La Caritas tedesca ha fatto saltare il banco della proposta di un contratto unico nazionale per il settore dell’assistenza degli anziani – a domicilio o residenziale.
Questo anche in virtù della possibilità di far valere, in questo come in altri settori in cui la Chiesa o una sua istituzione sono datori di lavoro, il diritto proprio (ossia ecclesiale) che è emanazione del riconoscimento particolare da parte della Costituzione tedesca delle religioni e comunità religiose nella vita del paese. Diritto particolare che è già stato messo in questione da alcune sentenze della Corte di giustizia europea.
Ricordando che la Caritas è il secondo datore di lavoro dopo lo stato in Germania, il rifiuto di acconsentire a un contratto unico nazionale per preservare il diritto proprio si collega anche alla missione della Chiesa e dei suoi enti e, quindi, a un accordo esplicito fra le forme di vita dei suoi dipendenti con i contenuti propri di tale missione.
La verifica di questa corrispondenza avviene, per la maggior parte, per riferimento alla vita sessuale dei dipendenti: omosessuali, divorziati risposati, conviventi registrati o meno. In questi casi, il diritto del lavoro proprio della Chiesa prevede il licenziamento giustificato.
Nel dibattito che è sorto in questi giorni, la critica mossa alla Caritas verte prevalentemente su tre temi: il primo è quello di aver impedito, da una posizione di forza, una tutela per lavoratori e utenti del settore di cura e assistenza degli anziani legati a enti più fragili o “corsari” nelle loro politiche contrattuali/assistenziali; il secondo, quello di una concentrazione quasi esclusiva dell’adempimento dei termini contrattuali di impiego al solo ambito “sessuale” della vita dei dipendenti (insomma, quello che avviene “nella camera da letto” – annota un commentatore – sarebbe più importante e decisivo della testimonianza quotidiana della fede); il terzo è quello di favorire uno sbilanciamento a favore del settore privato per ciò che concerne l’assistenza medica e infermieristica degli anziani.
Il rischio che corre la Chiesa, con i suoi vari enti o ambiti che la vedono impegnata, direttamente o indirettamente, come datore di lavoro è quello di perdere professionalità significative e importanti per la qualità dei servizi sociali e culturali che offre. Quello che corre la Caritas tedesca è di far prevalere la sua anima imprenditoriale che guarda al mercato e alle sue logiche su quella che si fa rappresentante di una sensibilità sociale particolarmente attenta alle fasce più vulnerbaili e marginali della società.
Siamo in tempi in cui la custodia di professionalità e competenze di livello non è irrilevante per la qualità testimoniale della presenza civile del cattolicesimo, non solo in Germania. Ora più che mai, quando si tratta di far fronte a un’emergenza sociale senza precedenti quale conseguenza della pandemia.
Nei miei anni di insegnamento a Flensburg ci è capitato più volte di trovarci di fronte a studenti o studentesse che abbandonavano gli studi di teologia, o passavano a quelli di teologia evangelica, a motivo dell’insicurezza lavorativa davanti alla quale si trovavano in ragione delle norme che avrebbero caratterizzato il loro futuro professionale (in particolare nel caso di fallimento del matrimonio).
Abbiamo perso ottimi insegnanti, che avrebbero lasciato un segno significativo nell’itinerario formativo e umano delle generazioni più giovani. Li abbiamo persi non solo professionalmente ma anche ecclesialmente, e la cosa ci dovrebbe far pensare prima di sbandierare ai quattro venti ipotesi pastorali per tornare a entrare in contatto con i giovani.
Se non siamo capaci di custodire quelli che “vengono da noi”, difficile riuscire a intercettare quelli che non sanno nemmeno dove siamo. Perdere professionalità serie e mature, nella scuola come nella società, è un lusso che oggi la Chiesa cattolica non si può più permettere.