Sabato 7 aprile, in occasione della presentazione del Rapporto sulle povertà e risorse curato dalla Caritas diocesana di Rimini, il vescovo Francesco Lambiasi ha inaugurato una nuova struttura chiamata “Casa Laudato si’” che accoglierà ragazzi richiedenti asilo e che ospiterà anche i servizi dedicati agli immigrati e i servizi educativi della Caritas diocesana. Nell’occasione, il vescovo ha richiamato quattro preziose regole. Riportiamo integralmente il suo intervento.
Stamattina, mano a mano che mi avvicinavo alla nuova “Casa Laudato sì”, mi colpiva già da lontano la locandina che annunciava il nostro convegno per il quarantennale della Caritas diocesana, con quel grosso numero 40 e il sottotitolo Quarant’anni con i poveri.
Lo vedete ora alle mie spalle, proiettato sul maxischermo con quel numero 40 che giganteggia sulla parete di fondo e quel sottotitolo che figura a caratteri di scatola. Un linguaggio graficamente efficiente e diretto per un messaggio centrato ed efficace.
Permettetemi di far notare che il numero 40 è formato da fotogrammi che riproducono volti ed eventi di ben 4 decenni. E, nello slogan sotto riportato, se avessi un pennarello rosso, mi piacerebbe evidenziare la preposizione con i poveri. Forse, al suo posto, ci si poteva aspettare la preposizione per i poveri. Certo, questi quarant’anni sono stati vissuti per i poveri: a loro servizio, a favore e a sostegno della loro promozione umana. Ma se non fossero stati 4 decenni passati anche con i poveri, avremmo rischiato di intendere questi fratelli e sorelle al massimo solo come semplici portatori di bisogni, come titolari di diritti e passivi destinatari di aiuti e di molteplici servizi. E non invece come persone che vanno considerate artefici e protagonisti della loro liberazione e compagni di un cammino condiviso. Anzi, persone capaci di aiutare noi a cambiare vita, come recita lo slogan del prossimo campo-lavoro: “Se vuoi cambiare il mondo, cambia la vita”.
Ora mi preme provare con voi a fare un lavoro di retroversione. Immaginiamo che questi 40 anni abbiano dato vita a un grande libro formato da tante pagine, ognuna delle quali è a sua volta formata da tantissime parole. Quali sono le regole grammaticali con cui quelle parole e quelle pagine sono state scritte? Insomma qual è la grammatica della carità, quale emerge da questi 40 anni di vita? Tento di declinarla in rapida sequenza.
Prima regola
I poveri al centro. I poveri, non basta essere pronti ad aiutarli. Occorre essere disposti, noi, a cambiare vita, a intrecciare relazioni nuove con loro. Per Gesù i poveri non erano masse anonime. Problemi da risolvere. “Funzioni” da utilizzare. Ma volti da guardare. Persone da incontrare. Fratelli da abbracciare. Nella scelta di Gesù di vivere povero e con i poveri c’è una costante: mai soltanto l’aiuto, ma sempre l’accoglienza. Non basta sapere chi è il povero e perché lo sia, né basta vederlo, né basta aiutarlo. Occorre che diventi davanti a me quello che è: una persona, con un volto preciso. Come un fratello.
Seconda regola
Il soggetto della carità è la comunità cristiana. La Caritas è lo strumento pastorale diocesano di educazione comunitaria alla carità. Pertanto la Caritas non è l’organo erogatore di aiuti, distributore di fondi, promotore di collette da dividere con/tra i poveri. È invece l’organo che aiuta l’organismo a realizzare una sua funzione vitale: la pratica dell’amore. È l’occhio che fa vedere i problemi antichi e nuovi. È l’orecchio che fa ascoltare il pianto di chi soffre e amplifica la voce di Dio che provoca al soccorso. Perciò occorre dire un no netto e deciso all’assistenzialismo. La Caritas non è una struttura impegnata a prestare servizi ai poveri. A questo punto va salutata con intima soddisfazione la Consulta della Carità, di prossima costituzione.
Terza regola
Riguarda il rapporto tra evangelizzazione e carità. La carità è la via privilegiata – la corsia preferenziale – dell’evangelizzazione. A tutti, specialmente ai poveri, la Chiesa deve la carità del Vangelo, ricordando che questa passa attraverso il vangelo della carità. Non è un gioco di parole. La carità non si identifica con l’attività caritativa. Non si tratta semplicemente di “fare” la carità, ma di viverla. In modo gratuito e trasparente. I gesti della carità fanno certamente parte dell’attività dei missionari cristiani: “cacciate i demoni, guarite i malati”. È parola del Signore. Ma quei gesti non sono – almeno direttamente – finalizzati alla missione. Non ci si volge al povero per convertirlo e aggregarlo. Questo sarebbe proselitismo, non missione. Senza mai dimenticare che «è necessario che tutti ci lasciamo evangelizzare dai poveri». È parola di Francesco. Ma su questo punto dovremo tornare.
Quarta regola
Riguarda il rapporto tra carità e giustizia. La giustizia senza la carità è monca. La carità senza la giustizia è falsa. La carità contiene in se stessa l’esigenza della giustizia, la sostiene e la vivifica, impregnandola di gratuità. Questa “regola” implica conseguenze dirompenti. La prima è che l’opzione preferenziale per i poveri non è qualcosa di opzionale o di puramente accessorio al cuore del Vangelo. Tenendo sempre ben presente un criterio imprescindibile: «fare parti tra uguali è somma giustizia; fare parti tra disuguali è somma ingiustizia» (don Milani). La seconda conseguenza riguarda l’impegno sociale e politico dei cristiani, ed è stata scolpita dal Vaticano II: «Il cristiano che trascura i suoi impegni temporali, trascura i suoi doveri verso il prossimo, anzi verso Dio stesso, e mette in serio pericolo la propria salvezza eterna».
Rimini, 7 aprile 2017