Una meditazione durante la settimana santa non può che far riflettere sulla passione del Signore, la storia cioè di Uno che ha voluto morire per noi uomini e per la nostra salvezza, per amore nostro. Nessuno glielo chiedeva, neppure Dio Padre. Lui l’ha voluto con sua autonoma e libera decisione (Gv 10,18) per essere coerente con la sua parola su Dio e sull’uomo, sulla religione della misericordia che scardinava la religione degli ebrei e lo condannava a morte e per mostrarci fin dove va il suo amore: «fino alla fine» (Gv 13,1 e 15, 13: «Non c’è amore più grande… dar la vita»).
Durante questi giorni che ci conducono alla celebrazione del triduo pasquale è bene che noi leggiamo e rileggiamo la passione secondo uno o l’altro degli evangelisti: ognuno ha la sua versione della stessa vicenda, ma tutte concordano in questa affermazione: Gesù è morto perché l’ha voluto ed è morto per amore!
In agonia fino alla fine del mondo
Ma è altrettanto necessario che facciamo un passo di attualizzazione. Dice il Concilio che «con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo a ogni uomo» (Gaudium et spes 22), e ancora oggi egli soffre nell’umanità. La passione di Gesù è la passione dell’uomo e viceversa. Tutti ricordiamo la celebre frase di Pascal a proposito del Getsemani: «Cristo sarà in agonia fino alla fine del mondo. Non possiamo dormire in tutto questo tempo» (Pensées, Le mystère de Jésus 553). È in agonia dovunque c’è un essere umano che lotta con la tristezza, la paura, l’angoscia, in una situazione senza via d’uscita, come lui quella notte. Non abbiamo fatto nulla per il Gesù agonizzante di allora, cosa possiamo fare per il Gesù che agonizza oggi? Sentiamo ogni giorno parlare di tragedie che si consumano, a volte vicino, altre volte lontano da noi, ma su questo piccolo pianeta che è il nostro, magari nel nostro stesso condominio, nel quartiere, magari… senza che nessuno si accorga di niente.
Gesù Cristo ci ha preceduto in tutto e non c’è veramente nulla di indegno dell’uomo che egli non abbia sofferto: l’arresto arbitrario, la fuga degli amici più stretti, il tradimento – con un bacio – di un membro del suo gruppo, il rinnegamento per viltà, gli interrogatori disumani e la crudeltà sadica delle torture, calunnie, oltraggi, lo scherno inflitto all’indifeso, il cinismo della violenza esercitata sul più debole, il mercanteggiamento politico tra ebrei e romani alle spalle di un innocente, la diffamazione come malfattore e criminale, la derisione, la condanna a morte, il crollo sotto la croce, le bestemmie, la curiosità morbosa ed eccitata che fa da contorno alla morte di un uomo, il grido di chi si sente abbandonato da Dio… In questo senso è terribilmente vero che Gesù è anche oggi «l’agnello che prende su di sé il peccato del mondo» (Gv 1,29).
Una umanità sofferente
Non sorvoliamo forse troppo spesso sul fatto che la croce rappresenta il complesso multiforme della storia e delle sofferenze dell’umanità? Chi non riconosce in Gesù e nel suo destino l’uomo d’oggi, battuto e maltrattato, braccato a morte e disperato? La condanna di innocenti, l’impotenza interiore, la solitudine senza limiti, il ripudio da parte della comunità degli esseri umani, gli eterni lineamenti di profugo dell’umanità, il meschino abbandono da parte dei “fedelissimi”, lo scherno della corona di spine. «Ecce homo!». Anche oggi, come Pilato allora, non dobbiamo forse dire: «Ecco, che specie d’uomo! Guardate che cos’è l’uomo!».
Quanti Getsemani ci sono ancora nel cuore delle nostre città! Quante condanne, quanti «Crucifige!» sono pronunciati anche oggi con la nostra complicità o la nostra indifferenza! Come possiamo abbandonare al loro destino i venti milioni di uomini, donne e bambini che sono già alla morte per la carestia in Africa? I migranti che vivono nell’incertezza e nel rischio di essere risucchiati dalla criminalità? I siriani condannati al bombardamento di una guerra infinita? I molti giovani arrestati senza motivo nella notte, torturati per giorni nei sotterranei della polizia e poi uccisi e abbandonati sulla strada… chi se ne dà pensiero? (cf. Is 53,8). Quanto è vero quello che dice Pascal!
Il dolore del mondo
È vero che non dobbiamo crearci complessi di colpa che non servirebbero a nulla se non conducessero a qualche azione concreta, ma non possiamo neppure celebrare la passione e morte di Gesù senza ricordare che anche oggi tutto questo continua tra di noi. La Chiesa, sacramento universale di salvezza (e noi che Chiesa siamo!) che dovrebbe essere in sintonia con il suo Signore, deve sentire in sé la sofferenza del Signore e mettere in atto tutto il suo amore, la simpatia e l’empatia per lasciarsi com-muovere. Certo, non possiamo risolvere tutte le situazioni d’ingiustizia, ma almeno sentirne la durezza e la crudeltà, renderci conto della sofferenza altrui, accostarci all’altrui passione domandandoci dove stiamo e come possiamo intervenire noi.
Il card. Karl Lehmann[1] ha una riflessione sulla passione, alla fine della quale dice: «Il racconto della croce di Gesù Cristo dice molto più che le nostre più profonde riflessioni, purché noi l’ascoltiamo. In qualche tratto – è assolutamente inevitabile – riconosceremo noi stessi: nelle guardie, nei sommi sacerdoti, tra la massa vociante, nel pusillanime Pietro, nei discepoli sonnolenti e fuggitivi, nell’“incerto” Pilato, nella “volpe” Erode, nei soldati intenti a giocarsi a sorte la tunica di Gesù – e speriamo di trasformarci in quei pochi che (almeno un po’ alla volta) hanno saputo comprendere il senso di questa sofferenza: le donne sulla via, la Madre del Signore, il centurione pagano, il ladrone vicino a Gesù, Veronica con il sudario, il discepolo prediletto e, soprattutto, Simone di Cirene che aiuta Gesù a portare la croce».
Proviamo a identificarci in uno di questi personaggi e magari cerchiamo il nostro posto per esprimere la nostra vicinanza a lui oggi. Solo così la lettura della passione sarà vera: ci farà partecipi oggi, 2017, della Pasqua del Signore che è morto e risorto per noi.
In questa partecipazione al dolore del mondo, ci sostiene la parola dell’angelo della Pasqua: «È risorto dai morti, vi precede in Galilea, là lo vedrete» (Mt 28,7): Gesù ci invita a incontrarlo di nuovo in Galilea, come all’inizio, per rifare con lui il cammino del vangelo, accolto e annunziato a tutti: «Il Signore è veramente risorto» e noi lo sappiamo, perché «è apparso a Simone» (Lc 24,35). Solo così celebreremo veramente la Pasqua e collaboreremo alla trasformazione del nostro mondo in quei «nuovi cieli e nuova terra nei quali abita la giustizia» (2Pt 3,13), in quel regno di Dio per il quale Cristo ha dato la sua vita.
[1] Karl Lehmann, passione, morte e risurrezione, comprendere e celebrare, Queriniana, Brescia 2016, pp. 21-22.