Giordano Cavallari ha intervistato Danilo Feliciangeli, incaricato del coordinamento dei progetti di aiuto in Medio Oriente di Caritas Italiana, a proposito della situazione nelle aree più critiche della regione (Siria, Libano, Palestina) vista con gli occhi di chi porta soccorso.
Siria
- Caro Danilo, partiamo dalla Siria. Con chi sei in relazione, in questi giorni, dalla Siria?
I nostri due operatori attualmente in Siria, dall’inizio di quest’anno, sono George, siriano, che ora si trova a Damasco, e Davide, italiano, che si trova ad Aleppo. Entrambe gli operatori facevano base ad Homs, ma Davide si trovava già ad Aleppo prima che iniziasse l’avanzata dei gruppi armati che hanno determinato la caduta del regime di Assad e c’è quindi rimasto, mentre George si è mosso verso Damasco poco prima che vi giungessero gli stessi gruppi. In questi giorni dovevano essere qui entrambi con noi, a Roma, per un convegno, ma non hanno potuto partire. Ma stanno bene e sono sereni.
- Gli operatori Caritas hanno motivo di temere?
Stanno vivendo, con la popolazione, questa fase di incertezza e di speranza. I primi segnali colti dalle formazioni al potere sono rassicuranti. Nella Siria liberata da Assad non c’è violenza in questo momento. L’esercito ha abbandonato le armi e le caserme. Le minoranze sono rispettate. Le chiese sono aperte. I vescovi, sia ad Aleppo che a Damasco, sono stati incontrati dal leader al-Jolani o da chi per lui, mentre veniva allestito il nuovo governo. Certamente, non manca preoccupazione per il futuro in Siria, ma è ora mista alla speranza.
- Quindi, i progetti Caritas per gli aiuti alla popolazione proseguono regolarmente?
In Siria, come in ogni Paese del Medioriente, Caritas Italiana opera a sostegno e in stretta collaborazione con Caritas Siria. I nostri due operatori, appunto, seguono i progetti finanziati da Caritas Italiana e realizzati da Caritas Siria e dalle Chiese locali.
Siamo impegnati nelle tre macroaree classiche: assistenza sanitaria con centri di assistenza ad Aleppo e Damasco, assistenza sociale-umanitaria con generi di prima necessità e erogazioni di carte di acquisto autonomo da parte delle famiglie in tanta parte del territorio siriano, ripristino e attivazione di piccole attività economico-produttive stremate da più di dieci anni di guerra e ristrutturazioni di abitazioni danneggiate sia dalla guerra che dal terremoto del 2023 nella zona tra Siria e Turchia.
L’altro filone classico – evangelico – dell’impegno Caritas è quello per il dialogo tra le parti, la riconciliazione e la pace: specie in un contesto come quello siriano, di guerra civile. Dopo una sospensione, breve, delle nostre attività – per alcuni giorni è entrato in vigore il coprifuoco dalle 17 alle 8 del mattino – tutto sta riprendendo regolarmente.
- Le attività di aiuto con quale personale vengono realizzate?
Nei nostri servizi – quali i centri di distribuzione – lavorano siriani assunti da Caritas Siria. Molti di loro sono giovani di varia provenienza sociale. Consideriamo che questi giovani hanno vissuto gli ultimi tredici-quattordici anni in un clima di guerra e in condizioni di ristrettezze economiche e di ridotte opportunità formative. Nonostante questo, si tratta di un bel gruppo – 490 operatori in tutto – sufficientemente preparato e, soprattutto, molto motivato. In gran parte sono cristiani, ma non esclusivamente, perché ci sono diversi ragazzi musulmani tra loro.
- Il personale Caritas come era o è inquadrato dallo Stato?
La Caritas col suo «network» è ufficialmente riconosciuta come organizzazione della Chiesa cattolica. Non ho motivo di ritenere oggi che tale riconoscimento possa essere messo in discussione dal nuovo governo.
- Quale era la possibilità di operare col regime di Assad per Caritas?
Posso dire abbastanza buona. La politica di Assad aveva imposto la protezione delle minoranze, tra cui quella cristiana. Caritas, anche negli anni più crudi della guerra, è riuscita ad operare in Siria. È stata la prima organizzazione ad entrare nella Ghouta orientale, massacrata, e una delle prime a giungere ad Aleppo Est dopo i bombardamenti dei russi. Certo: si doveva sempre informare il governo di Assad. In alcuni casi abbiamo ricevuto pressioni nella selezione dei beneficiari degli aiuti, specie nei progetti di ricostruzione e di ripresa produttiva.
- E i cristiani in genere, ora, come si sentono?
Un po’ di timore tra loro penso ci sia. Anche perché la caduta del regime di Assad è avvenuta in maniera inaspettata e velocissima: nel giro di dieci giorni è cambiato tutto in Siria. Tutte le istituzioni si sono dissolte, da un giorno all’altro.
Ora ci sono giovani uomini armati in giro, dappertutto. Molti sono siriani, altri provengono da Paesi del mondo islamico. Da domenica 8, a Damasco, è presente il Free Syrian Army che ha preso il controllo dei punti istituzionali. Ma la situazione è ancora tutta in divenire.
Per quanto mi è dato modo di vedere e di sapere, i timori, che ci sono, riguardano tutta la popolazione allo stesso modo, ma non c’è nulla che minacci i cristiani in particolare.
C’è una quantità enorme di armi in Siria e tante persone avvezze ad usarle da tanto tempo. C’erano circa 60.000 miliziani dello «Stato Islamico», il Daesh, ora è dissolto, ma uomini e armi no.
I timori sono anche altri. Hanno a che fare con le decisioni delle potenze regionali e internazionali: cosa si deciderà in Iran? Oppure, cosa deciderà Israele, che ha già preso il controllo del monte Hermon sulle alture del Golan?
La formazione Hay’at Tahrir al-Sham – capeggiata da al-Jolani – farà un accordo con i curdi che controllano quasi un terzo della vecchia Siria? La Turchia come si muoverà? Cosa faranno i russi che hanno le basi militari sul Mediterraneo? Ci saranno ancora combattimenti? Sono queste le domande che più spaventano.
Non ti nascondo che ci sono stati colleghi di Caritas Siria che ci hanno chiesto un aiuto per lasciare il loro Paese, perché la situazione non lascia tranquilli. Anche se ora c’è una speranza che prima non c’era.
- I vescovi cattolici cosa stanno dicendo ai fedeli?
Stanno incoraggiando alla calma, a non diffondere allarmismi e a partecipare regolarmente alle liturgie. I vescovi avrebbero ottenuto rassicurazioni che le chiese con i beni della chiesa non saranno toccate.
- Cosa sappiamo dei «ribelli»? Chi sono?
Ci sono tante realtà sovrapposte. C’è un movimento originato nel 2012 in opposizione al regime: un bel movimento civile che non ha nulla a che fare col terrorismo. Molti militanti – quelli che non sono morti – sono stati cacciati dal regime sino ad Idlib, al confine con la Turchia.
Là hanno costituito pure organizzazioni umanitarie, per sfollati e profughi, con le quali siamo in contatto e collaboriamo specie dal terremoto del 2023. Ora queste organizzazioni sono orientate a ritornare al «centro» della Siria, con questo nuovo corso. Una parte dei militanti era passata alle armi, contro il regime, nel Free Syrian Army. Ora, vedendo l’indebolimento dei loro avversari e anche dei fiancheggiatori di Assad – Hezbollah, Iran e Russia – sono entrati in azione.
Ma è evidente che senza il concorso di altre formazioni, preparate e sostenute dall’estero, il Free Syrian Army non avrebbe potuto farcela. I nostri operatori dicono che le auto giunte a Damasco hanno la targa di Idlib. Non sappiamo altro.
Secondo gli analisti, sono diverse le formazioni sopraggiunte e non è ben chiaro quanto siano unite, non tanto sul piano militare, bensì politico. Solo il tempo potrà dirlo.
- Chi sta rientrando dai Paesi limitrofi?
Tanti siriani stanno rientrando dal Libano, dalla Giordania, oltre che dalla Turchia. Questi non erano necessariamente fuggiti in quanto oppositori del regime di Assad, ma di Assad avevano comunque paura. Anche per loro si è aperta una nuova fase che è di rinascita in quel clima di «primavera» che, all’inizio della guerra, è stato stroncato dal regime, che ha promosso e utilizzato la propaganda contro il terrorismo contro ogni movimento civile di opposizione.
- Il rientro di colpo di decine di migliaia – o più – di profughi non aggraverà la situazione umanitaria?
Sicuramente, nell’immediato, i rientrati andranno a carico delle organizzazioni umanitarie, perché il governo non avrà le risorse e l’organizzazione per accoglierli. Ma in una visione complessiva il bilancio potrebbe essere favorevole, nel senso che potremo investire maggiormente in Siria e meno nei Paesi limitrofi, almeno per quanto riguarda l’assistenza ai profughi. Certamente non sarà facile, specie dall’oggi al domani.
- Dal punto di vista umanitario quali sono le incognite immediate?
Per quanto ci riguarda, stiamo aspettando la riapertura delle banche: come tutte le ONG ci appoggiamo alle banche siriane e quindi speriamo che i soldi per le attività ci siano ancora, dopo tutto quanto è accaduto. L’importante sarà guadagnare rapidamente le condizioni di sicurezza, la funzionalità dei servizi pubblici di base, togliere di mezzo le sanzioni di cui la popolazione soffre da troppo tempo. Naturalmente speriamo che queste condizioni si possano dare al più presto, per poter operare nel migliore dei modi.
Libano
- Parliamo un po’ del Libano: com’è la situazione in Libano e Caritas come vi sta intervenendo?
I progetti Caritas in Libano sono grandi perché grave è la situazione umanitaria. Possiamo contare su una Caritas libanese molto ben organizzata e dalla forte operatività. Tieni conto che ha dato assistenza, ad oggi, ad un milione di persone in stato di necessità: con generi di prima necessità, con assistenza sanitaria, alloggi, accoglienza residenziale per sfollati e per chi non ha casa.
Nell’attuale fase di tregua dei combattimenti, molti sfollati stanno cercando di tornare alle loro abitazioni, quantomeno per verificare se ci sono ancora e in quali condizioni si trovano. La maggior parte delle famiglie sfollate è stata ospitata da altre famiglie di parenti e amici, con un bel esempio di accoglienza. Ma ci sono famiglie e persone fragili che non hanno queste opportunità: abbiamo quattro centri di accoglienza Caritas in Libano, per anziani, donne sole e persone vulnerabili.
L’assistenza sanitaria comprende quella psicologica per chi si è trovato al centro dei traumi della guerra, specie, naturalmente, bambini. Per loro, in particolare, Caritas sta organizzando attività di gruppo e attività di supporto scolastico. Ci sono poi tutti i bisogni precedenti agli ultimi eventi bellici, che già non erano cosa di poco conto in un Paese con una economia al collasso, come il Libano.
Per grazia, c’è un movimento molto bello in Libano con la Caritas: più di duemila giovani volontari, preparati e motivati, hanno operato e operano, anche in situazioni di rischio.
- I cristiani libanesi come si stanno muovendo nella crisi?
Dal punto di vista umanitario, sono attivissimi. Anche loro hanno aperto, senza indugio, le loro porte e i loro edifici comunitari agli sfollati e alle persone in maggiore difficoltà. In ambito politico ci sono diverse posizioni anche tra i cristiani. Ma tutti stanno invocando la permanenza della tregua e la fine della aggressione israeliana.
Palestina
- Infine, la Palestina: qual è la situazione dei palestinesi?
La situazione delle persone di cui ti ho parlato – dei cristiani asserragliati nelle due parrocchie, cattolica e ortodossa di Gaza – è peggiorata: allora erano circa seicento persone, oggi, penso, che siano circa trecento, perché, chi ha potuto, è andato via, verso il Sud della Striscia.
Oltre ai bombardamenti che non sono mai cessati sulle loro teste, devono fare i conti con i rifornimenti sempre più difficili: scarseggia sempre più il cibo, manca l’acqua potabile, anche le medicine cominciano a finire.
Questa è la condizione emblematica di tutta la popolazione in Gaza City e nella Striscia: più il tempo passa in questo modo e più la situazione si aggrava, la frustrazione aumenta, con la disperazione. La gente non sa cosa aspettare dal futuro. Per di più, sta scemando l’attenzione della opinione pubblica mondiale. I palestinesi si sentono dimenticati da tutti.
Mi sembra che il disegno sia quello di indurre questa gente – con i bombardamenti e con la tecnica dell’assedio che affama – ad andare via, ad allontanarsi e «per sempre», il più possibile, verso Sud, verso il mare, lontana da Israele.
- Come può intervenire Caritas in una tale situazione?
Come sai, abbiamo cercato di aiutare offrendo le carte ricaricabili per fare acquisti diretti famiglie al «mercato nero», l’unico che stava funzionando in qualche modo. I prezzi erano altissimi. Ora è persino peggio, perché arriva sempre meno merce. Tuttavia, i nostri operatori – dipendenti di Caritas Gerusalemme – sono ancora là a svolgere il loro lavoro di assistenza umanitaria, di assistenza psicologica e medica, benché, ormai, ad esempio, stiano scarseggiando pure i presidi sanitari più elementari, quale il filo per la sutura delle ferite.
- Ci ricordi da chi è costituito il personale Caritas nella Striscia di Gaza?
È formato da un centinaio di operatori, palestinesi gazawi, per la maggior parte del Centro-Sud della Striscia e per la maggior parte cristiani, ma non solo. Gli ultimi assunti non sono cristiani, anche perché di cristiani non ce ne sono quasi più. Erano là da prima del 7 ottobre 2023 e là sono rimasti senza mai mollare, nonostante tutti i rischi e i pericoli che corrono come tutti e, forse, più di tutti.
- Come agisce l’esercito israeliano sui convogli e i centri umanitari superstiti?
L’esercito controlla tutto e non lascia passare ciò che non vuole. Ripete gli attacchi sui convogli, sulle strutture, sui mezzi di soccorso. L’obiettivo dell’esercito penso sia ormai evidente: creare una larga zona di separazione tra i popoli, restringendo ulteriormente la Striscia, al fine di prevenire attacchi simili a quelli del 7 ottobre.
- A cosa serve la Caritas, oltre a portare un po’ di aiuto, in questi disastri?
Serve a ricordare il nostro impegno, di Chiesa, di cristiani, per la riconciliazione, per la gestione non-violenta dei conflitti, per la pace. Il nostro nuovo progetto in tutti i Paesi del Medioriente – ma anche della sponda africana ed europea – va decisamente in questa direzione. Coinvolgerà operatori Caritas e non-Caritas di 18 Paesi. Ogni operatore sarà preparato a farsi promotore di pace nel proprio ambiente, per moltiplicare l’effetto. Sappiamo bene che proporre queste cose ci fa passare per gente «fuori dal mondo» reale. Ma se per noi Cristo col suo Vangelo è il valore, cos’altro dovremmo fare?
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