Per la IV Giornata mondiale dei poveri raccogliamo l’interrogazione e il confronto tra alcuni amici che operano nell’ambito della carità: Alessio Antonioli (Caritas della diocesi di Cremona), Davide Boldrini e Lucia Vincenti (Centro di ascolto delle povertà delle parrocchie della città di Mantova), Roberto Bernasconi (direttore della Caritas di Como), Umberto Luppi (per la traduzione del testo biblico).
- Quale motivo della IV Giornata mondiale dei poveri papa Francesco ha scelto un versetto del libro del Siracide. Che cosa ci suggerisce?
La traduzione della Bibbia CEI di Siracide 7,32 suona: “al povero tendi la tua mano”. Un’altra legittima traduzione può essere: “al povero stendi la tua mano”. Al di là della più opportuna traduzione in lingua italiana, ci piace raccogliere ogni possibile sfumatura di significato.
La mano stesa o distesa non è, innanzi tutto, una mano chiusa, tanto meno un pugno minaccioso. La mano stesa è una mano aperta, in evidente, universale, segno di amicizia e di fraternità. Solo una mano stesa e aperta è predisposta a fare e a donare qualcosa. La mano tesa – come del resto il braccio teso – è altresì protesa, ossia volta ad avvicinare, forse senza mai raggiungere, sino a toccare. È una mano spinta da un sentimento insopprimibile e ormai guidata da una precisa volontà.
L’equivalente ebraico antico-testamentario del verbo greco usato dal Siracide potrebbe essere natah: quello attraverso il quale Dio tende il suo braccio verso il suo popolo o verso i poveri che lo invocano. Dio stesso dunque si lascia smuovere, distendendosi verso i poveri – se così si può dire – con sentimenti di compassione e di misericordia: i sentimenti che precedono o comprendono l’azione divina.
Nella parabola del samaritano troviamo in fondo la stessa successione, non necessariamente temporale: prima il samaritano si commuove e poi compie un’azione, un’opera. Se questo accade nell’umano, è perché è accaduto e accade continuamente in Dio. Ci piace pensare così.
- Tendere la mano – senza toccare – sembra un gesto pensato per la carità nei tempi della pandemia. Chi non riusciamo o non possiamo toccare?
Il pensiero va immediatamente ai senza dimora e a tutte le persone, gravemente emarginate, che non hanno una casa o la cui casa è letteralmente la strada. Le incontriamo e le conosciamo da anni. Tendere la mano verso di loro è diventato sempre più complicato. Le nostre opere – rigorosamente sottoposte alle norme antivirus – sono state limitate. Nonostante mani cerchino di protendersi, resta una distanza che non vorremmo.
Comprendiamo come questa distanza possa persino accrescere sentimenti di rabbia in esistenze così fragili e assai stressate dalla fatica di vivere. Possiamo leggere, almeno in parte, in questa chiave l’uccisione di don Roberto Malgesini a Como, uno che con la gente che vive in strada ci stava tutti i giorni.
Nei mesi dello scorso inverno e di primavera i dormitori hanno trattenuto a lungo le persone che erano già in ospitalità. Ora, in vista del nuovo inverno, i dormitori e i Centri sono stati riaperti, ma per numeri più piccoli e con modalità di accesso molto più accorte e selezionate (in ossequio alle norme). Questa situazione è molto delicata.
Ci saranno ancora più persone per strada, nelle “zone rosse”, semideserte, in cui quasi tutto ciò che è solitamente aperto al pubblico sarà chiuso e in cui, quindi, verrà meno ogni già scarsa possibilità di relazione. Tra queste persone che vivono in strada ci sono casi di positività al virus: si potrebbero seriamente ammalare e ammalare altri. Siamo preoccupati.
Insieme ai senza dimora che da tempo conosciamo o che sappiamo migrare frequentemente da una città all’altra in cerca di una qualche assistenza, la nostra osservazione cade – dai precedenti mesi di chiusura e sino ad oggi – su persone che vivevano e vivono giocoforza di prostituzione: soprattutto transessuali e donne straniere. Il gioco spietato della tratta e dello sfruttamento abbandona facilmente la carne che non più non rende. Le definizioni di papa Francesco circa le “vite di scarto” e i “vuoti a perdere” risultano a noi, specie su queste persone, quanto mai appropriate.
- Con quali altri poveri si incrocia il nostro sguardo?
Ci è facile dire che il nostro sguardo incrocia sempre più persone povere: è una visione comune, prima di una analisi e di numeri che possiamo dare. Si sta intensificando la povertà delle persone già povere e di cui conosciamo i faticosi tentativi, accompagnati da anni, di rimettersi in piedi. Insieme – cercando di non rinunciare ad ascoltare e a guardare negli occhi esaltati dall’uso delle mascherine–- stiamo incrociando nuovi sguardi di persone che non abbiamo mai incontrato prima: persone con famiglie. Portano per la prima volta appunto nel loro sguardo il timore e il pudore di dover chiedere aiuto.
Sono persone italiane e straniere. Sono persone straniere che vivono in Italia da anni oppure persone straniere abbandonate dalle istituzioni per effetto dei vari decreti-sicurezza, ovvero persone transitanti in Italia verso altre mete: anche giovani minorenni non accompagnati, provenienti dalla rotta balcanica e rivolti alle zone di confine. Ma quel che nella visione d’insieme della crisi determinata dal virus risulta chiaro è che tra i poveri ci sono molti più italiani autoctoni, anche qui nelle nostre parti lombarde.
Ai casi di sovraindebitamento familiare la crisi conseguente al virus sta assestando un colpo devastante: si tratta soprattutto di nuclei italiani. Italiani e stranieri in difficoltà appartengono poi a quella sempre più ampia zona caratterizzata dal colore grigio, composta da chi, da troppo tempo, vive di lavoro assai precario, sempre temporaneo, breve e brevissimo, mal-retribuito sino allo sfruttamento, un poco in chiaro e un poco in nero (da cui la definizione di grigio), quando non del tutto nero.
Certamente su queste persone pesa la scarsa oculatezza nell’uso delle risorse che caratterizza la vita dei poveri, ma pure su di loro ora si riverbera l’effetto dei licenziamenti, dei contratti a termine non rinnovati, della cassa integrazione che non è arrivata, del lavoro a domicilio o nelle strade che più non si può fare… delle liti e dei maltrattamenti familiari, dell’isolamento e della solitudine senza reti in cui tutti possiamo sprofondare.
- Siamo sulla stessa barca?
La crisi determinata dal Covid-19 sta mostrando quanto siamo dipendenti gli uni dagli altri, da un capo all’altro del mondo. Ma sta pure mostrando che i poveri sono sempre quelli che pagano di più e che pagano per tutti. Sono i più esposti alla crisi sanitaria, sia per i lavori più umili che si prestano a fare, sia per le condizioni di vita che hanno.
Sono i primi a pagare nella loro carne gli effetti economici e sociali. Sono – culturalmente ed effettivamente – i più lontani dai servizi sanitari, dalla scuola e dai servizi sociali. Sempre più ci sono poveri che non possiedono neppure i titoli di residenza, condizione senza della quale, non si può neppure accedere ai servizi. In una tale situazione avvertiamo maggiormente quei sentimenti che Francesco ha voluto evocare in questa Giornata dei poveri, anche col versetto del Siracide: non possiamo non cercare allora di tendere e di distendere le mani verso i poveri, da cristiani, nella Chiesa e possibilmente con tutta la Chiesa.
D’altro canto, ci sentiamo noi stessi davvero su questa stessa barca. Assistiamo personalmente all’ampliarsi dello scarto tra ricchi e poveri, anche nelle realtà locali, così come vediamo un progressivo scivolamento verso il peggio. Siamo preoccupati per i nostri figli e per i giovani.
- Quali mani operose si stanno distendendo dalle nostre Chiese locali?
Ricordiamo che le stesse opere e le reti di servizio ecclesiali, diocesane e parrocchiali, sono state colpite e impoverite dal virus e dagli effetti della crisi. Ricordiamo che l’età media delle persone dedicate è e resta avanzata: una parte ha dovuto lasciare temporaneamente o definitivamente e qualcuno non è più tra noi. A questi va il nostro pensiero grato.
Possiamo tuttavia dire che là dove era diffusa e consolidata l’esperienza dell’ascolto e dell’accoglienza dei poveri, le mani non hanno mai cessato di tendersi e di distendersi per tentare la prossimità e per donare generi e aiuti. La raccolta e la distribuzione degli alimentari hanno potuto seguire la misura accresciuta dei bisogni. Non solo. I Centri di ascolto delle povertà diocesani e zonali, oppure le singole parrocchie – per evitare il più possibile gli spostamenti, ma soprattutto per realizzare il principio del decentramento piuttosto che della centralizzazione – hanno continuato a cercare la riduzione della distanza dai corpi dei poveri e hanno impiegato le risorse aggiuntive messe a disposizione dalla Conferenza episcopale e dalla Caritas italiana con saggezza ed esperienza.
Certo, ciò sta avvenendo con dei limiti. Perciò si stanno cercando e impiegando altri fondi e, da qualche parte, si sta pensando alla realizzazione di nuove opere di accoglienza. Le limitazioni poste dalle misure sanitarie e l’incremento dei poveri significano per noi un chiaro appello. Pensiamo che si possa fare un ulteriore sforzo di distensione delle mani. Il caso è serio e riguarda ovviamente tutta la Chiesa.
- Papa Francesco, specie in occasione di queste giornate, dice che sono i poveri ad evangelizzare i cristiani e ad evangelizzare la Chiesa: che cosa vuol dire?
È sorprendente: siamo stati abituati a pensare il contrario, ossia che dovessimo essere noi ad evangelizzare i poveri, almeno attraverso la testimonianza. Ovviamente questo resta vero. Anzi non ce ne dobbiamo affatto dimenticare, presi, come siamo, dalle cose da fare. Dobbiamo sempre chiederci qual è il senso di quel che stiamo facendo. Ma è senz’altro vero quello che dice Francesco.
Ci viene in mente, ad esempio, l’insistenza con cui si rivolgono a noi certi poveri, nei momenti dedicati all’ascolto ma anche nei momenti meno opportuni, per cercare di fiaccare le nostre logiche resistenze. La loro insistenza sembra paragonabile a quella apprezzata dalle parabole a proposito della preghiera: è una voce, magari scomposta e fuori luogo, che il Signore, secondo il Vangelo, vuole comunque ascoltare e gradire.
Quindi anche noi che nella Chiesa diciamo di credere, non dovremmo cessare di ascoltare, quantomeno perché le umane viscere di misericordia, nostre e della nostra gente di Chiesa, restino ben sensibili e attive.
Viene pure in mente la capacità dei poveri di vivere profondamente nell’oggi che è loro concesso, a mostra della grazia del Signore che ogni giorno, giorno per giorno, si realizza. È un miracolo vedere come sanno vivere i poveri in certe condizioni: con poco o con nulla e fra ogni genere, molteplice, di disdetta. I poveri, vivendo nell’oggi, vivono di un miracolo e lo mostrano, senza saperlo dire. La Chiesa dovrebbe notarlo.
- Tendere le mani verso i poveri crea divisioni anche nella Chiesa?
I poveri sono la verifica vivente dell’autenticità della nostra fede e – noi pensiamo – della fede penetrante la Chiesa cristiana. La fede senza le opere è una bella teoria. Oggi, col versetto del Siracide, possiamo dire che la fede senza mani che si tendono e che si protendono e si aprono, non sono mani credibili. Tutti sono in grado di capire da sé.
C’è effettivamente gente che si avvicina o si allontana dalle nostre Chiese proprio perché vedono o non vedono queste mani. C’è pure – è vero – chi si sta allontanando perché non ritiene che la Chiesa debba allungare vistosamente le proprie braccia verso poveri che sono – come abbiamo detto oggi – italiani e stranieri, senza dimora, magari effettivamente un poco pericolosi e naturalmente di dubbia moralità, secondo i canoni.
Alcuni pensano che la Chiesa che si spende per questi poveri non sia la Chiesa giusta. Il Cristo continua ad essere un segno di contraddizione (Lc 2,34).