A una settimana di distanza dall’uccisione di don Roberto Malgesini, Giordano Cavallari ha intervistato per SettimanaNews Roberto Bernasconi, diacono e direttore della Caritas della diocesi di Como.
Diacono Roberto, puoi dirci come don Roberto è giunto alla morte?
L’uomo che ha alzato il coltello su don Roberto era conosciuto sia da lui come da me: in tempi diversi l’abbiamo seguito nella sua parabola discendente sino a questa tragedia. È in Italia da molti anni. È stato un lavoratore regolare.
È stato sposato a una donna italiana. Ha perduto il lavoro. Ha commesso reati. La sua vita è andata a rotoli. La sua storia è purtroppo simile a quella di altre persone che incontriamo attorno alle nostre chiese e dentro le opere di assistenza e di carità: dove altrimenti ci si potrebbe aspettare un po’ di attenzione e di accoglienza per gli ultimi?
È stato detto che non è vero che Mahmoudi fosse malato e che, al solito, stiamo cercando di fare i “buoni”, giustificandolo in qualche modo e così cercando di giustificare anche supposte imprudenze ed ingenuità. Sta di fatto che di fronte a questi casi – specie se riguardano persone straniere irregolari e in via di espulsione – i servizi di salute mentale e i servizi istituzionali in genere non sanno che fare e semplicemente si ritirano dal campo. Don Roberto no, non si è ritirato.
Mahmoudi aveva già manifestato evidenti segni di squilibrio: in dormitorio, tempo fa, aveva procurato un guaio ad un nostro operatore. Si temeva che potesse ripetersi, anche se non sino a questo punto. Eravamo allertati. Chi ha a che fare con i più poveri conosce bene le situazioni di esasperazione. Don Roberto le conosceva bene. Non era affatto uno sprovveduto. Ma i rischi, per lui, venivano sicuramente dopo la sua ferma, pacata e affatto appariscente determinazione di uomo, un uomo di fede.
Mahmoudi aveva dunque in corso un procedimento di espulsione dal territorio italiano. Nelle sue turbe deve aver ritenuto che persino don Roberto stesse tramando per allontanarlo. Perciò ha comprato quel coltello e lo ha aspettato in strada. Non penso che ci sia stato neppure il tempo di un dialogo, martedì scorso al mattino presto: deve averlo quasi decapitato con quel coltello (ma certamente l’Islam non c’entra nulla).
Che prete era don Roberto?
Don Roberto era un prete sui generis, se così si vuol dire. Ma era un prete realizzato. Non era un prete triste. Anzi era un prete contento di fare quel che faceva. Era il suo modo di essere prete. Viveva in una comunità pastorale. Aveva l’incarico dal vescovo Oscar di occuparsi dei senza dimora della città: lui lo aveva chiesto al vescovo e il vescovo – che lo conosceva bene essendo stato suo rettore in seminario – aveva acconsentito.
Ministero e carità
È vero: al di là della Messa e della preghiera, viveva praticamente in strada, con le persone e per le persone di cui aveva scelto di occuparsi. Ma questo non vuol dire che non si sentisse e non facesse il prete. Tutt’altro. Per lui l’essere prete non poteva esaurirsi nella Messa e nella preghiera: anzi da lì veniva la motivazione del suo servizio. Negli ultimi suoi dodici anni ha fatto questa vita.
Confermo che era un uomo molto schivo: difficile trovare sue foto, suoi scritti e dichiarazioni; aborriva interviste e televisioni. Il suo interesse era concentrato sulle persone, quelle ritenute da gran parte della gente insignificanti o molto peggio. Tra la colazione in strada e la cena, per tutto il giorno, se ne prendeva cura: le accompagnava dal medico o all’ospedale, le andava a trovare in carcere quando ci finivano.
La sua idea di carità era molto semplice. A lui non importava dei documenti: nel prendersi a cuore ed ospitare non chiedeva permessi. Così collaborava con la Caritas: ciò che non poteva fare lui con i volontari, lo facevamo noi da operatori, o viceversa.
Essere prete in questo modo non è sempre ben capito e accettato, anche tra confratelli e fedeli nella stessa Chiesa: si può quindi immaginare come fosse visto da parte delle istituzioni. Lo hanno ripetutamente multato perché non stava a certe regole banali. Tuttavia la sua figura suscitava rispetto. In questi giorni di lutto vediamo quanto ammirato stupore si è manifestato a Como!
Io definisco don Roberto una “pietra di inciampo”: mentre portava in giro i senza tetto per la città rappresentava senz’altro un problema di immagine per la stessa, ma nessuno poteva non notare la sua cordiale umanità. Le stesse istituzioni poi ben riconoscevano la sua capacità di occuparsi di persone di cui nessun ente organizzato è in grado di occuparsi. Perciò vi facevano spesso e volentieri ricorso. Da direttore della Caritas conosco bene queste (apparenti) contraddizioni. Il dialogo e la collaborazione non si interrompono in ogni caso. Don Roberto non ha mai interrotto la collaborazione con nessuno.
La città e i poveri
Qual era il clima sociale nella città di Como?
Il clima era inquinato da tempo, almeno dall’estate del 2016, col manifestarsi di grandi numeri di persone migranti – tante minorenni – determinate a passare il confine con la Svizzera. Oltre gli stessi partiti politici, la comunità cittadina si è spaccata in due parti: c’è la parte che sostiene il “via tutti” e c’è la parte che sostiene l’accoglienza; nessuna parte è immune da contrapposizioni “a priori”.
Perciò non è stato compiuto l’unico passaggio di umanità e di buon senso possibile: quello di cercare di mettere insieme le risorse e le competenze di tutti per affrontare realisticamente i problemi. Abbiamo a Como possibilità di ospitalità, di presa in carico e di cura delle persone, così come abbiamo possibilità di creare nuovo lavoro, ma non è stato fatto, perché non si è voluto fare.
Naturalmente la morte di don Roberto non può essere attribuita a questa o a quella ragione sociale. Dico che ora abbiamo, ancor di più, il dovere morale di adoperarci per ripulire questo clima inquinato.
Quale senso dare a questa morte?
Al rosario in cattedrale c’erano “solo” trecento persone (per il rispetto delle norme), ma c’erano forse migliaia di persone in piazza e per le strade di Como, quelle strade che don Roberto frequentava ogni giorno. Le due parti della città si sono trovate riunite attorno a una salma. Questo è certamente un segno, molto doloroso e molto bello allo stesso tempo.
Non si è interrotto, però, neppure il flusso di odio che circola soprattutto attraverso i social. Esaurita l’emotività resterà ancora un passaggio molto importante da fare. Io lo spero. Sarebbe il modo migliore di santificare davvero la sua vita e la sua morte.
Se è importante riconoscere i segni del tempi e le suggestioni dello Spirito incarnate nella storia, sarebbe auspicabile che la Chiesa iniziasse a pensare di fare santo, iniziando quanto prima l’iter previsto, don Roberto.
Penso sia molto importante in questo momento sottolineare che la santità interroga tutti, e che la storia di tutti è costellate da porte accanto alla propria.