Rubare per fame non è reato. Questo afferma la sentenza 18.248 della Cassazione, scagionando una persona senza fissa dimora che, nel 2011 a Genova, aveva rubato un po’ di formaggio e wurstel per un valore totale di 4,07 euro. In primo grado e in appello il “delinquente” era stato condannato a sei mesi di reclusione e a 100 euro di multa.
Prescindendo dalle considerazioni su una giustizia che dispone uno sproporzionato impiego di tempo e di uomini (e relativi costi) per cause di irrisoria rilevanza, l’episodio va collegato ai dati numerici e qualitativi che attestano la crescita di piccoli furti legati alla sopravvivenza alimentare.
Non è che l’altra faccia del progressivo aumento del numero di persone che si rivolgono per il “pane quotidiano” – o poco più – alle parrocchie, alle mense della Caritas, ai pacchi alimentari della San Vincenzo de’ Paoli e ad analoghe forme della solidarietà laica e (soprattutto) cattolica.
Le collette alimentari
Le collette alimentari che vengono effettuate periodicamente presso i supermercati registrano sia il generoso concorso di tutti coloro che acquistano viveri in più rispetto alla spesa prevista per donarli agli organizzatori, sia la partecipazione di molti volontari, con significative presenze di adolescenti e di giovani per i quali questo impegno diventa occasione preziosa per conoscere i problemi della gente e educarsi alla solidarietà attraverso gesti concreti.
Le collette alimentari fanno capo a organizzazioni ben strutturate come il Banco alimentare, che provvedono anche allo stoccaggio e alla distribuzione di eccedenze alimentari altrimenti destinate al macero. È il caso del recente accordo con i Coltivatori diretti per evitare lo spreco di notevoli quantitativi di latte.
E comunque va denunciato e contrastato lo spreco del cibo, a livello familiare come pure nei ristoranti e nelle mense. È una questione di razionalizzazione, di buona condotta in cucina e anche (perché no?) di sobrietà. Sono strade convergenti nella direzione di una società in cui ci sia almeno il cibo necessario e sufficiente per ogni essere umano, compresa la prevenzione di furti come quello andato assolto.
E però la faccenda del cibo che ad alcuni manca, mentre altri si ingozzano e sprecano, è anche o soprattutto una questione di etica sociale. Nella Summa theologiae (1250) san Tommaso d’Aquino dichiarava che «in situazioni di estrema necessità tutti i beni sono comuni e quindi da condividere».
Molto prima dei movimenti per l’occupazione delle terre o gli espropri proletari, il sommo teologo faceva un’affermazione rivoluzionaria, di cui la sentenza della Cassazione potrebbe essere un’applicazione agli odierni contesti; ad essa si richiama il concilio Vaticano II, quando sostiene che la destinazione dei beni della terra è per tutti gli abitanti della terra e dichiara che un’equa ripartizione va fatta per motivi di giustizia prima che per carità (Gaudium et spes n. 69).
Giustizia distributiva
Non la giustizia della aule dei tribunali, ma la giustizia sociale e quindi distributiva. Che vuol dire passare dalla beneficenza (termine ottocentesco che ritorna in auge da parte di chi si imbatte nelle povertà e cerca di metterci una pezza) alla politica, se ancora esiste una politica che non vada a rimorchio degli interessi economici e finanziari e si ponga come servizio al bene comune. Di qui un’architettura del vivere sociale in cui ci sia posto per tutti: a partire dal pane quotidiano, da un tetto sopra la testa, dalle cure mediche di base, dall’istruzione assicurata a tutti i bambini. Cose che, non in Africa ma qui da noi, stanno diventando, per una parte delle persone, non diritti ma opportunità di cui si potrà godere grazie al buon cuore di qualcuno, in un contesto socioeconomico che accentua le disuguaglianze e fa scivolare verso la povertà le classi medio-basse.
Questo toccherebbe fare prima di tutto ai partiti, nel proporre ai cittadini i loro programmi. Su questo non possono tirarsi fuori il volontariato e le tante forme di solidarietà, se non vogliono ridursi a raccogliere morti e feriti travolti dalla macchina di un’economia perversa. E su questo si deve interrogare a fondo anche la Chiesa, se non vuole accontentasi di dislocare buoni samaritani sul territorio, ma diventare davvero casa accogliente e ospitale e poi (se fedeli a un’opzione preferenziale dei poveri che sia tale da modificare il nostro assetto interno) uscire nella società come coscienza critica. Le parole e i gesti di papa Francesco non ci lasciano molte alternative.