Cinquant’anni dal convegno sui “mali di Roma”

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Il 19 febbraio scorso la diocesi di Roma ha inteso fare memoriale del convegno che si è tenuto cinquant’anni or sono (precisamente fra il 12 e il 15 di quel mese) con assemblee generali nella basilica di San Giovanni e territoriali nei diversi settori della diocesi.

L’evento molto partecipato ha ospitato, dopo l’introduzione del cardinal vicario Angelo De Donatis, le relazioni di Giuseppe De Rita (fra i relatori di quel convegno), Andrea Riccardi, allora giovane laureando, ma partecipe alle riunioni tenutesi nel settore Est, di Luigina Di Liegro, nipote di don Luigi, fra i principali protagonisti del convegno, e Giustino Trincia, direttore della Caritas romana, che si può ritenere generata da quel momento storico.

Le chiavi di lettura che sono state offerte in sede di «ri-presa» dell’evento svoltosi messo secolo fa possono essere diverse. Qui mi limito a offrire elementi per un’ermeneutica teologica di quanto è accaduto allora e sta avvenendo nell’oggi della diocesi di papa Francesco, con la premessa che si è trattato della prima volta in assoluto che la Chiesa romana in quanto tale ha inteso non solo ricordare, ma direi ri-vivere quello che non fu solo un episodio del suo cammino nella storia della città e, oserei dire del Paese.

Offro queste annotazioni in qualità di teologo e a titolo personale e non come direttore dell’ufficio cultura del vicariato e membro del tavolo di lavoro che sta programmando gli eventi.

«Mito fondatore»

Una riflessione introduttiva, che esprime anche un’impressione che non mi sembra marginale, l’avrei individuata nella mitizzazione di Febbraio ’74 e di alcune sue figure particolarmente rappresentative. E questo, innanzitutto, perché i protagonisti di queste giornate hanno sottolineato come in quell’evento che sembra così lontano si è dato vita alla soggettività ecclesiale della realtà romana, con una propria, necessaria autonomia rispetto alla curia e ad una concezione esclusivamente burocratica del vicariato.

Lungi da chi scrive l’intenzione di voler «demitizzare» l’evento e i personaggi, essendo consapevole di quanto papa Francesco in più occasioni ha sostenuto circa il carattere «mitico» della nozione di «popolo». In un’intervista rilasciata a Dominique Wolton e riportata in un libro edito in Italia nel 2017, il vescovo di Roma disse:

«C’è un pensatore che lei dovrebbe leggere: Rodolfo Kusch, un tedesco che viveva nel nord-ovest dell’Argentina, un bravissimo filosofo e antropologo. Lui ha fatto capire una cosa: che la parola “popolo” non è una parola logica. È una parola mitica. Non si può parlare di popolo logicamente, perché sarebbe fare unicamente una descrizione. Per capire un popolo, capire quali sono i valori di questo popolo, bisogna entrare nello spirito, nel cuore, nel lavoro, nella storia e nel mito della sua tradizione. Questo punto è veramente alla base della teologia detta “del popolo”. Vale a dire andare con il popolo, vedere come si esprime. Questa distinzione è importante. Il popolo non è una categoria logica, è una categoria mitica».

Interessante potrebbe essere per noi rilevare che il fatto che il pensatore di riferimento del papa si ispiri a sua volta al pensiero heideggeriano, criticamente assunto nella distinzione fra «essere» e «stare», qualificando con la prima categoria la visione razionalista e dominatrice dell’uomo occidentale e con la seconda la visione degli indigeni latinoamericani, che vivrebbero in armonia con la natura che li circonda e animati, appunto, da un orizzonte mitologico.

Possiamo quindi sostenere che, con le iniziative che quest’anno intende mettere in atto, la Chiesa di Roma «celebra» il proprio «mito fondatore». Come in ogni mito, è stato necessario individuare degli antagonisti, che i relatori principali (Riccardi e De Rita) hanno indicato rispettivamente nell’allora ausiliare Fiorenzo Angelini e nel successore di Poletti Camillo Ruini. E, a proposito di quest’ultimo, per la mia esperienza personale, mi sentirei di proporre una visione demitizzante della sua figura e della sua visione.

Istanze innovative

Il carattere diocesano e quindi di «Chiesa locale» di questa realtà, che rischia di diluirsi nei meandri dell’universalismo, emerge con chiarezza (e forse per questo è risultato a molti presbiteri e vescovi ostico) nella riforma che è stata avviata con la costituzione apostolica In ecclesiarum communione, promulgata il 6 gennaio 2023 e che, con notevole fatica, si sta cercando di attuare.

Le obiezioni, prevalentemente di carattere giuridico, avanzate nei confronti del documento, svaniscono di fronte alle istanze innovative, che si possono scorgere nel testo e in particolare riguardo al ruolo dei vescovi (vicegerente e ausiliari), cui viene riconosciuta per il territorio cui sono preposti (e, per il vicegerente, l’intera diocesi) potestà di giurisdizione.

Non si tratta, come qualcuno ha insinuato, di costituire cinque diocesi (una per settore), ma di valorizzare il sacramento dell’episcopato, alla luce del Vaticano II, anche perché precedentemente era molto diffusa la percezione degli ausiliari come chierichetti del vicario, deputati prevalentemente a presiedere le cresime nelle diverse parrocchie. Si tratta di un notevole passo avanti anche rispetto agli esiti di Febbraio ’74.

Tale opzione fondamentale esige la comunione fra i vescovi, che dovrebbe esprimersi nel consiglio episcopale e richiama la sinodalità. Questa attitudine il convegno di cinquant’anni fa l’ha vissuta pienamente, affrontando le diverse problematiche e mettendo in relazione le diverse prospettive nelle assemblee di base, che, ad esempio, videro la partecipazione attiva di personaggi quali Luciano Tavazza, Pietro Scoppola, l’abate Franzoni, don Roberto Sardelli ecc.

La grande libertà e onestà intellettuale che si è espressa in quella occasione è stata motivo di diffidenza sia da parte delle forze politiche che all’epoca governavano la città, sia da parte della Segreteria di Stato, la cui figura determinante era il sostituto Giovanni Benelli.

La determinazione del card. Ugo Poletti, che si avvaleva della collaborazione di don Luigi Di Liegro e di padre Clemente Riva, con il sostegno di Paolo VI, ha consentito non solo la celebrazione di un evento, ma l’assunzione di uno stile di dialogo, discussione, ascolto, successivamente presto dimenticato o archiviato.

Evangelizzazione è promozione umana

Il nodo culturale e teologico, che sarà in particolare tematizzato nel primo convegno della Chiesa italiana, celebrato a Roma nel 1976, è stato, e direi è ancor oggi, il nesso evangelizzazione e promozione umana.

Due realtà da non contrapporre, né da subordinare l’una all’altra, ma da pensare non tanto attraverso la congiunzione «e», quanto attraverso la copula «è» nella formula: l’evangelizzazione è promozione umana, o non è neppure trasmissione dell’evangelo.

Il prosieguo del percorso che vedrà la comunità romana impegnata in diversi luoghi del territorio a riflettere in forma assembleare sull’emergenza educativa (in una scuola), la diseguaglianza sanitaria (in un policlinico), la problematica abitativa (in un quartiere) e quella lavorativa (in una struttura dedicata) sarà occasione per declinare questa identità fra vangelo e umano, che va oltre il puro e semplice nesso strutturale e, tanto meno, convenzionale.

Un ultimo evento assembleare farà sintesi e lancerà proposte perché si possa incarnare quanto vissuto e appreso.

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