La prima preghiera di papa Francesco, il 13 marzo 2013, alla loggia della Basilica di San Pietro in cui chiedeva la benedizione del popolo è stata «Preghiamo sempre per noi, l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza».
E le questioni legate alla fraternità e all’amicizia sociale sono sempre state le preoccupazioni fin dall’inizio del pontificato di Bergoglio: «Nell’intento di cercare una luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo, e prima di impostare alcune linee di azione, intendo dedicare un capitolo a una parabola narrata da Gesù duemila anni fa. Infatti, benché questa lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare».
Quindi, prima di indicare alcune linee d’azione, Francesco introduce il secondo capitolo (n. 56) dell’enciclica Fratelli tutti, offrendoci l’icona biblica per la riflessione che è la parabola del Samaritano.
L’ascolto della Parola di Dio è un passaggio fondamentale per giudicare evangelicamente il dramma del nostro tempo e trovare vie d’uscita. Felice coincidenza con il documento del Consiglio Ecumenico delle Chiese (WCC) e del Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso (PCID), che richiama proprio questa parabola evangelica e invita i seguaci di Gesù Cristo ad amare e a servire il prossimo.
Nello stendere l’enciclica il papa si è sentito stimolato in modo speciale dal grande imam Ahmad Al-Tayyeb, con il quale si era incontrato ad Abu Dhabi, per ricordare che Dio «ha creato tutti gli esseri umani uguali nei diritti, nei doveri e nella dignità, e li ha chiamati a convivere come fratelli tra di loro». Non si è trattato di un mero atto diplomatico, bensì di una riflessione compiuta nel dialogo e di un impegno congiunto.
Dialogo e impegno
Dialogo e impegno sono le espressioni che ricorrono più frequentemente nel testo (“dialogo” 42 volte a fronte delle 44 volte di “fratellanza”). È la richiesta che Francesco rivolge al Creatore, nella preghiera che conclude l’enciclica, perché possa ispirare il sogno di un nuovo incontro, di dialogo, di giustizia e di pace.
Cosa significa, allora, per i cristiani amare e servire i propri simili in un mondo in cui la pandemia Covid-19 ha causato sofferenze diffuse?
«La conclusione di Gesù – scrive Francesco – è una richiesta: “Va’ e anche tu fa’ così” (Lc 10,37). Vale a dire, ci interpella perché mettiamo da parte ogni differenza e, davanti alla sofferenza, ci facciamo vicini a chiunque. Dunque, non dico più che ho dei “prossimi” da aiutare, ma che mi sento chiamato a diventare io un prossimo degli altri» (n. 81).
In un momento come questo, il “va’ e anche tu fai così” (Lc 10,25-37) significa amare e servire i nostri simili oggi al tempo della pandemia. Quel “va’ e anche tu fai così” dice che c’è un legame strettissimo tra diaconia ecumenica e solidarietà (ricorre 22 volte).
Il riconoscimento della fratellanza cambia la prospettiva, la capovolge e diventa un forte messaggio solidale. «Se non riusciamo a recuperare la passione condivisa per una comunità di appartenenza e di solidarietà, alla quale destinare tempo, impegno e beni, l’illusione globale che ci inganna crollerà rovinosamente e lascerà molti in preda alla nausea e al vuoto» (n. 36).
Alla luce della morte/risurrezione di Cristo
Gesù racconta questa storia nel contesto del comando di amare il prossimo. Il segreto sapienziale e la potenza innovatrice è la vera molla di propulsione di un’ipotesi radicalmente nuova della storia, ipotesi che ogni cuore e ogni mano ha il compito di portare in tutte le pieghe della vicenda umana, nelle piccole vicende di ogni famiglia, o popoli.
Se c’è una sventura, come nelle grandi vicende è proprio quella della separazione, ma questa separazione sciagurata è precisamente quella che insegna la distanza tra questa storia nuova, significata, espressa, e la nostra povera storia, piena di tutti quei segni di vecchiezza e di peccato che ancora indicano la nostra distanza dal mistero del Cristo.
Spesso nel nostro cuore scendono dubbi sulla nostra fraternità, scendono dubbi sulla necessità assoluta di perdonarci, vacilla la nostra idea circa il fatto che è cosa buona consumare insieme un pasto comune, senza ingiustizie, senza privilegi, senza discriminazioni, ma tutti accolti, i piccoli e i grandi, i giovani e i vecchi, i sani e i malati, i santi e i peccatori.
Purtroppo, il nostro cuore vacilla, perché rinascono le nostre diverse dimensioni ecclesiali, impallidisce la realtà della nostra fraternità, il volto paterno di Dio viene sommerso dalle nostre convinzioni e dalle nostre distrazioni. La vera realtà, cioè che Dio è Padre e che noi siamo tutti figlioli, quindi siamo tutti fratelli, è precisamente questa storia nuova che ci è posta davanti.
Poi, purtroppo, nella povertà della nostra vita la dimenticanza è inevitabile. Ma, a questo proposito, si può addirittura dire che ogni nostro peccato personale e collettivo non è altro che dimenticanza di questa storia nuova che il Padre ha creato e che ci ha donato in Gesù per la potenza dello Spirito. Certamente la parabola del Buon Samaritano ci aiuta a riflettere sulla domanda: “Chi siamo chiamati ad amare e curare?” e offre indicazioni sulle complessità implicite nei termini “servizio” e “solidarietà”.
Certo, oggi siamo spinti a superare pregiudizi religiosi e pregiudizi culturali in relazione sia a coloro che serviamo, sia a coloro con i quali serviamo, mentre ci sforziamo di alleviare la sofferenza e di ripristinare la guarigione e la completezza in un mondo pluralistico. Ma senza la morte e la resurrezione di Gesù, noi in realtà non sappiamo mai che cosa accade.
Che cosa sta accadendo in questo momento nel mondo? Si possono dare moltissime risposte. Che cosa sta accadendo nelle nostre Chiese? Anche qui molte possono essere le analisi. Tutte potranno avere una certa verità, ma non arriveremo mai a dire che cosa in realtà sta accadendo a noi o a quei popoli finché non riconosceremo nella nostra piccola vicenda personale o nella grande vicenda delle nazioni il mistero del Cristo morto e risorto. «Per molti cristiani, questo cammino di fraternità ha anche una Madre, di nome Maria […]. Con la potenza del Risorto, vuole partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli, dove ci sia posto per ogni scartato delle nostre società, dove risplendano la giustizia e la pace» (n. 278).
Pertanto, tutto al contrario dall’essere evasione dalla storia, è l’interpretazione ultima ed è il disvelamento ultimo della storia. Nostro fratello si ammala di pandemia e si fanno molte analisi sulla sua vita; ma in realtà non potremo mai capire che cosa accade finché non emergerà dalla sua piccola, dolorosa vicenda l’accadimento fondamentale di Cristo, la sua morte e la risurrezione.
E non solo non sapremo che cosa accade, ma non riusciremo mai a rispondere al “che fare?” nella storia, finché non coglieremo il mistero della morte e della risurrezione di Cristo. Dunque, ecco che la frase di Gesù allo scriba sapiente e forse un po’ malizioso, “Adesso va’ e fai anche tu lo stesso”, va presa come quella cerniera potente per dire l’indissolubile e fraterno legame.
Che cos’è la carità
Traendo una prima conclusione pratica per quello che riguarda il cammino ecumenico, dovremo dire che tutto quello che faremo presso i poveri, per i malati, nella predicazione, nelle particolarissime condizioni pastorali delle nostre Chiese, tutto è contenuto e tutto va tratto e tutto va in qualche modo regolato a superare i presupposti negativi che possiamo sostenere e a riconoscere con umiltà e gratitudine che l’“altro” (il Samaritano in questo caso) può mostrarci il vero significato del servizio e della solidarietà.
Altrimenti si rischierà sempre di inventare di testa nostra, magari con pie intenzioni, magari sotto la pressante richiesta di esigenze storiche gravissime, ma rischieremo sempre di fare azioni qualsiasi e non di perpetuare nella storia lo splendore, la novità e la potenza dell’azione di Dio, che è la Pasqua di Gesù.
Questo, mi pare, va tenuto fermo in modo assoluto: perpetuare nella storia la potenza deificante di Dio. Inoltre, nella parabola è presente una domanda evidentemente provocatoria e di estremo interesse per ogni persona; lo era per quello scriba e lo è certamente anche per noi: “Qual è il mio prossimo?”. C’è il rischio di un’interpretazione affrettata della parabola del Samaritano e c’è il rischio di un’interpretazione moralistica e superficiale.
Qual è il rischio? Il rischio è che il prossimo sia immediatamente identificato con colui che io devo aiutare, con quello che aspetta il mio servizio, con il problema davanti al quale eroicamente mi farò su le maniche, spenderò tutto il tempo, darò tutta la mia vita perché c’è bisogno del mio aiuto. Solo che, invece, secondo la parabola è necessario operare un completo rovesciamento.
Facciamo memoria della famosa domanda che Gesù pone allo scriba, dopo avergli raccontato la parabola. “Chi di questi tre ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?” Quello rispose: “Chi ha avuto compassione di lui”.
E dove potremmo essere sorpresi nel vedere in azione la compassione simile a quella di Cristo? Allora chi è il nostro prossimo? Il nostro prossimo è colui che ha avuto compassione di noi. Senza questa conoscenza ed esperienza fondamentale è impossibile obbedire all’ulteriore comando del Signore “va’ e anche tu fa’ lo stesso”. “Se tu non ti lascerai lavare i piedi da me, non avrai parte con me” ci dice Gesù: bisogna essere profondi conoscitori dell’amore di Dio, perché Dio si è fatto misericordiosamente nostro prossimo.
È frettoloso il discorso che trasforma la carità cristiana nelle buone azioni, mentre ci si dimentica che la carità, che è uno dei grandi nomi di Dio, è il cuore stesso di Dio, che non esiste carità in questo mondo ferito se non come dono ricevuto da Dio. Ed è proprio perché Dio ci ha cercati e ritrovati, che ci ha dato non solamente la salvezza, ma la pienezza della sua vita, facendoci dono del suo Spirito.
La carità, dunque, che cos’è? La carità è, per chi vive nella storia nuova, nata dalla Pasqua di Gesù, la via per custodire e far fiorire il dono di Dio.
Ogni cristiano, ma certamente chi assume qualche responsabilità nella Chiesa del Signore, deve essere in modo semplice e forte presente in quell’uomo che, scendendo da Gerusalemme a Gerico, è incappato nei briganti, è stato percosso ed è rimasto mezzo morto sulla strada.
Noi siamo fratelli e la prima forma, la più umile e dolorosa, di comune partecipazione, è la nostra partecipazione alla condizione di poveri peccatori. Per conoscere il prossimo e la meraviglia del prossimo è necessario riconoscersi in quell’uomo ferito sulla strada. È significativo che la strada sia in discesa: per andare a celebrare la Pasqua si sale verso Gerusalemme e Gesù stesso nel suo ultimo grande viaggio lascia l’assolata Gerico e la letizia dei due ciechi che lo lodano perché hanno ricevuto da lui il dono della luce, e si incammina per quella strada che conduce rapidissima verso Gerusalemme.
Si sale verso la Pasqua. Quest’uomo invece scende. È una descrizione simbolica e mirabile della vita, della povertà della vita, dell’infedeltà, forse dell’inevitabile pesantezza della storia.
Passare accanto
Se i seguaci di Cristo si trasformassero in ipotetici monumenti di virtù, in statue di perfezione, certamente non si collocherebbero su quella strada che il Cristo senza peccato ha percorso venendosi a sedere, pietoso, accanto alla nostra miseria. Questa è una regola severa, assoluta. Ma, «passandogli accanto, lo vide e ne ebbe compassione».
Prima è passato il sacerdote, ha visto, è andato oltre; è passato il levita, ha visto ed è andato oltre. Il sacerdote e il levita sono i rappresentanti dell’antica economia e quindi esprimono la massima potenza che Dio ha dato agli uomini fino a quel momento. Eppure il male di quell’uomo è talmente grande che anche il sacerdote e il levita vedono e passano oltre. Dunque, il sacerdote e il levita vedono ma passano oltre, perché la legge denuncia il peccato, lo vede, lo grida, perché la legge è santa e quindi rivela la condizione del peccatore, ma non è capace di salvarlo e quindi passa oltre.
Ma giunge il samaritano, il personaggio straniero, misterioso, e di lui il testo dice questa espressione mirabile: «Passandogli accanto lo vide e ne ebbe compassione». È tutto il mistero dell’elezione di Dio. Questo verbo bellissimo della compassione che ha le sue radici nei testi più antichi dell’Antico Testamento ed esprime proprio l’inizio, il primo fiorire della storia di comunione tra Dio e l’uomo.
Affidàti
È molto bella nella parabola la descrizione della terapia, una terapia per strada. Tutti i commentatori cristiani nei secoli hanno gioito all’immagine di quell’olio e di quel vino con cui il misterioso viaggiatore cura quel povero uomo, e tutti hanno visto in essi due segni: l’olio dello Spirito, il vino del sacrificio. E quindi hanno interpretato in modo profondo la terapia che il grande medico fa sulla persona e sulla vita intera di quel povero uomo, su quella strada che era una strada di perdizione e di morte.
C’è poi l’ultimo atto della parabola. Dice che questo pellegrino è un viaggiatore. Come voi sapete, infatti, deve risalire alla casa del Padre, allora porta all’albergo, in quella taverna, il suo amico, che lui ormai considera un suo fratello. Ancora si prende cura di lui. Che bello questo verbo! Più volte il Nuovo Testamento lo usa e in una espressione fortissima afferma che Dio “si prende cura” della stirpe di Abramo, non degli angeli, ma della stirpe di Abramo, dei poveri figlioli si prende cura.
Ma il viaggiatore deve partire e allora lo affida: il Signore ci ha affidati a qualcun altro, forse fin dal momento in cui siamo nati. Ha scritto Francesco nella sua esortazione Amoris laetitia: «Dio ha affidato alla famiglia il progetto di rendere “domestico” il mondo, affinché tutti giungano a sentire ogni essere umano come un fratello» (n. 183).
Evidentemente, siamo tutti suoi, siamo tutti fratelli di Cristo e figli dell’unico Padre e però abbiamo conosciuto su questa terra meravigliosi segni della paternità di Dio e della fraternità di Cristo attraverso molti sguardi e carezze e pazienze e ammonizioni e attese e preghiere: forze che ci hanno custodito. Questa è la bellezza, la gioia, la forza di questo affidamento. La parabola non dice, per esempio che l’albergatore facesse da mangiare bene, neanche che fosse gentilissimo nei modi; ma l’importante è che siamo affidati, cioè che non dobbiamo camminare da soli.
Purtroppo oggi ci sono pochi che prendono in affidamento, perché siamo dei poveri feriti, siamo tutti dei convalescenti, abbiamo bisogno di essere presi per mano. Nessuno è così sano da poter camminare da solo; nessuno è così sapiente da costruire insieme la sua lezione di vita; nessuno è così forte da non aver paura e angoscia, come un bimbo piccolo davanti al buio della notte. Tutti siamo piccoli e tutti meravigliosamente affidati.
La bellezza di questo gesto supremo di Dio che, invece di consegnarci a un ipotetico cammino solitario, magari con la Bibbia in mano, ci ha affidato alla carne, al volto, alle mani, alla parola dei nostri fratelli. Ci affida a quell’acqua, a quella fonte che è Gesù che continuamente ci rigenera, innanzitutto perché ci sopporta, poi perché ci perdona, poi perché ci ammonisce, poi perché ci accarezza, poi perché ci consola, poi perché ci dà un bacio.
«Oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti. Come il viandante occasionale della nostra storia, ci vuole solo il desiderio gratuito, puro e semplice di essere popolo, di essere costanti e instancabili nell’impegno di includere, di integrare, di risollevare chi è caduto; anche se tante volte ci troviamo immersi e condannati a ripetere la logica dei violenti, di quanti nutrono ambizioni solo per sé stessi e diffondono la confusione e la menzogna. Che altri continuino a pensare alla politica o all’economia per i loro giochi di potere. Alimentiamo ciò che è buono e mettiamoci al servizio del bene» (n. 77).
A questo punto la lezione la dobbiamo continuare noi, perché Gesù ci dice: “adesso tu va’ e fa altrettanto”. Dunque, la sfida globale è di rispondere in fraternità a questa pandemia che ci chiama a una maggiore consapevolezza e cooperazione ecumenica e interreligiosa.
- Enzo Petrolino è presidente delle Comunità del diaconato in Italia.