caso, resta da compiere un passo importante: mettere mano alla ridefinizione dei confini attuali delle diocesi, di adempiere l’indirizzo già condiviso nel Concordato del 1929, quello cioè di far coincidere le diocesi con le province (sempre che non vengano cancellate in sede civile).
Il territorio
Il rapporto del territorio con la fede cristiana-cattolica è particolarmente complesso. Anzitutto non rappresenta un tratto decisivo per la fede. Come ricorda la Lettera a Diogneto: «I cristiani infatti non si differenziano dagli altri uomini né per territorio, né per lingua o abiti. Essi non abitano in città proprie, né parlano un linguaggio inusitato; la vita che conducono non ha nulla di strano […] Abitano nella propria patria, ma come stranieri, partecipano a tutto come cittadini e tutto sopportano come forestieri; ogni terra è la loro patria e ogni patria è terra straniera» (5,1-6).
E tuttavia il legame della comunità con il territorio è rilevante perché testimonia dell’universale accessibilità della fede. E cioè: basta abitare in un luogo per avere accesso alla celebrazione e alla proposta cristiana. Non sono necessarie garanzie di altro tipo, non sono richieste carte di identità, non sono previsti esami in entrata.
L’universalismo della fede cristiana si riflette anche nel territorio in cui uno nasce e vive. Per capire la forza di questa immediata appartenenza basti pensare all’attuale discussione sulla cittadinanza, ai molti ostacoli, prove e difficoltà per ottenerla da parte dei migranti. Senza naturalmente semplificare la situazione e senza ignorare la complessità della territorialità oggi. A questo si aggiunge il profondo cambiamento in atto nel rapporto fra persona e appartenenza territoriale, persona e città. Il territorio si è ormai assimilato allo stile cittadino. Il cibo, il vestire, i mezzi di trasporto, la mentalità e le attese sono le stesse.
Da più di un decennio la maggioranza della popolazione mondiale vive nelle città. Ma la città è cambiata. Non è più guidata dalle logiche dei luoghi e delle appartenenze, ma dai flussi e dalle funzioni. Non si sostiene da sola senza essere in rete, senza intercettare le grandi correnti di flusso, senza fare i conti con la mescolanza delle popolazioni. Le città si attraversano, non si vivono. Il loro centro di gravità è l’insieme delle funzioni, la capacità di produrre eventi, di controllare etnie diverse, di generare flussi materiali e immateriali.
Con la conseguenza che la socialità non cresce “spontanea” e la solidarietà si consuma. La solidarietà non la si trova, la si deve perseguire. Non si eredita, la si costruisce. Il nuovo contesto fa emergere la minor “presa” delle parrocchie sui residenti, la pluralità delle proposte confessionali e religiose, l’emergere di un analfabetismo religioso assai diffuso. Rimane l’universalismo della fede, ma collassa il “mondo cattolico”. E dunque le strutture vanno ripensate.
Il sogno
Ci sono elementi funzionali evidenti nella scelta di ridefinire i confini delle diocesi. Diocesi troppo piccole e con un clero scarso significano una gestione molto approssimata, un’esposizione a personalismi pericolosi, una minore funzionalità amministrativa e scarsa cura per la formazione.
Ma limitarsi all’efficienza e alla funzionalità significa non cogliere fino in fondo la scommessa. C’è, anzitutto, la domanda cruciale: quali sono i segni di vitalità di una Chiesa? Che cosa rende viva una Chiesa locale?
Vi sono alcuni indici significativi come la frequenza ai riti cristiani, il numero dei presbiteri e la loro relazione con i laici (un peso eccessivo del clero alloctono è saggio?), l’efficace presenza sul territorio (associazioni, istituzioni, figure) ecc. Sarebbe importante nel contesto di una riformulazione istituzionale identificare le priorità come, ad esempio: la ministerialità e i carismi nei laici, la corresponsabilità missionaria, la questione educativa e giovanile. I temi economici e funzionali sono solo successivi.
L’attuale spinta sinodale sia a livello universale come italiano suggerisce altri pensieri e altre prassi. Un accorpamento ecclesiale richiede oggi di generare una novità, una sorpresa, una sorta di ri-creazione. Non la semplice sommatoria di forze, istituti, patrimonio immobiliare ecc. ma piuttosto la coltivazione di un sogno ecclesiale. Più che un programma, un processo.
La composizione degli uffici diocesani, la distribuzione degli incarichi di vertice, non significherebbero molto senza una rigenerazione complessiva dei due popoli cristiani. È l’occasione propizia per innovare il percorso formativo dei presbiteri, il ruolo e il futuro delle parrocchie, la nuova presenza dei laici (e delle donne in particolare).
La sfida è passare da un corpo istituzionale competente a un corpo animato dallo Spirito. Partire cioè non da un bisogno, ma da un sogno, avviare un percorso di discernimento sul futuro delle comunità cristiana, unire elementi di discontinuità con quelli trasformativi, lasciarsi definire e correggere nel “farsi” della decisione (cf. F. Carletti, Il difficile “puzzle” degli accorpamenti pastorali. In Presbiteri 3, 2023, 190-198).