6 agosto 1964: Ecclesiam suam
6 agosto 1978: morte di Paolo VI
Accedendo al duomo nuovo di Brescia e procedendo lungo la parete di sinistra, il nostro sguardo viene attratto da una statua bronzea dedicata a papa Paolo VI, parte del monumento realizzato dall’artista Raffaele Scorzelli. Il pontefice è rappresentato chino, poggiato sull’asta di una croce inarcata, tutto concentrato sul solenne momento dell’apertura della Porta Santa nella notte di Natale del 1974. Ma, come la croce che lo sostiene, anche il papa è piegato, e con lui prende piega un ampio e pesante mantello da cui è interamente avvolto. Una immagine, questa, che nel complesso turba e commuove.
Un tema nuovo
Dieci anni prima, esattamente il 6 agosto 1964, Paolo VI aveva pubblicato la sua enciclica programmatica Ecclesiam suam, presto battezzata «enciclica del dialogo». Per la prima volta nella storia della Chiesa, infatti, un documento magisteriale aveva scelto come filo conduttore un termine allora inconsueto.
Per considerare lo sfondo storico-teologico dello scritto di Paolo VI, dobbiamo annotare con un grande teologo come Hans Urs von Balthasar che, se si guarda ai due millenni passati di teologia cristiana, stupisce che al dialogo fosse stato fino ad allora riservato così poco spazio. Grazie all’Ecclesiam suam aveva però ora inizio l’epoca del dialogo, con il passaggio da una concezione di Chiesa quale societas perfecta, dunque autocentrata, ad una Chiesa che si rivolgeva al mondo con spirito di servizio, consapevole della propria missione e, al contempo, dell’innegabile contributo ricevuto dal mondo.
Ma cosa intendeva proporre il pontefice con quel “manifesto” del dialogo?
Non ci è dato in questa sede approfondire i tanti spunti di riflessione che potrebbero emergere da una lettura attenta dell’Ecclesiam suam. Ci limitiamo perciò a sottolineare alcuni elementi che appaiono più adatti a dare forma e sostanza a quel dialogo che oggi, evaporato nelle nebbie dei suoi mille usi, è oggetto di non pochi fraintendimenti anche nell’ambito teologico.
Il fondamento teologico
In accordo con una fiduciosa apertura al mondo, Paolo VI esprimeva la convinzione che la Chiesa fosse essa stessa chiamata a divenire dialogo (colloquium), costituendo quest’ultimo un «dovere congeniale al patrimonio ricevuto da Cristo» e modellato sullo spirito di carità.
Lungi dal rinvenire alla base del dialogo una mera ragione di convenienza, il pontefice ne riconosceva un esplicito fondamento teologico e assumeva la sua origine trascendente, divina, quale archetipo dell’incontro tra Chiesa e mondo: «Ecco, Venerabili Fratelli, l’origine trascendente del dialogo. Essa si trova nell’intenzione stessa di Dio. La religione è di natura sua un rapporto tra Dio e l’uomo. La preghiera esprime a dialogo tale rapporto. La rivelazione, cioè la relazione soprannaturale che Dio stesso ha preso l’iniziativa di instaurare con la umanità, può essere raffigurata in un dialogo, nel quale il Verbo di Dio si esprime nell’Incarnazione e quindi nel Vangelo. Il colloquio paterno e santo, interrotto tra Dio e l’uomo a causa del peccato originale, è meravigliosamente ripreso nel corso della storia. La storia della salvezza narra appunto questo lungo e vario dialogo che parte da Dio, e intesse con l’uomo varia e mirabile conversazione».
Da notare con attenzione che un tale colloquium con il mondo, con i credenti di altre religioni e con i cristiani separati era in realtà inteso dal papa come il terzo atteggiamento della Chiesa, coordinato intimamente con un esercizio di autocoscienza ecclesiale e con un impulso di rinnovamento dei propri membri. Un dialogo, quindi, che non solo non può trovarsi isolato rispetto ad altre iniziative complementari, ma che neppure può essere confuso con un cammino privo di finalità veritative.
Osserviamo, perciò, che, tanto per l’Ecclesiam suam che per i successivi documenti conciliari, non si trattava affatto di promuovere un semplice atteggiamento di apertura, un’entusiastica empatia in rapporto all’altro, necessitando anche la disposizione dialogica di un’adeguata preparazione, di una vera e propria «educazione al dialogo».
Bellezza e rischi
Un tale colloquium salutis – così in realtà lo qualificava Paolo VI – implica che il dialogo cristiano abbia come sfondo e orientamento l’annuncio di salvezza in Cristo.
Ma questo dialogo è caratterizzato anche da una forma particolare, sia nelle relazioni con i cristiani delle altre Chiese, che con i credenti di altre religioni o i non credenti.
Il suo typos esemplare viene invero offerto dall’abbassamento (kènosis) del Figlio di Dio che «svuotò se stesso, assumendo la condizione di servo» (Fil 2,7). E l’icona di un pontefice che dialoga con il mondo inginocchiato e piegato su di sé sotto la croce è perfettamente conforme a questo atteggiamento kenotico, di disponibilità diaconale.
La relazione con il mondo non è affatto esente da risvolti drammatici, come precisava il papa, allorché avvertiva che «questo immanente contatto della Chiesa con la società temporale genera per essa una continua situazione problematica, oggi laboriosissima». Ciò significa che in ogni vero dialogo si attiva una relazione complessa, tormentata, finanche “agonica”, poiché il dialogo non è minimamente una felice sovrapposizione (identità) di due o più logoi ma il rischioso e mai garantito transito tra di essi, un movimento che potrebbe rivelare nuove e inattese ricchezze come pure tormentose e insolubili difficoltà. Che il «papa del dialogo» sia stato ritratto nel monumento a lui dedicato in un atteggiamento umile e disponibile, ma anche sofferente e carico di responsabilità, dovrebbe dire molto a coloro per i quali il termine “dialogo” è ormai scaduto in un mantra compulsivo che assume i tratti di una logorata avventura vacanziera.
6 agosto 1978
Dicevamo che il 6 agosto 1964 Paolo VI pubblicò l’enciclica del dialogo. Ricordiamo ora che il 6 agosto 1978 – festa della Trasfigurazione – il pontefice tornò alla Casa del Padre.
Dopo avere dedicato gran parte del suo pontificato a un coraggioso e difficile dialogo con il mondo, poteva finalmente incontrarsi «faccia a faccia» con quel Logos che è la fonte di ogni vero dia-logos.
Del lascito del beato Paolo VI ci rimane tra l’altro la sua sofferta martyria sgorgata dall’umile e audace apertura dialogica. Nel suo sguardo sofferente riconosciamo, con stupita ammirazione, il riflesso dei volti spesso dolenti di quei grandi uomini che, in nome del Vangelo, non si sono sottratti alla sfida del dialogo di salvezza.