Uno dei tanti problemi su cui papa Francesco ha fatto risuonare frequentemente la sua forte critica è quello del carrierismo ecclesiastico. Si tratta di quell’atteggiamento per cui persone rivestite di un ministero nella Chiesa, in modo particolare diaconi, preti e vescovi, cercano di raggiungere posizioni di maggior prestigio e potere. Tra le tante espressioni con cui il pontefice ha condannato questo stile possiamo citare quella che egli ha utilizzato qualche mese fa in un discorso ai membri del Pontificio Collegio Spagnolo San Jose di Roma: «Fuggite dal carrierismo: è la vera peste della Chiesa!».
Non si può sottovalutare l’importanza di questo richiamo di Francesco, peraltro già espresso fortemente da Benedetto XVI, perché va a stigmatizzare un atteggiamento che costituisce un grave ostacolo per la vita delle comunità cristiane. È evidente, infatti, che il fatto di cercare in tutti i modi di far carriera all’interno della Chiesa è una manifestazione di difficoltà personali profonde che spingono ad assumere dei comportamenti fortemente distruttivi.
Si tratta, ad esempio, del bisogno incontenibile di essere non solo riconosciuti, ma venerati, e quindi di fuggire in ogni modo da quell’insuccesso che fa parte di ogni servizio e con cui bisogna fare i conti quando ci si prendono delle responsabilità. Possiamo menzionare anche uno stile manipolativo nei confronti delle altre persone, che vengono usate per raggiungere i propri fini senza riuscire ad intessere una relazione realmente disinteressata e amorevole nei loro confronti. Si può citare pure un disprezzo più o meno larvato per la maggior parte degli individui, perché in questo modo si esprime la propria superiorità nei loro confronti, o l’idealizzazione di un gruppo elitario di cui si fa parte perché in questo modo si celebra se stessi. Ancora, persone con queste difficoltà potrebbero essere spente e demotivate oppure fortemente irritate quando non sono accesi i riflettori, cioè laddove manca un contesto che possa promuovere la loro notorietà – dunque, nella maggior parte delle situazioni –, e quindi finire per non fare quasi nulla e per non prendersi alcuna responsabilità, oppure per passare tutta la vita profondamente sdegnati per il fatto di non essere adeguatamente riconosciuti e valorizzati.
Talora, poi, questo senso di grandiosità può rendere molto difficile l’accettazione dell’obbedienza ecclesiale, percepita come un’indebita ferita alla propria straordinaria intelligenza e capacità di discernimento, e più in generale il rimanere in situazioni di marginalità, di povertà, di sofferenza, sentite come un contesto troppo limitato per poter esprimere le proprie grandiose capacità. Anche il gioco di squadra diventa molto difficoltoso, perché persone con queste problematiche tendono ad impegnarsi solamente in contesti nei quali sono i leader indiscussi o in cui comunque si sentono fortemente ammirate, e parimenti a svalutare come inadeguate o sbagliate quelle realtà sulle quali non hanno alcun potere. Insomma, va bene solo quello che fanno loro o che ricade in qualche modo sotto la loro autorità.
L’elenco di atteggiamenti fortemente distruttivi che possono essere assunti da individui con le difficoltà in esame potrebbe continuare. L’aspetto forse più complesso di questo problema, però, è che non di rado esso dipende da gravi immaturità o disturbi sul piano della personalità, per cui i tradizionali mezzi della vita spirituale non sono normalmente sufficienti a rendere possibile un cambiamento effettivo. Insomma, difficilmente ci si libera da problemi del genere.
Ora, pur leggendo con affetto le forti parole di papa Francesco, viene da pensare che esse non possano raggiungere fino in fondo il loro obiettivo nei termini auspicabili. In altre parole, il carrierismo ecclesiastico e le devastanti conseguenze che determina nella vita della Chiesa non sono eliminabili. Come avviene in ogni organizzazione umana, anche nelle comunità cristiane vi sono persone che hanno un’ineludibile (o patologico) bisogno di emergere, che proprio per questo hanno molte più probabilità di fare effettivamente carriera e di accedere a posizioni di alto livello, e che quindi finiscono per promuovere con l’influenza dovuta ai loro ruoli questo stile, soprattutto nei loro sottoposti.
Le parole del Papa, quindi, pur assolutamente giustificate, potrebbero essere completate da un’altra riflessione sulla necessità di accettare la Chiesa così com’è. Chi ha che fare con un vescovo, un presbitero, un diacono o un ministro carrierista, accanto alla necessaria correzione fraterna e ad un coraggioso contributo al discernimento comunitario sui limiti del suo stile, deve rassegnarsi e portarne il peso, senza pretendere che costui si tolga di mezzo, e anzi voler bene a questa persona così com’è. Le alternative, infatti, non sono praticabili.
Cambiare la propria comunità cristiana – ammesso che sia praticamente possibile – significherebbe solo trovare figure di riferimento con difficoltà analoghe o tutt’al più con problemi differenti. Peggio ancora, cercare di dar vita a percorsi ecclesiali alternativi ispirati ad una maggiore fedeltà evangelica comporterebbe alla fin fine costruire qualcosa di peggiore della comunità che si è lasciata, forse non sul piano del carrierismo ma sicuramente per altri aspetti. La ragione è che la Chiesa è una sola, e quando si strutturano realtà alternative ad essa perché scandalizzati dalla povertà e dalla miseria dei cristiani, soprattutto di chi esercita un ruolo di responsabilità, alla fine ci si allontana dal luogo in cui comunque lo Spirito agisce nel modo più pieno. Potrà sembrare paradossale, ma Dio si rende presente proprio in questa Chiesa, in quella che talora è guidata da carrieristi. Essa, ed essa sola, resta comunque la sua famiglia.
La terapia mi sembra incompleta